Avvocati: nessun contributo alla Cassa per l’attività di consigliere di amministrazione di società

Redazione 12/03/13
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Anna Costagliola

All’avvocato non può essere imposto di corrispondere alla Cassa forense alcun tipo di contribuzione per i compensi percepiti come consigliere di amministrazione di una società di capitali, in termini di una maggiorazione percentuale o di contributo integrativa. E’ il principio di diritto affermato dalla Corte di cassazione con sentenza n. 5975 dell’11 marzo 2013 che ha respinto il ricorso proposto dalla Cassa nazionale forense avverso la decisione con cui la Corte di merito, confermando la statuizione di primo grado, ha ritenuto che l’attività di consigliere di amministrazione di una società di capitali non fosse ricollegabile all’esercizio della professione forense, con la conseguenza che i compensi percepiti non potevano considerarsi soggetti a contribuzione a favore della Cassa nazionale di previdenza e assistenza forense.

La Corte evidenzia coma l’art. 11 della L. 576/1980 preveda l’obbligo per gli avvocati di versare alla Cassa nazionale di previdenza e assistenza una maggiorazione percentuale o contributo integrativo su tutti i corrispettivi rientranti nel volume annuale d’affari ai fini dell’IVA. Tuttavia detta norma va interpretata, come precisano gli Ermellini, nel senso che oggetto di tale imposizione contributiva siano soltanto i redditi prodotti dallo svolgimento dell’attività professionale, restandone invece esclusi quelli che non sono riconducibili all’esercizio della professione strictu sensu, in quanto prodotti nell’esercizio di attività che rimangono, rispetto ad essa, del tutto estranee.

In motivazione, la Corte aderisce all’indirizzo interpretativo seguito dalla stessa giurisprudenza di legittimità in base al quale, per stabilire se i redditi prodotti dall’attività di un libero professionista siano qualificabili come redditi professionali, soggetti, in quanto tali, alla contribuzione dovuta alla Cassa previdenziale di categoria, il concetto di «esercizio della professione» deve essere interpretato non in senso statico e rigoroso, bensì tenendo conto dell’evoluzione subita nel tempo dalle specifiche competenze e dalle cognizioni tecniche libero-professionali. Evoluzione, quest’ultima, che ha comportato la progressiva estensione dell’ambito proprio dell’attività professionale, con occupazione, da parte delle professioni, di tutta una serie di spazi inesistenti nel quadro tipico iniziale. Ciò implica che nel concetto «esercizio della professione» deve ritenersi compreso, oltre all’espletamento delle prestazioni tipicamente professionali (ossia delle attività riservate agli iscritti negli appositi albi), anche l’esercizio di attività che, pur non professionalmente tipiche, tuttavia presentino un «nesso» con l’attività professionale strettamente intesa, in quanto richiedono le stesse competenze tecniche di cui il professionista ordinariamente si avvale nell’esercizio della professione.

La suesposta impostazione ermeneutica, valida per tutte le categorie, vale dunque ad escludere la sussistenza dell’obbligo contributivo solo nei casi in cui non sia, in concreto, ravvisabile un intreccio tra tipo di attività e conoscenze tipiche del professionista. Viceversa, esso varrà, oltre che per l’esercizio dell’attività professionale tipica, anche in relazione a quelle prestazioni di attività riconducibili, per loro intrinseca connessione, ai contenuti dell’attività propria della libera professione; in sostanza, anche in relazione alle prestazioni «contigue», per ragioni di affinità, a quelle libero-professionali in senso stretto.

Nel caso specifico portato all’attenzione della Corte non sono stati ravvisati elementi concreti per sostenere che i redditi in questione, derivanti dall’attività di consigliere di amministrazione di una società di capitali, potessero in qualche modo ricondursi all’esercizio dell’attività professionale di avvocato, non essendo emerso che la partecipazione all’attività del consiglio di amministrazione avesse mai richiesto le stesse competenze tecniche di cui si avvaleva ordinariamente il professionista nell’esercizio dell’attività professionale. Conclude, pertanto, la Corte, che tra la carica di consigliere di amministrazione e attività professionale forense non sussiste alcun tipo di contatto che può condannare al pagamento dei contributi.

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