Body shaming e diffamazione: nuovi approdi giurisprudenziali

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La cronaca attuale si è fatta più volte portavoce del neologismo “Body Shaming”, che è entrato ormai nel linguaggio comune, indicando l’azione di offendere qualcuno per il proprio aspetto fisico. Benché non esista una definizione univoca di “body shaming”, questa si sostanzia in una forma di violenza che sfrutta l’insicurezza corporea e assume le forme del bullismo o del cyberbullismo, spesso celando i segni di una manifestazione della violenza di genere, la quale si inserisce in un contesto culturale volto a promuovere la disuguaglianza.

Indice

1. Il “Body shaming” integrante la fattispecie di cui all’art. 595 c.c.p.


È risaputo, tuttavia, che non sempre la legge si dimostra reattiva nel recepire i nuovi pericoli per la tutela della persona che specialmente il progresso informatico porta con sé. Ove però non riesce il legislatore, interviene la giurisprudenza, colmando così una grave lacuna normativa.
È quanto fatto dalla sentenza n. 2251/2022 della Cassazione penale, la quale ha sancito che il body Shaming si configura quale reato di diffamazione, integrando la fattispecie di cui all’art. 595 c.3 del codice penale.
Gli ermellini, prendendo le mosse dall’azione dell’imputato che rivolgeva gravi offesa alla parte civile denigrandola per il proprio deficit visivo, non condivideva la decisione della Corte territoriale, a parere della quale, la stessa azione non si configurava quale diffamazione in quanto “un deficit visivo non diminuisce il valore di una persona” e “con offese siffatte, l’imputato aveva messo in cattiva luce sé stesso”. A prescindere da tali considerazioni, il reato, nel suo elemento oggettivo, si era perfezionato, come confermato dalla stessa Corte.
Infatti, lo stesso dettato normativo di cui all’art. 595 c.3 c.p., richiede ai fini della configurazione del reato:

  • L’assenza dell’offesa, consistente nell’impossibilità per quest’ultimo di percepire direttamente l’offesa;
  • La concretezza dell’offesa, consistente nella lesione della reputazione e, quindi, della dignità personale, quale diritto costituzionalmente tutelato;
  • La presenza di almeno due persone in grado di percepire l’offesa proferita.

A tal proposito, la sentenza da prima citata concludeva: la condotta di chi metta alla berlina una persona per talune caratteristiche fisiche, comunicando con più persone, può certo considerarsi un’aggressione alla reputazione della stessa”.
Il bene giuridico tutelato dall’art. 595 c.p., risulta essere il senso della dignità personale in relazione al gruppo sociale, come più volte ribadito anche dalla Corte Costituzionale, in ultimo dalla sent. n. 150/2021.

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2. Distinzione con l’ex reato di ingiuria ex art 594 c.p.


Atteso che anche l’ormai depenalizzato reato di ingiuria tutela lo stesso diritto inviolabile della dignità personale, la Corte, nella sentenza prima citata, ribadisce le motivazioni per le quali ritiene che, nel caso di specie, si configura il diverso e, sicuramente più grave, delitto di diffamazione.
Come sancito dalla sent. n. 10313 del 17/01/2019 della Cassazione penale V Sez., il discrimine tra le due fattispecie si attesta nella presenza o meno della persona lesa.
Mentre, infatti, nel reato di ingiuria la comunicazione è diretta alla persona offesa la quale, grazie a tale contemporaneità, ha la capacità di interloquire con l’offensore, nella diffamazione quest’ultima rimane estranea dalla comunicazione lesiva che, al contrario, avviene tra chi offende e soggetti terzi.
Nel caso di offese rese tramite social network, occorre comprendere se effettivamente la persona offesa si trovi in concreto nella possibilità di replicare.
In questi casi, la Corte ha ritenuto che la possibilità di replicare si concretizzava, per la parte offesa, solo in un momento successivo rispetto alla pubblicazione via social dell’offesa. Infatti, in difetto del requisito della contestualità, la comunicazione offensiva si realizza tra l’offendente e soggetti terzi, mantenendo l’offeso estraneo rispetto alla comunicazione ed integrando il reato di diffamazione. Trattandosi, infatti, di reato di evento, la diffamazione si consuma nel momento e nel luogo in cui i terzi percepiscono l’espressione ingiuriosa.
Nel caso di specie, dunque, si ritiene applicabile l’art. 595 c. 3 c.p., atteso che la diffamazione diffusa tramite social network è stata equiparata a quella diffusa a mezzo di pubblicità ad opera della sent. n. 50/2017 Cassazione penale, in virtù del fatto che si tratta di condotta potenzialmente in grado di raggiungere un numero indeterminato di persone, il che vale a legittimare l’aumento di pena rispetto alla fattispecie base di cui al comma 1.

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Antonio Giulisano

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