Consulta non interviene sull’art. 580 c.p., ma invita il Parlamento a farlo

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Il fatto e le argomentazioni prospettate nell’ordinanza di rimessione

Con ordinanza del 14 febbraio 2018, la Corte d’assise di Milano sollevava questioni di legittimità costituzionale dell’art. 580 del codice penale: a) «nella parte in cui incrimina le condotte di aiuto al suicidio in alternativa alle condotte di istigazione e, quindi, a prescindere dal loro contributo alla determinazione o al rafforzamento del proposito di suicidio», per ritenuto contrasto con gli artt. 2, 13, primo comma, e 117 della Costituzione, in relazione agli artt. 2 e 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848; b) «nella parte in cui prevede che le condotte di agevolazione dell’esecuzione del suicidio, che non incidano sul percorso deliberativo dell’aspirante suicida, siano sanzionabili con la pena della reclusione da 5 a 10 [recte: 12] anni, senza distinzione rispetto alle condotte di istigazione», per ritenuto contrasto con gli artt. 3, 13, 25, secondo comma, e 27, terzo comma, Cost.

Secondo quanto riferito dal giudice a quo, le questioni traevano origine dalla vicenda di F. A., il quale, a seguito di un grave incidente stradale avvenuto il 13 giugno 2014: 1) era rimasto tetraplegico e affetto da cecità bilaterale corticale (dunque, permanente); 2) non era autonomo nella respirazione (necessitando dell’ausilio, pur non continuativo, di un respiratore e di periodiche asportazioni di muco), nell’alimentazione (venendo nutrito in via intraparietale) e nell’evacuazione; 3) era percorso, altresì, da ricorrenti spasmi e contrazioni, produttivi di acute sofferenze, che non potevano essere completamente lenite farmacologicamente, se non mediante sedazione profonda. Conservava, però, intatte le facoltà intellettive.

All’esito di lunghi e ripetuti ricoveri ospedalieri e di vari tentativi di riabilitazione e di cura (comprensivi anche di un trapianto di cellule staminali effettuato in India nel dicembre 2015), la sua condizione era risultata irreversibile.
Alla luce di ciò, costui aveva perciò maturato, a poco meno di due anni di distanza dall’incidente, la volontà di porre fine alla sua esistenza, comunicandola ai propri cari e, di fronte ai tentativi della madre e della fidanzata di dissuaderlo dal suo proposito, per dimostrare la propria irremovibile determinazione, aveva intrapreso uno “sciopero” della fame e della parola, rifiutando per alcuni giorni di essere alimentato e di parlare.

Sempre questa persona aveva preso successivamente contatto nel maggio 2016, tramite la propria fidanzata, con organizzazioni svizzere che si occupano dell’assistenza al suicidio: pratica consentita, a certe condizioni, dalla legislazione elvetica e nel medesimo periodo, era entrato in contatto con M. C., imputato nel giudizio a quo, il quale gli aveva prospettato la possibilità di sottoporsi in Italia a sedazione profonda, interrompendo i trattamenti di ventilazione e alimentazione artificiale.

Posto ciò, di fronte al suo fermo proposito di recarsi in Svizzera per il suicidio assistito, l’imputato aveva accettato di accompagnarlo in automobile presso la struttura prescelta e, inviata a quest’ultima la documentazione attestante le proprie condizioni di salute e la piena capacità di intendere e di volere, F. A. aveva alfine ottenuto da essa il “benestare” al suicidio assistito, con fissazione della data.

Nei mesi successivi alla relativa comunicazione, egli aveva inoltre costantemente ribadito la propria scelta, comunicandola dapprima agli amici e poi pubblicamente (tramite un filmato e un appello al Presidente della Repubblica) e affermando «di viverla come “una liberazione”».
Il 25 febbraio 2017 era stato quindi accompagnato da Milano (ove risiedeva) in Svizzera, a bordo di un’autovettura appositamente predisposta, con alla guida l’imputato e, al seguito, la madre, la fidanzata e la madre di quest’ultima.
In Svizzera, il personale della struttura prescelta aveva nuovamente verificato le sue condizioni di salute, il suo consenso e la sua capacità di assumere in via autonoma il farmaco che gli avrebbe procurato la morte. In quegli ultimi giorni, tanto l’imputato, quanto i familiari avevano continuato a restargli vicini, rappresentandogli che avrebbe potuto desistere dal proposito di togliersi alla vita, nel qual caso sarebbe stato da loro riportato in Italia.
Il suicidio era peraltro avvenuto due giorni dopo (il 27 febbraio 2017): azionando con la bocca uno stantuffo, l’interessato aveva iniettato nelle sue vene il farmaco letale.

Di ritorno dal viaggio, M. C. si era autodenunciato ai carabinieri.
A seguito di ordinanza di “imputazione coatta”, adottata ai sensi dell’art. 409 del codice di procedura penale dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Milano, egli era stato tratto quindi a giudizio davanti alla Corte rimettente per il reato di cui all’art. 580 cod. pen., tanto per aver rafforzato il proposito di suicidio di F. A., quanto per averne agevolato l’esecuzione.

Il giudice a quo escludeva, peraltro, la configurabilità della prima ipotesi accusatoria.
Alla luce delle prove assunte nel corso dell’istruzione dibattimentale, F. A. avrebbe, infatti, maturato la decisione di rivolgersi all’associazione svizzera prima e indipendentemente dall’intervento dell’imputato.
La Corte rimettente riteneva, invece, che l’accompagnamento in auto di F. A. presso la clinica elvetica integrasse, in base al “diritto vivente”, la fattispecie dell’aiuto al suicidio in quanto condizione per la realizzazione dell’evento.
L’unica sentenza della Corte di cassazione che si è occupata del tema aveva, infatti, affermato che le condotte di agevolazione, incriminate dalla norma censurata in via alternativa rispetto a quelle di istigazione, debbono ritenersi perciò stesso punibili a prescindere dalle loro ricadute sul processo deliberativo dell’aspirante suicida (Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza 6 febbraio-12 marzo 1998, n. 3147).
Su questo presupposto, la Corte d’assise milanese dubitava, tuttavia, della legittimità costituzionale della norma censurata, anzitutto nella parte in cui incrimina le condotte di aiuto al suicidio anche quando esse non abbiano contribuito a determinare o a rafforzare il proposito della vittima.

