La Corte Costituzionale, con sentenza n. 46 del 22 marzo 2024, ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 646, primo comma, del codice penale nella parte in cui prevede la pena della reclusione “da due a cinque anni” anziché “fino a cinque anni”.
Per avere un quadro unitario delle diverse novità normative che si sono susseguite nel tempo, si consiglia il seguente volume: Le riforme della giustizia penale
Indice
1. I fatti
Il Tribunale di Firenze aveva sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost., questioni di legittimità costituzionale dell’art. 646, primo comma, cod. pen., come modificato dall’art. 1, comma 1, lett. u), legge 9 gennaio 2019, n. 3 (Misure per il contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione, nonché in materia di prescrizione del reato e in materia di trasparenza dei partiti e movimenti politici), censurandolo nella parte in cui punisce la condotta di appropriazione indebita con la reclusione da due a cinque anni, oltre alla multa, anziché con la reclusione da sei mesi a cinque anni, oltre alla multa.
Il rimettente giudica della responsabilità penale di un mediatore immobiliare, imputato del delitto di appropriazione indebita, aggravato dall’abuso di prestazione d’opera, per essersi appropriato, al fine di procurarsi un ingiusto profitto, di somme di denaro consegnateli da un cliente in relazione alla proposta di locazione di un immobile, contratto, poi, non stipulato.
Ad avviso del rimettente, si renderebbe necessario applicare all’imputato l’art. 646, primo comma, cod. pen. che punisce l’appropriazione indebita con la reclusione da due a cinque anni, oltre che con la multa e la pena dovrebbe attestarsi sul minimo edittale, in ragione della contenuta gravità del fatto (vista l’entità delle somme oggetto di appropriazione) e del riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche prevalenti sull’aggravante.
Si dubitava, tuttavia, della legittimità costituzionale della cornice edittale stabilita dal primo comma, innalzata dalla legge sopracitata con la ratio di “colpire più severamente le attività prodromiche ai fenomeni corruttivi“.
Ma l’innalzamento del minimo edittale della pena detentiva di ben quarantotto volte contrasterebbe con gli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost. “sia per ciò che attiene al generale principio di uguaglianza, sia sotto il profilo della proporzionalità intrinseca del trattamento sanzionatorio“, poiché tale minimo edittale comporterebbe “l’inflizione di una pena irragionevole in relazione alla dosimetria impiegata dal legislatore in altre fattispecie offensive del bene giuridico patrimoniale” e impedirebbe al giudice di “applicare una pena adeguata a condotte delittuose che, per quanto conformi al tipo considerato, risultino essere caratterizzate da una lesività modesta“.
Per avere un quadro unitario delle diverse novità normative che si sono susseguite nel tempo, si consiglia il seguente volume:
Le Riforme della Giustizia penale
In questa stagione breve ma normativamente intensa sono state adottate diverse novità in materia di diritto e procedura penale. Non si è trattato di una riforma organica, come è stata, ad esempio, la riforma Cartabia, ma di un insieme di interventi che hanno interessato vari ambiti della disciplina penalistica, sia sostanziale, che procedurale.Obiettivo del presente volume è pertanto raccogliere e analizzare in un quadro unitario le diverse novità normative, dal decreto c.d. antirave alla legge per il contrasto della violenza sulle donne, passando in rassegna anche le prime valutazioni formulate dalla dottrina al fine di offrire una guida utile ai professionisti che si trovano ad affrontare le diverse problematiche in un quadro profondamente modificato.Completano la trattazione utili tabelle riepilogative per una più rapida consultazione delle novità.Antonio Di Tullio D’ElisiisAvvocato iscritto presso il Foro di Larino (CB), giornalista pubblicista e cultore della materia in procedura penale. Referente di Diritto e procedura penale della rivista telematica Diritto.it. Membro del comitato scientifico della Camera penale di Larino. Collaboratore stabile dell’Osservatorio antimafia del Molise “Antonino Caponnetto”. Membro del Comitato Scientifico di Ratio Legis, Rivista giuridica telematica.
