Reddito di cittadinanza e sanzioni: cosa si intende per “ottenere indebitamente il beneficio”?

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In relazione al reato di cui all’art. 7, co. 1, decreto-legge n. 4 del 2019, convertito, con modificazioni, con legge n. n. 26 del 2019, come devono essere intese le parole “al fine di ottenere indebitamente il beneficio”?

(Riferimento normativo: Decreto legge, 28/01/2019, n. 4, convertito, con modificazioni, con legge, 28/03/2019, n. 26, art. 7, co. 1)

Indice:

Il fatto

Il Tribunale di Ragusa, in funzione di giudice del riesame dei provvedimenti cautelari reali, aveva rigettato un ricorso presentato dall’indagata avverso un provvedimento di sequestro preventivo emesso dal Gip del Tribunale di Ragusa a suo carico, essendo costei stata accusata di avere violato l’art. 7, comma 1, del decreto-legge n. 4 del 2019, convertito con modificazioni con legge n. 26 del 2019, per avere omesso di fornire in occasione della presentazione della relativa istanza, le complete informazioni concernenti la sussistenza dei requisiti per il godimento del cosiddetto “reddito di cittadinanza“, ed avente ad oggetto la carta di debito sulla quale erano state riversate le relative rimesse finanziarie nonché le somme a tale titolo esistenti sulla predetta carta di debito.

I motivi addotti nel ricorso per Cassazione

Avverso il provvedimento summenzionato era proposto ricorso per Cassazione attraverso il quale venivano dedotti i seguenti motivi:

1) violazione di legge in cui sarebbe incorso il Tribunale nel ritenere integrato il fumus delicti sebbene non fosse in discussione il fatto che la indagata avesse diritto al beneficio in questione, pur se si fosse tenuto conto, nel calcolo degli elementi necessari per il conseguimento del beneficio, del fatto che il padre di lei era detenuto; orbene, tale rilievo, ad avviso della ricorrente, sarebbe significativo posto che la norma in oggetto individua, come condizione per la rilevanza penale della condotta, il fatto che essa sia finalizzata alla indebita percezione del reddito di cittadinanza, tenuto conto altresì del fatto che, sempre secondo la difesa, non sarebbe nemmeno pensabile che la sua condotta fosse sussumibile nel paradigma del comma 2 del citato art. 7 del di n. 4 del 2019 posto che questo fa riferimento ai termini temporali indicati in talune disposizione legislative fra le quali, però, non vi è l’art. 3, comma 13, del citato decreto-legge che era la disposizione che sarebbe stata violata dall’indagata;

 

2) dal momento che il sequestro de quo era stato eseguito su somme spettanti a terzi atteso che le stesse, ove indebitamente corrisposte, avrebbero dovuto essere restituite all’INPS, secondo il difensore, avrebbe dovuto pertanto trovare applicazione il comma terzo dell’art. 240 cod. pen. che vieta la confisca di beni appartenenti a soggetti terzi al reato ai quali, in caso di confisca, le stesse non potrebbero essere restituite dal percettore a pena di duplicazione indebita dell’esborso a carico di questo.

Vedasi sull’argomento: “Le sanzioni previste in materia di reddito di cittadinanza: vediamo in cosa consistono” 

Le valutazioni giuridiche formulate dalla Cassazione

Il ricorso era stimato infondato e, pertanto, esso veniva rigettato per le seguenti considerazioni.

Quanto alla seconda doglianza, la tesi difensiva fatta propria dalla ricorrente difesa, ad avviso del Supremo Consesso, era viziata in diritto atteso che, una volta versate al soggetto destinatario della rimessa finanziaria le somme di danaro in questione, questi ne acquisisce la piena titolarità, salva, ovviamente, la sussistenza di una autonoma obbligazione alla restituzione del tantundem eiusdem generis laddove emerga che il versamento sia stato eseguito in assenza di una valida causa solvendi; il tutto in conformità ai principi ordinariamente applicabili alla ben nota figura civilistica della ripetizione di indebito, costituente fonte di obbligazione ai sensi del combinato disposto degli artt. 1173 e 2033 cod. civ., e, quindi, poiché analogo discorso doveva intendersi applicabile, alla luce dell’art. 2037 cod. civ., anche alla carta di debito, cosa determinata che l’indagata sarebbe stata obbligata a restituire al soggetto che l’aveva emessa laddove fosse emerso che la consegna alla ricorrente non fosse stata giustificata, risultava essere evidente, sempre a parere della Corte di legittimità, che la stessa impostazione giuridica, che la parte ricorrente aveva attribuito alla fattispecie, sostenendo che il sequestro fosse ricaduto su di un bene appartenente ad un terzo, non aveva ragion d’essere posto che cosa ben diversa, proprio dal punto di vista della dogmatica giuridica, è essere soggetto terzo titolare di una posizione soggettiva immediatamente pertinente un bene soggetto a confisca ed essere, invece, semplicemente soggetto creditore in un rapporto obbligatorio avente ad oggetto la restituzione del bene in questione; conseguenza di tale diversa qualità di posizioni giuridiche é che, mentre nel primo caso, potrebbe entrare in giuoco la limitazione operativa alla misura di sicurezza, nel secondo caso, una siffatta ipotesi è per la Cassazione indubbiamente da scartare.