Il giudice a quo rilevava a questo riguardo come la disposizione denunciata presupponga che il suicidio sia un atto intriso di elementi di disvalore, in quanto contrario al principio di sacralità e indisponibilità della vita in correlazione agli obblighi sociali dell’individuo, ritenuti preminenti nella visione del regime fascista ma questa disposizione avrebbe dovuto essere riletta alla luce della Costituzione: in particolare, del principio personalistico enunciato dall’art. 2 – che pone l’uomo e non lo Stato al centro della vita sociale – e di quello di inviolabilità della libertà personale, affermato dall’art. 13; principi alla luce dei quali la vita – primo fra tutti i diritti inviolabili dell’uomo – non potrebbe essere «concepita in funzione di un fine eteronomo rispetto al suo titolare» e di qui, dunque, anche la libertà della persona di scegliere quando e come porre termine alla propria esistenza.

Il diritto all’autodeterminazione individuale, previsto dall’art. 32 Cost. con riguardo ai trattamenti terapeutici, era stato, d’altronde, ampiamente valorizzato prima dalla giurisprudenza e poi dal legislatore, con la recente legge 22 dicembre 2017, n. 219 (Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento), che sancisce l’obbligo di rispettare le decisioni del paziente, anche quando ne possa derivare la morte.
La conclusione, osserva il giudice rimettente, sarebbe stata avvalorata, inoltre, dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo ed essa avrebbe conosciuto una evoluzione, il cui approdo finale sarebbe rappresentato dall’esplicito riconoscimento, sulla base degli artt. 2 e 8 CEDU (che riconoscono e garantiscono, rispettivamente, il diritto alla vita e il diritto al rispetto della vita privata), del diritto di ciascun individuo «di decidere con quali mezzi e a che punto la propria vita finirà».

A fronte di ciò, il bene giuridico protetto dalla norma denunciata andrebbe oggi identificato, ad avviso del giudice a quo, non già nel diritto alla vita, ma nella libertà e consapevolezza della decisione del soggetto passivo di porvi fine, evitando influssi che alterino la sua scelta.
In quest’ottica, la punizione delle condotte di aiuto al suicidio, che non abbiano inciso sul percorso deliberativo della vittima, risulterebbe ingiustificata e lesiva degli artt. 2, 13, primo comma, e 117 Cost.

n tale ipotesi, infatti, la condotta dell’agevolatore rappresenterebbe lo strumento per la realizzazione di quanto deciso da un soggetto che esercita una libertà costituzionale, risultando quindi inoffensiva.
La Corte d’assise milanese censurava, per altro verso, la norma denunciata nella parte in cui punisce le condotte di aiuto al suicidio, non rafforzative del proposito dell’aspirante suicida, con la stessa severa pena – reclusione da cinque a dieci [recte: dodici] anni – prevista per le condotte di istigazione, da ritenere nettamente più gravi.
La disposizione violerebbe, per questo verso, l’art. 3 Cost., unitamente al principio di proporzionalità della pena al disvalore del fatto, desumibile dagli artt. 13, 25, secondo comma, e 27, terzo comma, Cost..

Le argomentazioni sostenute dalle parti

Interveniva il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, il quale aveva eccepito, in via preliminare, l’inammissibilità delle questioni sotto plurimi profili, deducendone, in ogni caso, l’infondatezza nel merito.

Si era costituito altresì l’imputato nel giudizio a quo, il quale, con memoria integrativa – contestata la fondatezza delle eccezioni di inammissibilità – aveva rilevato come, di là dalla generica formulazione del petitum, le questioni dovessero ritenersi radicate sul caso di specie: prospettiva nella quale ha chiesto – sulla base di articolate considerazioni – che l’art. 580 cod. pen. sia dichiarato illegittimo «nella parte in cui punisce la condotta di chi abbia agevolato l’esecuzione della volontà, liberamente formatasi, della persona che versi in uno stato di malattia irreversibile che produce gravi sofferenze, sempre che l’agevolazione sia strumentale al suicidio di chi, alternativamente, avrebbe potuto darsi la morte rifiutando i trattamenti sanitari»; ovvero, in subordine, «nella parte in cui prevede che le condotte di agevolazione al suicidio che non abbiano inciso sulla formazione del proposito suicidario siano punite allo stesso modo della istigazione al suicidio».

Nella memoria per l’udienza, la parte costituita aveva prospettato anche la possibilità di un superamento dei problemi di costituzionalità denunciati a mezzo di una sentenza interpretativa di rigetto.
Con ordinanza pronunciata all’udienza pubblica del 23 ottobre 2018 la Corte costituzionale aveva dichiarato inammissibili gli interventi ad opponendum del Centro Studi “Rosario Livatino”, della libera associazione di volontariato “Vita è” e del Movimento per la vita italiano.

Le valutazioni giuridiche formulate dalla Consulta

La Consulta osservava in via preliminare come le eccezioni di inammissibilità formulate dal Presidente del Consiglio dei ministri non fossero fondate atteso che la circostanza che il giudice a quo abbia già escluso che, nella specie, il comportamento dell’imputato sia valso a rafforzare il proposito di suicidio della vittima non rende le questioni irrilevanti dato che queste ultime poggiano sulla premessa ermeneutica che l’agevolazione del suicidio sia repressa anche se non influente sul percorso deliberativo del soggetto passivo e mirano proprio a denunciare l’illegittimità costituzionale di una simile disciplina.