Antonio Di Tullio D’Elisiis | Maggioli Editore 2024
36.10 €
2. Pena edittale minima del reato di appropriazione indebita: l’analisi della Corte di Cassazione
La Corte Costituzionale, nel dichiarare fondate le questioni sollevate dal Tribunale di Firenze, afferma che, dalla data di entrata in vigore del codice penale del 1930 sino al 2019, il delitto di appropriazione indebita di cui all’art. 646 cod. pen. è stato punito, nella sua forma base, con la reclusione “fino a tre anni“, oltre alla multa. Per effetto della regola generale di cui all’art. 23 cod. pen., la pena detentiva minima prevista per il delitto era, dunque, quella di quindici giorni di reclusione.
Con la legge 3/2019 la norma ora prevede un minimo di due anni sino a un massimo di cinque anni di reclusione, accanto alla multa da 1.000 a 3.000 euro ma, ad avviso della Consulta, “le ragioni di tale brusco innalzamento del trattamento sanzionatorio del delitto di appropriazione indebita […] non sono state in alcun modo illustrate nel corso del dibattito parlamentare che ha condotto all’approvazione complessiva della legge“.
Nella relazione si legge che, sebbene non si tratti di un delitto contro la pubblica amministrazione, “il reato di appropriazione indebita è strumento che consente comunemente di formare provviste illecite utilizzabili per il pagamento del prezzo della corruzione“. Tuttavia, ad avviso della Corte Costituzionale, una simile motivazione non giustifica razionalmente la scelta di innalzare di quarantotto volte la pena minima della fattispecie base di appropriazione indebita che si verifica, nella gran maggioranza dei casi, con situazioni che nulla hanno a che vedere con condotte prodromiche alla corruzione e, in particolare, con la costituzione di fondi neri dai quali poter attingere per tale scopo.
Inoltre, “non può non rilevarsi la macroscopica disparità di trattamento sanzionatorio, generata dall’attuale disciplina, tra l’appropriazione indebita di una somma di 200 euro, come quella oggetto del giudizio a quo, e un furto o una truffa che producano esattamente il medesimo danno patrimoniale alla persona offesa: sei mesi di reclusione in queste ultime ipotesi; due anni, e dunque quattro volte tanto, in caso di appropriazione indebita“.
3. La decisione della Corte Costituzionale
Alla luce di quanto finora esposto, la Corte Costituzionale osserva che il rimedio proposto dal rimettente si muove nell’orizzonte delle soluzioni “costituzionalmente adeguate”, ossia tratte da discipline già esistenti.
Rispetto alla disposizione sottoposta all’esame, la Corte afferma che la sua reductio ad legitimitate esige la sola dichiarazione di illegittimità costituzionale della pena minima di due anni di reclusione, suscettibile di produrre in singoli casi concreti pene manifestamente sproporzionate per eccesso.
L’ablazione del minimo – tecnicamente attuabile con la sostituzione dell’inciso “da due a cinque anni” con l’inciso “fino a cinque anni” – determina, infatti, la riespansione della regola generale di cui all’art. 23 cod. pen., che stabilisce in quindici giorni la durata minima della reclusione ogniqualvolta la legge non disponga diversamente.
Ad avviso della Consulta, una tale soluzione non crea alcun insostenibile vuoto di tutela per il patrimonio, che continuerà ad essere efficacemente tutelato grazie alla pena prevista dall’art. 646 cod. pen., suscettibile di essere applicata dal giudice – nell’ipotesi delittuosa base, sino a un massimo di cinque anni di reclusione.
Al contempo, questa soluzione consentirà al legislatore di valutare se intervenire, nell’esercizio della sua discrezionalità, equiparando la pena minima per l’appropriazione indebita alla medesima soglia oggi stabilita per il furto e la truffa, ovvero stabilendone una diversa durata, tenendo conto del suo peculiare disvalore, e comunque entro i limiti dettati dal principio di proporzionalità tra gravità del reato e severità della pena.
La Corte Costituzionale ha, dunque, dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 646, primo comma, del codice penale, come modificato dall’art. 1, comma 1, lettera u), della legge 9 gennaio 2019, n. 3 (Misure per il contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione, nonché in materia di prescrizione del reato e in materia di trasparenza dei partiti e movimenti politici), nella parte in cui prevede la pena della reclusione «da due a cinque anni» anziché «fino a cinque anni».
Scrivi un commento
Accedi per poter inserire un commento