Trib. Roma, 29 novembre 2007 – Mobbing e dimissione

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Svolgimento del processo. – Con ricorso ritualmente depositato e notificato il nominato in epigrafe, premesso di essere stato dipendente della società resistente in forza di contratto di lavoro a tempo indeterminato con decorrenza 24/1/05 con inquadramento nella qualifica di quadro del C.C.N.L. Commercio, di avere svolto le mansioni corrispondenti al proprio inquadramento sino al maggio 2005, di essere stato da allora inspiegabilmente e progressivamente demansionato dall’azienda, di avere subito a causa di tale comportamento aziendale, oltre al danno professionale, danni biologici, morali ed esistenziali, di essersi dimesso in data 16 gennaio 2006 a seguito di tali danni e perché esasperato dalla situazione che si era creata in azienda, chiedeva la condanna dell’azienda al risarcimento del danno biologico nella misura di euro 150.000, con vittoria di spese.
Si costituiva in giudizio la società resistente, eccependo preliminarmente la nullità del ricorso introduttivo e contestando in fatto la fondatezza della domanda di cui chiedeva il rigetto.
Espletata la prova orale mediante l’escussione dei testimoni F.F., G.Z., M.S. e C.C., tutti colleghi e superiori gerarchici del ricorrente all’epoca dei fatti, la causa veniva discussa e decisa all’odierna udienza previo deposito di note conclusionali.
Motivi della decisione. – Preliminarmente deve essere rigettata l’eccezione di nullità formulata da parte resistente perché il ricorso contiene i requisiti minimi previsti dall’art. 414 c.p.c..
Nel merito la domanda è fondata e va accolta per le ragioni e nei termini che seguono.
Alla luce dell’istruttoria documentale ed orale espletata è emerso infatti che il ricorrente fu ingiustamente demansionato a far data dal maggio 2005, allorquando, in concomitanza della nomina del collega ***** a responsabile tecnico, egli non partecipò più alle riunioni aziendali, non venne mandato all’evento HP ENSA, cosa che gli occorreva professionalmente per ottenere il rinnovo della certificazione HP, non venne mandato dai clienti che richiedevano il sistema Red Hat nonostante fosse il principale conoscitore di quel sistema in azienda, subì lo spossessamento della scrivania, e venne progressivamente assegnato prima alla mansione di Help Desk e infine a quella di verifica dei cespiti, entrambe inferiori al livello di quadro da lui rivestito, e la seconda inferiore alla prima.
Inoltre il ricorrente ha prodotto in allegato al ricorso una relazione medico-legale dalla quale si evince che i disturbi psicopatologici da cui è stato affetto in concomitanza delle rassegnate dimissioni erano dovuti alla situazione lavorativa che si era venuta a creare in azienda.
In sede di libero interrogatorio il ricorrente ha poi dichiarato di avere ricominciato a lavorare un mese dopo le dimissioni dalla società resistente presso altra azienda operante nello stesso settore.
Così riassunte le emergenze probatorie, ritiene questo giudice che la domanda di parte ricorrente non possa essere accolta relativamente al mobbing propriamente detto ma solo nei confini del demansionamento, per le ragioni che seguono.
Il mobbing, in base alle elaborazioni effettuate in questi anni da giurisprudenza e dottrina, è invero ravvisabile nei casi in cui, a causa di un comportamento aziendale vessatorio volto a indurre il lavoratore alle dimissioni, questi finisca per versare in uno stato di malattia tale da non essere in grado di lavorare per molto tempo; ciò posto, va evidenziato come nel caso di specie, al di là delle conclusioni medico-legali cui è giunto il consulente di parte ricorrente, il lavoratore per sua stessa ammissione ha iniziato a prestare servizio presso un’altra azienda quasi subito dopo aver rassegnato le dimissioni dall’azienda resistente, il che dimostra che le vessazioni da lui subite presso l’azienda resistente non sono state tali da prostrarlo psicologicamente e fisicamente al punto da non permettergli più di lavorare per molto tempo.
Ne discende, atteso che per costante orientamento della S. C. la violazione del divieto di ius variandi in pejus sancito dall’art. 2103 c.c. comporta per il datore di lavoro l’obbligo di risarcire il lavoratore dei danni cagionati alla professionalità dello stesso, danni risarcibili ex re ipsa e valutabili anche in via equitativa, a prescindere dall’esistenza di danni biologici o alla vita di relazione (cfr. Cass. sez. lav. n. 11727/99), che il ricorso debba essere accolto nei limiti del demansionamento.
Con riguardo al quantum debeatur si ritiene di dover quantificare equitativamente la somma dovuta al lavoratore in euro 30.000,00, oltre accessori dalla pronuncia al saldo, tenuto conto di parametri oggettivi quali l’anzianità di servizio del lavoratore e le dimensioni dell’azienda datrice.
Il tenore della decisione giustifica la compensazione integrale delle spese di lite tra le parti.
 
P.Q.M. – IlTribunalecondanna parte resistente a corrispondere a parte ricorrente la somma di euro 30.000,00, oltre interessi legali e rivalutazione monetaria dalla pronuncia al saldo;
compensa le spese di lite tra le parti.
 
Nota di ****************

Staiano Rocchina

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