Detta enunciazione veniva ritenuta dalla Corte una premessa corretta stante il fatto che la soluzione interpretativa di segno inverso risulterebbe, in effetti, in contrasto con la lettera della disposizione, poiché si tradurrebbe in una interpretatio abrogans e, nel momento stesso in cui si ritenesse che la condotta di agevolazione sia punibile solo se generativa o rafforzativa dell’intento suicida, si priverebbe totalmente di significato la previsione – ad opera della norma censurata – dell’ipotesi dell’aiuto al suicidio, come fattispecie alternativa e autonoma («ovvero») rispetto a quella dell’istigazione.

Quanto sin qui esposto veniva ritenuto altresì sufficiente ad escludere che potesse ritenersi fondata l’ulteriore eccezione formulata dall’Avvocatura generale dello Stato, di inammissibilità delle questioni perché finalizzate a conseguire un avallo interpretativo e non precedute dal doveroso tentativo di interpretazione conforme a Costituzione della disposizione denunciata in quanto l’onere di interpretazione conforme viene meno, lasciando il passo all’incidente di costituzionalità, allorché il tenore letterale della disposizione non consenta tale interpretazione (ex plurimis, sentenze n. 268 e n. 83 del 2017, n. 241 e n. 36 del 2016, n. 219 del 2008) e, in quest’ottica, non influisce, dunque, ad avviso della Consulta, sull’ammissibilità delle questioni, la circostanza che il presupposto ermeneutico su cui esse poggiano risulti recepito, per affermazione della stessa Corte rimettente, in un’unica pronuncia resa da una sezione semplice della Corte di cassazione (la sola in argomento: Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza 6 febbraio-12 marzo 1998, n. 3147) e ciò proprio per il fatto che detta pronuncia che, proprio perché isolata, non sarebbe di per sé idonea a determinare – contrariamente a quanto ritiene il giudice a quo – la formazione di un “diritto vivente” (ex plurimis, sentenze n. 223 del 2013 e n. 258 del 2012, ordinanza n. 139 del 2011).

Si stimava parimenti infondata – in rapporto al petitum del giudice a quo –la conclusiva eccezione dell’Avvocatura generale dello Stato di inammissibilità delle questioni per avere la Corte rimettente richiesto una pronuncia manipolativa in materia rimessa alla discrezionalità del legislatore – come quella dell’individuazione dei fatti da sottoporre a pena – in assenza di una soluzione costituzionalmente obbligata dovendosi al riguardo osservare, secondo il giudice delle leggi, che il giudice a quo chiedeva, in via principale, di rendere penalmente irrilevante l’agevolazione dell’altrui suicidio che non abbia inciso sulla decisione della vittima, a prescindere da ogni riferimento alle condizioni personali del soggetto passivo e alle ragioni del suo gesto: il che equivarrebbe, nella sostanza, a rimuovere la fattispecie criminosa dell’aiuto al suicidio, facendola ricadere integralmente in quella dell’istigazione.
Infatti, al di là dalla formulazione letterale del petitum, la Corte d’assise milanese invocava in sostanza una pronuncia a carattere meramente ablativo, vale a dire una pronuncia che, nella prospettiva del giudice rimettente, rappresenterebbe una conseguenza automatica della linea argomentativa posta a base delle censure, senza implicare alcun intervento “creativo” e invero, ad avviso del giudice a quo, gli artt. 2, 13, primo comma, e 117 della Costituzione, in riferimento agli artt. 2 e 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, attribuirebbero a ciascuna persona la libertà di scegliere quando e come porre fine alla propria vita: ottica nella quale l’aiuto al suicidio prestato in favore di chi si sia autonomamente determinato nell’esercizio di tale libertà costituzionale si tradurrebbe, in ogni caso, in una condotta inoffensiva.

Dopo queste considerazioni di ordine preliminare, la Corte costituzionale dichiarava come la tesi della Corte rimettente, nella sua assolutezza, non potesse essere condivisa.
Nell’addivenire a tale affermazione, la Consulta osservava che, analogamente a quanto avviene nelle altre legislazioni contemporanee, anche il nostro ordinamento non punisce il suicidio, neppure quando sarebbe materialmente possibile, ossia nel caso di tentato suicidio ma punisce severamente (con la reclusione da cinque a dodici anni) chi concorre nel suicidio altrui, tanto nella forma del concorso morale, vale a dire determinando o rafforzando in altri il proposito suicida, quanto nella forma del concorso materiale, ossia agevolandone «in qualsiasi modo» l’esecuzione e sempreché il suicidio abbia luogo o che, quantomeno, dal tentato suicidio derivi una lesione personale grave o gravissima (nel qual caso è prevista una pena minore).

Osserva dunque la Corte come il legislatore penale, operando in tal guisa, intende dunque, nella sostanza, proteggere il soggetto da decisioni in suo danno: non ritenendo, tuttavia, di poter colpire direttamente l’interessato, gli crea intorno una “cintura protettiva”, inibendo ai terzi di cooperare in qualsiasi modo con lui.