Ciò posto, quanto alla prima doglianza, si evidenziava prima di tutto, in relazione a quanto prospettato dall’impugnante, fermo restando che l’art. 7, comma 1, del decreto-legge n. 4 del 2019 sanziona, con la reclusione da 2 a 6 anni la condotta di chi, “rende o utilizza dichiarazioni o documenti falsi o attestanti cose non vere, ovvero omette informazioni dovute” in quanto ciò avvenga “al fine di ottenere indebitamente il beneficio di cui all’art. 3” dello stesso decreto-legge, che la piana interpretazione letterale delle parole utilizzate dal legislatore avalla, in effetti, la tesi della ricorrente secondo la quale la sussistenza del reato presuppone che la condotta dell’agente fosse volta al conseguimento di un beneficio, appunto il “reddito di cittadinanza“, indebito, per tale intendendosi quello che, laddove questi non avesse reso dichiarazioni mendaci, prodotto documentazioni materialmente o ideologicamente false o, infine, avesse fornito tutte le informazioni dovute, non gli sarebbe stato riconosciuto, in guisa tale che conseguenza di tale interpretazione è che nel caso in cui, all’opposto, egli fosse stato comunque legittimato ad accedere al beneficio – non avendo, pertanto, alcuna efficacia causale ai fini della sua erogazione le dichiarazioni mendaci, i documenti falsi ovvero le informazioni non fornite – il reato stesso non sarebbe configurabile.

Orbene, a fronte di ciò, gli Ermellini facevano presente che una siffatta tesi parrebbe essere osteggiata, come d’altra parte rilevato anche nella ordinanza impugnata, dalla giurisprudenza della stessa Cassazione avendo tale Corte ritenuto che il reato di cui all’art. 7 del decreto-legge n. 4 del 2019, convertito, con modificazioni, con legge n. n. 26 del 2019, è integrato dalle false indicazioni od omissioni di informazioni dovute, anche parziali, dei dati di fatto riportati nell’autodichiarazione finalizzata all’ottenimento del “reddito di cittadinanza” indipendentemente dalla effettiva sussistenza delle condizioni di reddito per l’ammissione al beneficio in questione (Corte di cassazione, Sezione III penale, 10 febbraio 2020, n. 5289, nonché, sebbene la sentenza non sia stata oggetto di massimazione sul punto, anche: Corte di cassazione, Sezione III penale, 9 settembre 2021, n. 33431).

In particolare, nell’affermare il predetto principio, il Supremo Consesso ha richiamato i principi formatisi in applicazione della normativa in materia di ammissione al patrocinio giudiziario a spese dello Stato dei soggetti non abbienti (cfr. infatti: Corte di cassazione, Sezione IV penale, 10 aprile 2017, n. 18107; e le altre numerose sentenze richiamate dalla Corte in occasione della pronunzia della sentenza n. 5289 del 2020; vedasi anche in senso sostanzialmente riduttivo della rigidità del principio di cui alle sentenze precedentemente richiamate: Corte di cassazione, Sezioni unite penali, 12 maggio 2020, n. 14723) essendo stato affermato che la regola sopra richiamata sarebbe espressione del generale principio antielusivo che si incardina sulla capacità contributiva del cittadino ai sensi dell’art. 53 della Costituzione la cui ratio risponde al più generale principio di ragionevolezza di cui all’art. 3 della Costituzione; per cui la punibilità del reato di condotta si rapporta, ben oltre il pericolo di profitto ingiusto, al dovere di lealtà del cittadino verso le istituzioni dalle quali riceve un beneficio economico.

