Il reato di omesso versamento dell’IVA: la Cassazione fornisce precisazioni

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     Indice

  1. La questione
  2. La soluzione adottata dalla Cassazione
  3. Conclusioni

(Riferimento normativo: D.lgs., 10/03/2000, n. 74, art. 10-ter)

1. La questione

La Corte di Appello di Milano confermava una condanna inflitta ad un imputato dal Tribunale di Milano alla pena di 4 mesi e 20 giorni di reclusione per il reato ex art. 10-ter d.lgs. n. 74 del 2000.

Avverso il provvedimento emesso dai giudici di seconde cure proponeva ricorso per Cassazione il difensore dell’imputato che, tra i motivi ivi addotti, deduceva l’erronea applicazione degli artt. 10-ter d.lgs. n.74 del 2000 e 192 cod. proc. pen. ed il vizio di motivazione sull’accertamento della responsabilità penale dell’imputato.

 2. La soluzione adottata dalla Cassazione

 La Suprema Corte riteneva il motivo summenzionato infondato.

In particolare, gli Ermellini addivenivano alla reiezione di siffatta doglianza attraverso una articolata disamina del reato preveduto dall’art. 10-ter del d.lgs. n. 74/2000 (cioè il delitto di omesso versamento di IVA) che, come è noto, statuisce che è “punito con la reclusione da sei mesi a due anni chiunque non versa, entro il termine per il versamento dell’acconto relativo al periodo d’imposta successivo, l’imposta sul valore aggiunto dovuta in base alla dichiarazione annuale, per un ammontare superiore a euro duecentocinquantamila per ciascun periodo d’imposta”.

Difatti, in tale pronuncia, si affermava innanzitutto che tale illecito penale è un reato omissivo ed istantaneo e che si consuma nel momento in cui scade il termine previsto dalla legge per il versamento dell’acconto relativo al periodo di imposta successivo; ciò che rileva è, quindi, l’indicazione nella dichiarazione di un debito d’imposta e l’inadempimento alla conseguente e corrispondente obbligazione di pagamento, fermo restando che, ai fini della sua configurabilità, l’entità della somma da versare, costituente il debito IVA, deve essere quella risultante dalla dichiarazione del contribuente e non quella effettiva, desumibile dalle annotazioni contabili (così Sez. 3, n. 14595 del 17/11/2017).

Oltre a ciò, una volta fatto presente che il d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, prevede degli specifici obblighi per il contribuente (art. 21 e ss.) dai quali emerge, sia con riferimento all’emissione della fattura che agli obblighi di registrazione, che il soggetto obbligato già all’atto del compimento dell’operazione economica conosce quanto è poi dovuto a titolo di Iva, dovendo essere indicata l’aliquota, e l’ammontare dell’imposta e dell’imponibile, si postulava oltre tutto come il delitto de quo sia punibile a titolo di dolo generico che consiste nella coscienza e volontà di non versare all’Erario le somme dovute a titolo di Iva del periodo considerato, fermo restando che, da un lato, secondo il costante orientamento della giurisprudenza, la prova del dolo è insita nella presentazione della dichiarazione annuale, dalla quale emerge quanto è dovuto a titolo di imposta, e che deve, quindi, essere saldato o almeno contenuto non oltre la soglia, entro il termine lungo previsto, dall’altro, ciò deriva anche dai principi affermati da Sez. U, n. 37424 del 28/03/2103 secondo cui il debito verso il fisco relativo ai versamenti IVA è normalmente collegato al compimento delle operazioni imponibili dal momento che, ogni qualvolta il soggetto d’imposta effettua tali operazioni riscuote già (dall’acquirente del bene o del servizio) VIVA dovuta e, deve, quindi, tenerla accantonata per l’Erario, organizzando le risorse disponibili in modo da poter adempiere l’obbligazione tributaria.