Chiarito ciò, i giudici di legittimità costituzionale osservavano come tale assetto normativo non potesse ritenersi contrastante, di per sé, con i parametri evocati evidenziandosi al riguardo prima di tutto come non fosse pertinente il riferimento del rimettente al diritto alla vita, riconosciuto implicitamente – come «primo dei diritti inviolabili dell’uomo» (sentenza n. 223 del 1996), in quanto presupposto per l’esercizio di tutti gli altri – dall’art. 2 Cost. (sentenza n. 35 del 1997), nonché, in modo esplicito, dall’art. 2 CEDU e ciò perché, da un lato, dall’art. 2 Cost. – non diversamente che dall’art. 2 CEDU – discende il dovere dello Stato di tutelare la vita di ogni individuo: non quello – diametralmente opposto – di riconoscere all’individuo la possibilità di ottenere dallo Stato o da terzi un aiuto a morire mentre che dal diritto alla vita, garantito dall’art. 2 CEDU, non possa derivare il diritto di rinunciare a vivere, e dunque un vero e proprio diritto a morire, è stato, del resto, da tempo affermato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, proprio in relazione alla tematica dell’aiuto al suicidio (sentenza 29 aprile 2002, Pretty contro Regno Unito).

Oltre a ciò, si faceva presente come non fosse d’altro canto possibile desumere la generale inoffensività dell’aiuto al suicidio da un generico diritto all’autodeterminazione individuale, riferibile anche al bene della vita, che il rimettente faceva discendere dagli artt. 2 e 13, primo comma, Cost. visto che, in senso contrario, va rilevato come non possa dubitarsi che l’art. 580 cod. pen. – anche nella parte in cui sottopone a pena la cooperazione materiale al suicidio – sia funzionale alla protezione di interessi meritevoli di tutela da parte dell’ordinamento, e ciò in ragione del fatto che se è vero che il legislatore del 1930, mediante la norma incriminatrice in esame (peraltro già presente nel previgente codice penale del 1889: art. 370), intendeva tutelare la vita umana intesa come bene indisponibile, anche in funzione dell’interesse che la collettività riponeva nella conservazione della vita dei propri cittadini, è altrettanto vero che non è affatto arduo cogliere, oggi, la ratio di tutela di una norma quale l’art. 580 cod. pen. alla luce del mutato quadro costituzionale, che guarda alla persona umana come a un valore in sé, e non come a un semplice mezzo per il soddisfacimento di interessi collettivi dato che l’incriminazione dell’istigazione e dell’aiuto al suicidio è, in effetti, funzionale alla tutela del diritto alla vita, soprattutto delle persone più deboli e vulnerabili, che l’ordinamento penale intende proteggere da una scelta estrema e irreparabile, come quella del suicidio ed essa assolve allo scopo, di perdurante attualità, di tutelare le persone che attraversano difficoltà e sofferenze, anche per scongiurare il pericolo che coloro che decidono di porre in atto il gesto estremo e irreversibile del suicidio subiscano interferenze di ogni genere.

Di conseguenza, sempre ad avviso dei giudici di legittimità costituzionale, il divieto in parola conserva una propria evidente ragion d’essere anche, se non soprattutto, nei confronti delle persone malate, depresse, psicologicamente fragili, ovvero anziane e in solitudine, le quali potrebbero essere facilmente indotte a congedarsi prematuramente dalla vita, qualora l’ordinamento consentisse a chiunque di cooperare anche soltanto all’esecuzione di una loro scelta suicida, magari per ragioni di personale tornaconto e pertanto al legislatore penale non può ritenersi inibito vietare condotte che spianino la strada a scelte suicide, in nome di una concezione astratta dell’autonomia individuale che ignora le condizioni concrete di disagio o di abbandono nelle quali, spesso, simili decisioni vengono concepite ma anzi, è compito della Repubblica porre in essere politiche pubbliche volte a sostenere chi versa in simili situazioni di fragilità, rimovendo, in tal modo, gli ostacoli che impediscano il pieno sviluppo della persona umana (art. 3, secondo comma, Cost.).

Il giudice delle leggi evidenziava inoltre come le medesime considerazioni militassero per escludere che la norma censurata si ponesse, sempre e comunque sia, in contrasto con l’art. 8 CEDU, il quale sancisce il diritto di ciascun individuo al rispetto della propria vita privata evidenziandosi al riguardo che nel caso Pretty contro Regno Unito, la Corte europea dei diritti dell’uomo aveva, in effetti, dichiarato che il divieto, penalmente sanzionato, di assistere altri nel suicidio costituisce un’interferenza con il diritto in questione: diritto che comporta in linea di principio – e salvo il suo necessario bilanciamento con interessi e diritti contrapposti – il riconoscimento all’individuo di una sfera di autonomia nelle decisioni che coinvolgono il proprio corpo, e che è a sua volta un aspetto del più generale diritto al libero sviluppo della propria persona. Si precisava altresì come tale affermazione fosse stata ulteriormente esplicitata dalla Corte in plurime occasioni successive, nelle quali i giudici di Strasburgo avevano affermato – ancora in riferimento a casi in cui i ricorrenti si dolevano di altrettanti ostacoli frapposti dallo Stato resistente al proprio diritto di ottenere un aiuto a morire a traverso la somministrazione di farmaci letali – che il diritto di ciascuno di decidere come e in quale momento debba avere fine la propria vita, sempre che si tratti di persona capace di prendere una decisione libera e di agire in conformità a tale decisione, è uno degli aspetti del diritto alla vita privata riconosciuto dall’art. 8 CEDU (Corte EDU, sentenza 20 gennaio 2011, Haas contro Svizzera; nello stesso senso, sentenza 19 luglio 2012, Koch contro Germania, e sentenza 14 maggio 2013, Gross contro Svizzera) e ciò anche perché, in forza del paragrafo 2 dello stesso art. 8, una interferenza della pubblica autorità nell’esercizio di tale diritto è possibile solo se prevista dalla legge e necessaria, «in una società democratica», per gli scopi ivi indicati, tra i quali rientra «la protezione dei diritti e delle libertà altrui» fermo restando che, per consolidata giurisprudenza della Corte di Strasburgo, il concetto di necessità implica, altresì, che l’interferenza debba risultare proporzionata al legittimo scopo perseguito.