Più nel dettaglio, sulla base di tale rilievo, i giudici di piazza Cavour hanno ritenuto come le fattispecie incriminatrici previste dall’art. 7 del decreto-legge n. 4 del 2019 trovino applicazione indipendentemente dall’accertamento della effettiva sussistenza delle condizioni per l’ammissione al beneficio e in particolare, dall’accertamento del superamento delle soglie reddituali di legge, osservandosi al contempo che siffatto indirizzo neppure è posto in crisi dalla formulazione letterale della disposizione in questione la quale, per le violazioni di cui al comma 1 (che più direttamente interessano la fattispecie ora in esame), si riferisce “al fine di ottenere indebitamente il beneficio” atteso che il riferimento deve essere inteso come diretto a qualificare i dati che sono in sé rilevanti ai fini del controllo, da parte della amministrazione erogante, della ricorrenza delle condizioni per il riconoscimento ed il mantenimento del beneficio tenuto conto altresì del fatto che si è ritenuto di aderire a siffatta opzione ermeneutica in quanto il legislatore ha inteso creare un meccanismo di riequilibrio sociale il cui funzionamento presuppone necessariamente una leale cooperazione fra cittadino ed Amministrazione, che sia ispirata alla massima trasparenza, e da ciò, pare intuirsi, quindi, che la sanzione penale costituirebbe la reazione da parte dell’ordinamento ad una forma di violazione del patto di leale cooperazione che sarebbe intercorso fra il cittadino e la Amministrazione in ordine alla possibile erogazione del beneficio di cui sopra.

Ebbene, la Suprema Corte, tuttavia, riteneva di non aderire a questo orientamento nomofilattico posto che esso risulta a sua avviso essere dichiaratamente costruito sulla base dei principi che si sono formati sulla materia dell’ammissione al beneficio del patrocinio giudiziario dei non abbienti a spese dello Stato secondo le regole dettate dal dPR n. 115 del 2002, in particolare in relazione alla fattispecie penale dettata dall’art. 95 del citato dPR n. 115, mentre tale citato termine di riferimento argomentativo veniva reputato del tutto soddisfacente dato che – a prescindere dalla possibile opportunità di una complessiva rivalutazione dei termini della materia alla luce della citata sentenza delle Sezioni unite penali, n. 14723 del 2020, laddove si pone in evidenza la primaria rilevanza costituzionale degli interessi che la specifica normativa in tema di patrocinio a spese dello Stato è volta a garantire (non diversamente da quelle che, quanto meno nelle intenzioni del legislatore, sono le finalità della erogazione del “reddito di cittadinanza“, essendo questo, evidentemente, destinato a dare attuazione al precetto costituzionale che, in base al comma secondo dell’art. 3 della Carta fondamentale, assegna alla Repubblica il compito di provvedere per la rimozione degli ostacoli di ordine economico che limitano il pieno sviluppo della persona umana), essendo essi riconducibili, nella estrema sintesi che l’attuale collocazione non di primaria centralità, della questione giustifica, alle esigenze di “tutela del diritto inviolabile alla difesa per la persona sprovvista di mezzi economici” (Corte di cassazione, Sezioni unite penali, 12 maggio 2020, n. 14723) – si osservava che, in ogni caso, il richiamato art. 95 del dPR n. 115 del 2002, nel prevedere le sanzioni penali in caso di falsità o omissività delle dichiarazioni sostitutive di certificazione ovvero nelle altre dichiarazioni cui la disposizione, fa riferimento, mai richiama, come invece espressamente prevede la norma che ora era di più immediato interesse, il fatto che, attraverso di esse, si sia perseguito il fine di accedere “indebitamente” ad un beneficio.

Al contrario, per gli Ermellini, con l’avverbio “indebitamente”, si è inteso fare riferimento non tanto ad una volontà di accesso al beneficio messa in atto non iure, cioè in assenza degli elementi formali che avrebbero consentito l’erogazione, quanto ad una volontà diretta ad un conseguimento di esso contra jus, cioè in assenza degli elementi sostanziali per il suo riconoscimento; cosa che il riferimento alla non dovutezza del beneficio, cioè alla mancanza degli elementi per la instaurazione del rapporto “obbligatorio” sostanziale a carico dello Stato, fa d’altra parte ritenere mentre un diverso argomentare porterebbe a ricondurre la comminatoria di una sanzione penale, cioè la più grave delle sanzioni che l’ordinamento consente, anche alla sola violazione di un obbligo priva di concreta offensività, posto che tale violazione potrebbe non avere condotto, se il beneficio non fosse stato “indebitamente” richiesto, stante la sussistenza di tutte le condizioni sostanziali per la sua erogazione, ad alcun effettivo nocumento per l’ente erogatore.