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Detto questo, i giudici di piazza Cavour evidenziavano tra l’altro che, nel corso degli anni, in relazione alla natura giuridica delle prestazioni, la regola è divenuta quella della cd. IVA per cassa e, di conseguenza, il pagamento è il criterio prevalente previsto dall’art. 6 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 per ritenere effettuata l’operazione relativa alla cessione di beni o alla prestazione di servizi a cui si applica l’imposta sul valore aggiunto.

Nel dettaglio, per le prestazioni di servizi, l’art. 6 prevede che tali prestazioni si considerano effettuate all’atto del pagamento del corrispettivo e l’imposta relativa alle cessioni di beni ed alle prestazioni di servizi diviene esigibile nel momento in cui le operazioni si considerano effettuate, cioè all’atto del pagamento.

Oltre a ciò, veniva per di più evidenziato che regole specifiche sono previste dall’art. 26 nel caso di inadempimento con il diritto di portare in detrazione l’imposta corrispondente alla variazione.

Pertanto, in conseguenza di tali principi, la Sez. 3, nella pronuncia n. 38594 del 23/01/2018, ha affermato, in tema di reato di omesso versamento dell’imposta sul valore aggiunto, che l’emissione della fattura, se antecedente al pagamento del corrispettivo, espone il contribuente, per sua scelta, all’obbligo di versare comunque la relativa imposta sicché egli non può dedurre il mancato pagamento della fattura né lo sconto bancario della fattura quale causa di forza maggiore o di mancanza dell’elemento soggettivo.

Allo stesso modo la Sez. 3, nella decisione n. 6506 del 24/09/2019, ha postulato che, in tema di reati tributari, l’omesso versamento dell’IVA dipeso dal mancato incasso per inadempimento contrattuale dei propri clienti non esclude la sussistenza del dolo richiesto dall’art. 10-ter del d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, atteso che l’obbligo del predetto versamento prescinde dall’effettiva riscossione delle relative somme e che il mancato adempimento del debitore è riconducibile all’ordinario rischio di impresa, evitabile anche con il ricorso alle procedure di storno dai ricavi dei corrispettivi non riscossi.

Da ciò se ne faceva conseguire come sia irrilevante la giustificazione addotta nel caso di specie, per altro (reputata) del tutto generica se non riferita specificamente alle operazioni effettivamente produttive di Iva, posto che, ad avviso della Cassazione, il ricorrente avrebbe potuto, ove non incassate le somme relative alle prestazioni di servizi, avvalersi delle procedure di storno, mentre con la dichiarazione aveva affermato l’esistenza del debito IVA nella quantità poi non versata.

Ciò posto, si ribadiva infine, concludendo la disamina di tale motivo, il principio per cui deve escludersi che le difficoltà economiche in cui versa il soggetto agente possano integrare la forza maggiore penalmente rilevante (Sez. 3, n. 4529 del 04/12/2007).

3. Conclusioni 

La decisione in esame desta un certo interesse essendo ivi compiuta una articolata disamina del delitto di cui all’art. 10-ter del d.lgs n. 74/2000.

In tale pronuncia, difatti, in particolare, si chiarisce: la natura di codesto illecito penale (“reato omissivo ed istantaneo”); quando si consuma (“nel momento in cui scade il termine previsto dalla legge per il versamento dell’acconto relativo al periodo di imposta successivo”); in cosa consiste il dolo (“coscienza e volontà di non versare all’Erario le somme dovute a titolo di Iva del periodo considerato”); quale prova occorra affinché tale elemento soggettivo possa ritenersi accertato (“la prova del dolo è insita nella presentazione della dichiarazione annuale, dalla quale emerge quanto è dovuto a titolo di imposta, e che deve, quindi, essere saldato o almeno contenuto non oltre la soglia, entro il termine lungo previsto”).

Questo provvedimento, quindi, deve essere preso nella dovuta considerazione ogni volta si debba appurare la sussistenza di tale fattispecie delittuosa.

Il giudizio in ordine a quanto statuito in siffatta sentenza, proprio perché contribuisce a fare chiarezza su tale tematica giuridica sotto il profilo giurisprudenziale, dunque, non può che essere positivo.

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