Oltre a ciò, si faceva presente come la Corte europea dei diritti dell’uomo avesse, peraltro, riconosciuto agli Stati un ampio margine di apprezzamento, sottolineando a più riprese come incriminazioni generali dell’aiuto al suicidio siano presenti nella gran parte delle legislazioni degli Stati membri del Consiglio d’Europa (Corte EDU, sentenza 29 aprile 2002, Pretty contro Regno Unito; sentenza 20 gennaio 2011, Haas contro Svizzera; sentenza 19 luglio 2012, Koch contro Germania) e la ragione atta a giustificare, agli effetti dell’art. 8, paragrafo 2, CEDU, simili incriminazioni era stata colta proprio nella finalità – ascrivibile anche alla norma qui sottoposta a scrutinio – di protezione delle persone deboli e vulnerabili (Corte EDU, sentenza 29 aprile 2002, Pretty contro Regno Unito).
Si giungeva pertanto, alla luce delle considerazioni sin qui esposte, a postulare che l’incriminazione dell’aiuto al suicidio non può essere ritenuta incompatibile con la Costituzione.

Detto questo, la Corte costituzionale riteneva necessario considerare specificamente situazioni come quella oggetto del giudizio a quo: situazioni inimmaginabili all’epoca in cui la norma incriminatrice fu introdotta, ma portate sotto la sua sfera applicativa dagli sviluppi della scienza medica e della tecnologia, spesso capaci di strappare alla morte pazienti in condizioni estremamente compromesse, ma non di restituire loro una sufficienza di funzioni vitali.
Il riferimento veniva fatto, più in particolare, alle ipotesi in cui il soggetto agevolato si identifichi in una persona (a) affetta da una patologia irreversibile e (b) fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, che trova assolutamente intollerabili, la quale sia (c) tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, ma resti (d) capace di prendere decisioni libere e consapevoli.

Si faceva dunque presente come queste ipotesi rappresentassero casi nei quali l’assistenza di terzi nel porre fine alla sua vita può presentarsi al malato come l’unica via d’uscita per sottrarsi, nel rispetto del proprio concetto di dignità della persona, a un mantenimento artificiale in vita non più voluto e che egli ha il diritto di rifiutare in base all’art. 32, secondo comma, Cost. ossia un parametro, questo, non evocato nel dispositivo nell’ordinanza di rimessione, ma più volte richiamato in motivazione.
In simili casi, difatti, la Consulta osservava come la decisione di lasciarsi morire potrebbe essere già presa dal malato, sulla base della legislazione vigente, con effetti vincolanti nei confronti dei terzi, a mezzo della richiesta di interruzione dei trattamenti di sostegno vitale in atto e di contestuale sottoposizione a sedazione profonda continua e ciò,segnatamente in forza della recente legge 22 dicembre 2017, n. 219 (Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento): legge che si autodichiara finalizzata alla tutela del diritto alla vita, alla salute, alla dignità e all’autodeterminazione della persona, nel rispetto dei principi di cui agli artt. 2, 13 e 32 Cost. e degli artt. 1, 2 e 3 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (art. 1, comma 1).

La disciplina da essa recata, successiva ai fatti oggetto del giudizio principale, a sua volta, osserva sempre la Consulta in questa decisione, recepisce e sviluppa, nella sostanza, le conclusioni alle quali era già pervenuta all’epoca la giurisprudenza ordinaria – in particolare a seguito delle sentenze sui casi Welby (Tribunale ordinario di Roma, 17 ottobre 2007, n. 2049) ed Englaro (Corte di cassazione, sezione prima civile, 16 ottobre 2007, n. 21748) – nonché le indicazioni della Consulta riguardo al valore costituzionale del principio del consenso informato del paziente al trattamento sanitario proposto dal medico: principio qualificabile come «vero e proprio diritto della persona», che «trova fondamento nei principi espressi nell’art. 2 della Costituzione, che ne tutela e promuove i diritti fondamentali, e negli artt. 13 e 32 della Costituzione, i quali stabiliscono, rispettivamente, che “la libertà personale è inviolabile”, e che “nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”» (sentenza n. 438 del 2008), svolgendo, in pratica, una «funzione di sintesi» tra il diritto all’autodeterminazione e quello alla salute (sentenza n. 253 del 2009).