La Suprema Corte, di conseguenza, alla luce delle considerazioni sin qui esposte, stimava, più in linea con i principi di ordine costituzionale in tema di necessaria offensività del reato, il ritenere che con la espressione “al fine di ottenere indebitamente il beneficio…” il legislatore abbia inteso tipizzare in termini di concretezza il percolo che potrebbe derivare dalla falsità ovvero dalla omissività delle dichiarazioni presentate per il conseguimento del “reddito di cittadinanza” nel senso che la loro rilevanza penale sarà sussistente nei soli casi in cui intenzione dell’agente era il conseguire, attraverso di esse, un beneficio diversamente non dovuto.

Chiarito ciò, declinando tale criterio ermeneutico rispetto al caso di specie, si osservava che, nella fattispecie in esame, il Tribunale di Ragusa – che pur erroneamente, ad avviso della Suprema Corte, aveva ritenuto non necessaria una specifica indagine in ordine alla legittimità sostanziale dell’accesso della ricorrente al beneficio del “reddito di cittadinanza“, cioè in ordine alla sussistenza delle condizioni reddituali necessarie, pur tenuto conto del non dichiarato stato di detenzione penale in cui si trovava il padre di costei per godere del beneficio – aveva tuttavia rilevato che – alla luce delle informazioni rese dalla Guardia di Finanza, la cui sufficienza ai fini del decidere appariva, attesa la presente fase cautelare del giudizio, indiscussa dalla stessa ricorrente che, infatti, sul punto nulla aveva osservato – ove si fosse tenuto conto, come doveroso, del dato omesso dalla indagata, portando questo ad una diversa base di calcolo del suo status economico, ella non si sarebbe trovata nelle condizioni reddituali per accedere al beneficio invece a lei (“indebitamente” allo stato degli atti) erogato.

Il ricorso in questione, pertanto, come accennato in precedenza, era rigettato e la ricorrente era altresì condannata al pagamento delle spese processuali.

Conclusioni

La decisione in esame è assai interessante essendo ivi chiarito, seppur in contrasto con un precedente orientamento nomofilattico, in relazione al reato di cui all’art. 7, co. 1, decreto-legge n. 4 del 2019, convertito, con modificazioni, con legge n. n. 26 del 2019, come devono essere intese le parole “al fine di ottenere indebitamente il beneficio”.

Difatti, se, secondo un pregresso indirizzo interpretativo, il reato di cui all’art. 7 del decreto-legge n. 4 del 2019, convertito, con modificazioni, con legge n. n. 26 del 2019, è integrato dalle false indicazioni od omissioni di informazioni dovute, anche parziali, dei dati di fatto riportati nell’autodichiarazione finalizzata all’ottenimento del “reddito di cittadinanza” indipendentemente dalla effettiva sussistenza delle condizioni di reddito per l’ammissione al beneficio in questione, nella pronuncia qui in esame, invece, è stato diversamente postulato che, sempre in relazione a quanto statuito da siffatta norma incriminatrice, con la espressione “al fine di ottenere indebitamente il beneficio…” il legislatore ha inteso tipizzare in termini di concretezza il percolo che potrebbe derivare dalla falsità ovvero dalla omissività delle dichiarazioni presentate per il conseguimento del “reddito di cittadinanza” nel senso che la loro rilevanza penale sarà sussistente nei soli casi in cui intenzione dell’agente era il conseguire, attraverso di esse, un beneficio diversamente non dovuto.

E’ evidente quindi la ricaduta applicativa di una siffatto filone ermeneutico sul piano pratico atteso che, alla luce di esso, il reato de quo sarà perseguibile nei soli casi in cui intenzione dell’agente è quello di conseguire, attraverso le dichiarazioni presentate per il conseguimento del “reddito di cittadinanza“, un beneficio diversamente non dovuto mentre, sulla scorta dell’altro indirizzo nomofilattico, codesto illecito penale è configurabile indipendentemente dalla effettiva sussistenza delle condizioni di reddito per l’ammissione al beneficio in questione.

Sarebbe dunque opportuno che su tale questione controversa, anche in considerazioni dei numerosi accertamenti che sono stati fatti dalla Guardia di Finanza su tutto il territorio nazionale e da cui sono emerse numerose irregolarità, intervengano il prima possibile le Sezioni Unite al fine di chiarire quale di questi due indirizzi interpretativi debba essa preso in considerazione per interpretare correttamente questa disposizione legislativa.

Non resta che dunque aspettare che posizione assumerà la Suprema Corte, a Sezioni Unite, su siffatta tematica giuridica.

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