In quest’ottica, dunque la citata legge n. 219 del 2017 riconosce ad ogni persona «capace di agire» il diritto di rifiutare o interrompere qualsiasi trattamento sanitario, ancorché necessario alla propria sopravvivenza, comprendendo espressamente nella relativa nozione anche i trattamenti di idratazione e nutrizione artificiale (art. 1, comma 5) fermo restando che l’esercizio di tale diritto viene, peraltro, inquadrato nel contesto della «relazione di cura e di fiducia» – la cosiddetta alleanza terapeutica – tra paziente e medico, che la legge mira a promuovere e valorizzare: relazione «che si basa sul consenso informato nel quale si incontrano l’autonomia decisionale del paziente e la competenza, l’autonomia professionale e la responsabilità del medico», e che coinvolge, «se il paziente lo desidera, anche i suoi familiari o la parte dell’unione civile o il convivente ovvero una persona di fiducia del paziente medesimo» (art. 1, comma 2) essendo in particolare previsto che, ove il paziente manifesti l’intento di rifiutare o interrompere trattamenti necessari alla propria sopravvivenza, il medico debba prospettare a lui e, se vi acconsente, ai suoi familiari, le conseguenze della sua decisione e le possibili alternative, e promuovere «ogni azione di sostegno al paziente medesimo, anche avvalendosi dei servizi di assistenza psicologica» salva la possibilità per il paziente di modificare in qualsiasi momento la propria volontà (art. 1, comma 5) e tenuto conto che, in ogni caso, il medico «è tenuto a rispettare la volontà espressa dal paziente di rifiutare il trattamento sanitario o di rinunciare al medesimo», rimanendo, «in conseguenza di ciò, […] esente da responsabilità civile o penale» (art. 1, comma 6).
Si evidenziava oltre a ciò che – integrando le previsioni della legge 15 marzo 2010, n. 38 (Disposizioni per garantire l’accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore) che tutela e garantisce l’accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore da parte del paziente, inserendole nell’ambito dei livelli essenziali di assistenza – la legge n. 219 del 2017 prevede che la richiesta di sospensione dei trattamenti sanitari possa essere associata alla richiesta di terapie palliative, allo scopo di alleviare le sofferenze del paziente (art. 2, comma 1) e lo stesso art. 2 stabilisce inoltre, al comma 2, che il medico possa, con il consenso del paziente, ricorrere alla sedazione palliativa profonda continua in associazione con la terapia del dolore, per fronteggiare sofferenze refrattarie ai trattamenti sanitari fermo restando che tale disposizione non può non riferirsi anche alle sofferenze provocate al paziente dal suo legittimo rifiuto di trattamenti di sostegno vitale, quali la ventilazione, l’idratazione o l’alimentazione artificiali: scelta che innesca un processo di indebolimento delle funzioni organiche il cui esito – non necessariamente rapido – è la morte.
Invece, osserva sempre la Consulta, la legislazione oggi in vigore non consente, invece, al medico che ne sia richiesto, di mettere a disposizione del paziente che versa nelle condizioni sopra descritte trattamenti diretti, non già ad eliminare le sue sofferenze, ma a determinarne la morte e in tal modo, si costringe il paziente a subire un processo più lento, in ipotesi meno corrispondente alla propria visione della dignità nel morire e più carico di sofferenze per le persone che gli sono care.

Posto ciò, nel caso oggetto del giudizio a quo, l’interessato aveva richiesto l’assistenza al suicidio, scartando la soluzione dell’interruzione dei trattamenti di sostegno vitale con contestuale sottoposizione a sedazione profonda (soluzione che pure gli era stata prospettata), proprio perché quest’ultima non gli avrebbe assicurato una morte rapida e dunque, non essendo egli totalmente dipendente dal respiratore artificiale, la morte sarebbe sopravvenuta solo dopo un periodo di apprezzabile durata, quantificabile in alcuni giorni: modalità di porre fine alla propria esistenza che egli reputava non dignitosa e che i propri cari avrebbero dovuto condividere sul piano emotivo.
D’altronde, da tale vicenda erano state messe in discussione le esigenze di tutela che negli altri casi giustificano la repressione penale dell’aiuto al suicidio dato che se il cardinale rilievo del valore della vita non esclude l’obbligo di rispettare la decisione del malato di porre fine alla propria esistenza tramite l’interruzione dei trattamenti sanitari – anche quando ciò richieda una condotta attiva, almeno sul piano naturalistico, da parte di terzi (quale il distacco o lo spegnimento di un macchinario, accompagnato dalla somministrazione di una sedazione profonda continua e di una terapia del dolore) – non vi è ragione per la quale il medesimo valore debba tradursi in un ostacolo assoluto, penalmente presidiato, all’accoglimento della richiesta del malato di un aiuto che valga a sottrarlo al decorso più lento – apprezzato come contrario alla propria idea di morte dignitosa – conseguente all’anzidetta interruzione dei presidi di sostegno vitale mentre, per quanto attiene all’esigenza di proteggere le persone più vulnerabili, è ben vero che i malati irreversibili esposti a gravi sofferenze sono solitamente ascrivibili a tale categoria di soggetti ma è anche agevole al contempo osservare che, se chi è mantenuto in vita da un trattamento di sostegno artificiale è considerato dall’ordinamento in grado, a certe condizioni, di prendere la decisione di porre termine alla propria esistenza tramite l’interruzione di tale trattamento, non si vede perché il medesimo soggetto debba essere ritenuto viceversa bisognoso di una ferrea e indiscriminata protezione contro la propria volontà quando si discuta della decisione di concludere la propria esistenza con l’aiuto di altri, quale alternativa reputata maggiormente dignitosa alla predetta interruzione.
Entro lo specifico ambito considerato, e così perimetrato dallo stesso giudice delle leggi, il divieto assoluto di aiuto al suicidio finisce, quindi, sempre ad avviso della Corte, per limitare la libertà di autodeterminazione del malato nella scelta delle terapie, comprese quelle finalizzate a liberarlo dalle sofferenze, scaturente dagli artt. 2, 13 e 32, secondo comma, Cost., imponendogli in ultima analisi un’unica modalità per congedarsi dalla vita, senza che tale limitazione possa ritenersi preordinata alla tutela di altro interesse costituzionalmente apprezzabile, con conseguente lesione del principio della dignità umana, oltre che dei principi di ragionevolezza e di uguaglianza in rapporto alle diverse condizioni soggettive facendosi presente che il parametro di cui all’art. 3 Cost. non fosse stato nemmeno evocato dal giudice a quo in rapporto alla questione principale.

Al riscontrato vulnus ai principi sopra indicati, la Corte costituzionale riteneva di non poter porre rimedio, almeno allo stato, attraverso la mera estromissione dall’ambito applicativo della disposizione penale delle ipotesi in cui l’aiuto venga prestato nei confronti di soggetti che versino nelle condizioni appena descritte atteso che una simile soluzione decisoria lascerebbe del tutto priva di disciplina legale la prestazione di aiuto materiale ai pazienti in tali condizioni, in un ambito ad altissima sensibilità etico-sociale e rispetto al quale vanno con fermezza preclusi tutti i possibili abusi.
Invero, prosegue la Consulta nel suo ragionamento decisorio, in assenza di una specifica disciplina della materia, più in particolare, qualsiasi soggetto – anche non esercente una professione sanitaria – potrebbe lecitamente offrire, a casa propria o a domicilio, per spirito filantropico o a pagamento, assistenza al suicidio a pazienti che lo desiderino, senza alcun controllo ex ante sull’effettiva sussistenza, ad esempio, della loro capacità di autodeterminarsi, del carattere libero e informato della scelta da essi espressa e dell’irreversibilità della patologia da cui sono affetti e di tali possibili conseguenze della propria decisione la Corte ammette non poterne non farsi carico, anche allorché sia chiamata, come nel presente caso, a vagliare la incompatibilità con la Costituzione esclusivamente di una disposizione di carattere penale stante il fatto che una regolazione della materia, intesa ad evitare simili scenari, gravidi di pericoli per la vita di persone in situazione di vulnerabilità, è suscettibile peraltro di investire plurimi profili, ciascuno dei quali, a sua volta, variamente declinabile sulla base di scelte discrezionali: come, ad esempio, le modalità di verifica medica della sussistenza dei presupposti in presenza dei quali una persona possa richiedere l’aiuto, la disciplina del relativo “processo medicalizzato”, l’eventuale riserva esclusiva di somministrazione di tali trattamenti al servizio sanitario nazionale, la possibilità di una obiezione di coscienza del personale sanitario coinvolto nella procedura.

D’altra parte, osserva sempre la Corte costituzionale, una disciplina delle condizioni di attuazione della decisione di taluni pazienti di liberarsi delle proprie sofferenze non solo attraverso una sedazione profonda continua e correlativo rifiuto dei trattamenti di sostegno vitale, ma anche attraverso la somministrazione di un farmaco atto a provocare rapidamente la morte, potrebbe essere introdotta, anziché mediante una mera modifica della disposizione penale di cui all’art. 580 cod. pen., in quella sede censurata, inserendo la disciplina stessa nel contesto della legge n. 219 del 2017 e del suo spirito, in modo da inscrivere anche questa opzione nel quadro della «relazione di cura e di fiducia tra paziente e medico», opportunamente valorizzata dall’art. 1 della legge medesima, e ciò anche perché l’eventuale collegamento della non punibilità al rispetto di una determinata procedura potrebbe far sorgere l’esigenza di introdurre una disciplina ad hoc per le vicende pregresse (come quella oggetto del giudizio a quo), che di tale non punibilità non potrebbero altrimenti beneficiare: anche qui con una varietà di soluzioni possibili.

La Consulta paventava anche la necessità che dovesse essere valutata l’esigenza di adottare opportune cautele affinché – anche nell’applicazione pratica della futura disciplina – l’opzione della somministrazione di farmaci in grado di provocare entro un breve lasso di tempo la morte del paziente, non comporti il rischio di alcuna prematura rinuncia, da parte delle strutture sanitarie, a offrire sempre al paziente medesimo concrete possibilità di accedere a cure palliative diverse dalla sedazione profonda continua, ove idonee a eliminare la sua sofferenza – in accordo con l’impegno assunto dallo Stato con la citata legge n. 38 del 2010 – sì da porlo in condizione di vivere con intensità e in modo dignitoso la parte restante della propria esistenza visto che il coinvolgimento in un percorso di cure palliative dovrebbe costituire, infatti, un pre-requisito della scelta, in seguito, di qualsiasi percorso alternativo da parte del paziente.

A fronte della necessità di provvedere ex lege in tal senso, la Consulta evidenziava per l’appunto come i delicati bilanciamenti sin qui indicati dovessero essere affidati, in linea di principio, al Parlamento mentre il compito naturale della Corte costituzionale è quello di verificare la compatibilità di scelte già compiute dal legislatore, nell’esercizio della propria discrezionalità politica, con i limiti dettati dalle esigenze di rispetto dei principi costituzionali e dei diritti fondamentali delle persone coinvolti.

Si faceva oltre a ciò presente come, in situazioni analoghe a quella in esame, la Corte costituzionale avesse, sino ad oggi, dichiarato l’inammissibilità della questione sollevata, accompagnando la pronuncia con un monito al legislatore affinché provvedesse all’adozione della disciplina necessaria al fine di rimuovere il vulnus costituzionale riscontrato: pronuncia alla quale, nel caso in cui il monito fosse rimasto senza riscontro, aveva fatto seguito, di norma, una declaratoria di illegittimità costituzionale (ad esempio: sentenza n. 23 del 2013 e successiva sentenza n. 45 del 2015) senza però non farsi presente come questa tecnica decisoria avesse, tuttavia, l’effetto di lasciare in vita – e dunque esposta a ulteriori applicazioni, per un periodo di tempo non preventivabile – la normativa non conforme a Costituzione dato che l’eventuale dichiarazione di incostituzionalità, conseguente all’accertamento dell’inerzia legislativa presuppone che venga sollevata una nuova questione di legittimità costituzionale la quale può, peraltro, sopravvenire anche a notevole distanza di tempo dalla pronuncia della prima sentenza di inammissibilità, mentre nelle more la disciplina in discussione continua ad operare.
E dunque, stante il fatto che un simile effetto si stimava non potesse considerarsi consentito nel caso in esame, per le sue peculiari caratteristiche e per la rilevanza dei valori da esso coinvolti, la Corte disponeva – onde evitare che la norma possa trovare, in parte qua, applicazione medio tempore, lasciando però, pur sempre, al Parlamento la possibilità di assumere le necessarie decisioni rimesse in linea di principio alla sua discrezionalità ferma restando l’esigenza di assicurare la tutela del malato nei limiti indicati dalla presente pronuncia – di dover provvedere in diverso modo facendo leva sui propri poteri di gestione del processo costituzionale: ossia di disporre il rinvio del giudizio in corso, fissando una nuova discussione delle questioni di legittimità costituzionale all’udienza del 24 settembre 2019, in esito alla quale potrà essere valutata l’eventuale sopravvenienza di una legge che regoli la materia in conformità alle segnalate esigenze di tutela fermo restando che rimarrà nel frattempo sospeso anche il giudizio a quo mentre negli altri giudizi, spetterà ai giudici valutare se, alla luce di quanto indicato nella presente pronuncia, analoghe questioni di legittimità costituzionale della disposizione in esame debbano essere considerate rilevanti e non manifestamente infondate, così da evitare l’applicazione della disposizione stessa in parte qua.

Si faceva in ultima analisi presente come una soluzione di questo genere si facesse carico, in definitiva, di preoccupazioni analoghe a quelle che avevano ispirato la Corte Suprema canadese, allorché aveva dichiarato, nel 2015, l’illegittimità costituzionale di una disposizione penale analoga a quella ora sottoposta allo scrutinio, nella parte in cui tale disposizione proibiva l’assistenza medica al suicidio di una persona adulta capace che abbia chiaramente consentito a por fine alla propria vita, e che soffra di una patologia grave e incurabile che provoca sofferenze persistenti e intollerabili dato che, in quell’occasione, i supremi giudici canadesi stabilirono di sospendere per dodici mesi l’efficacia della decisione stessa, proprio per dare l’opportunità al parlamento di elaborare una complessiva legislazione in materia, evitando la situazione di vuoto legislativo che si sarebbe creata in conseguenza della decisione (Corte Suprema del Canada, sentenza 6 febbraio 2015, Carter contro Canada, 2015, CSC 5) così come lo spirito della presente decisione è, d’altra parte, simigliante a quello della recente sentenza della Corte Suprema inglese in materia di assistenza al suicidio, in cui, da una parte, la maggioranza dei giudici ritenne «istituzionalmente inappropriato per una corte, in questo momento, dichiarare che [la disposizione allora oggetto di scrutinio] è incompatibile con l’art. 8 [CEDU]», senza dare al Parlamento l’opportunità di considerare il problema (Corte Suprema del Regno Unito, sentenza 25 giugno 2014, Nicklinson e altri, [2014] UKSC 38), dall’altra, costoro sottolinearono che una anche solo parziale legalizzazione dell’assistenza al suicidio medicalmente assistito rappresenta una questione difficile, controversa ed eticamente sensibile, che richiede un approccio prudente delle corti osservandosi oltre a ciò che una simile questione reclama una valutazione approfondita da parte del legislatore, che ha la possibilità di intervenire – in esito a un iter procedurale nel quale possono essere coinvolti una pluralità di esperti e di portatori di interessi contrapposti – dettando una nuova complessiva regolamentazione della materia di carattere non penale, comprensiva di uno schema procedurale che consenta una corretta applicazione ai casi concreti delle regole così stabilite e il tutto in un contesto espressamente definito «collaborativo» e «dialogico» fra Corte e Parlamento.

Pertanto, alla stregua di quanto sin qui esposto, il giudice delle leggi rilevava conclusivamente che, laddove, come nella specie, la soluzione del quesito di legittimità costituzionale coinvolgesse l’incrocio di valori di primario rilievo, il cui compiuto bilanciamento presuppone, in via diretta ed immediata, scelte che anzitutto il legislatore è abilitato a compiere, la Corte costituzionale reputava doveroso – in uno spirito di leale e dialettica collaborazione istituzionale – consentire, nella specie, al Parlamento ogni opportuna riflessione e iniziativa, così da evitare, per un verso, che, nei termini innanzi illustrati, una disposizione continui a produrre effetti reputati costituzionalmente non compatibili, ma al tempo stesso scongiurare possibili vuoti di tutela di valori, anch’essi pienamente rilevanti sul piano costituzionale.

Conclusioni

L’ordinanza in questione è sicuramente condivisibile in quanto frutto di un lungo e articolato ragionamento giuridico.
L’impossibilità di censurare l’art. 580 c.p. alla stregua dei parametri di riferimento costituzionale individuati dal giudice rimettente, infatti, non ha esaurito la delicata questione inerente se possa essere riconosciuto il diritto del malato di porre fine alla propria esistenza tramite l’interruzione dei trattamenti sanitari (anche quando ciò richieda una condotta attiva, almeno sul piano naturalistico, da parte di terzi) avendo la stessa Consulta ipotizzato eventuali vie normative attraverso il quale regolare tali casi.
E anche vero però che, avendo disposto la Consulta con questa ordinanza che negli altri giudizi, spetterà ai giudici valutare se, alla luce di quanto indicato nella presente pronuncia, analoghe questioni di legittimità costituzionale della disposizione in esame dovranno essere considerate rilevanti e non manifestamente infondate, così da evitare l’applicazione della disposizione stessa in parte qua, nulla quindi esclude che possa essere sollevata una questione di legittimità costituzionale afferente sempre questo articolo del codice penale adducendo la lesioni di altri precetti normativi di rango costituzionale (come sembra trapelare, seppur non espressamente, nella stessa pronuncia in oggetto, nella parte in cui si fa riferimento all’art. 3 e all’art. 32 della Cost.).
Non resta dunque che aspettare se vi sarà un intervento del legislatore per regolare la materia, ovvero interverrà nuovamente la Corte costituzionale sul punto.

Sentenza collegata

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Avv. Di Tullio D’Elisiis Antonio

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