Consulta: la messa alla prova non si estende al favoreggiamento reale

La Consulta conferma la legittimità dell’art. 168-bis c.p. ed esclude la messa alla prova per il reato di favoreggiamento reale ex art. 379 c.p.

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La Consulta ritiene non illegittimo costituzionalmente l’art. 168-bis, co. 1, cod. pen. (messa alla prova): vediamo in che modo. Per supporto ai professionisti, abbiamo preparato uno strumento di agile consultazione, il “Formulario annotato del processo penale 2025”, giunto alla sua V edizione, acquistabile sullo Shop Maggioli e su Amazon, il Codice di Procedura Penale e norme complementari, disponibile su Shop Maggioli e su Amazon, e il Codice Penale e norme complementari 2026 – Aggiornato a Legge AI e Conversione dei decreti giustizia e terra dei fuochi, acquistabile sullo Shop Maggioli e su Amazon

Corte costituzionale -sentenza n. 157 del 6-10-2025

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Indice

1. La vicenda processuale: la richiesta di messa alla prova e il ruolo del G.U.P. di Taranto


Il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale ordinario di Taranto procedeva a carico di un imputato «accusato dei delitti di cui agli articoli 378 e 379 c.p., per aver aiutato» altri imputati nel medesimo procedimento penale «ad eludere le investigazioni svolte» nei loro confronti per i reati di truffa, appropriazione indebita e simulazione di reato, nonché «ad assicurarsi il profitto» di detti reati.
Orbene, l’imputato aveva formulato un’istanza di sospensione del procedimento con messa alla prova, allegando la «relazione di indagine sociale e programma trattamentale» dell’Ufficio esecuzione penale esterna. Per supporto ai professionisti, abbiamo preparato uno strumento di agile consultazione, il “Formulario annotato del processo penale 2025”, giunto alla sua V edizione, acquistabile sullo Shop Maggioli e su Amazon, il Codice di Procedura Penale e norme complementari, disponibile su Shop Maggioli e su Amazon, e il Codice Penale e norme complementari 2026 – Aggiornato a Legge AI e Conversione dei decreti giustizia e terra dei fuochi, acquistabile sullo Shop Maggioli e su Amazon.

2. Le questioni di legittimità costituzionale prospettate nell’ordinanza di rimessione: illegittimità costituzionale dell’art. 168-bis


A fronte della vicenda giudiziaria summenzionata venutasi a creare, il G.U.P. di Taranto sollevava, in riferimento agli artt. 3 e 27, terzo comma, della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 168-bis, primo comma, del codice penale, nella parte in cui «non prevede che l’imputato, anche su proposta del Pubblico Ministero, possa chiedere la sospensione del processo con messa alla prova in relazione al delitto di favoreggiamento reale di cui all’articolo 379 c.p.».
In particolare, in punto di rilevanza, ad avviso del giudice a quo, le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 168-bis cod. pen. sarebbero state rilevanti nel caso di specie, risultando soddisfatte le condizioni in presenza delle quali avrebbe potuto essere disposta la sospensione del procedimento con messa alla prova.
In effetti, in primo luogo, l’imputato non aveva mai usufruito dell’istituto in esame e, essendo stati i reati a lui contestati commessi in esecuzione di un medesimo disegno criminoso, avrebbe dovuto trovare applicazione il principio affermato dalla sentenza n. 174 del 2022 della Consulta, secondo cui «in caso di simultaneus processus avent[e] ad oggetto più fatti di reato, il Giudice [può] riconoscere il vincolo della continuazione» e consentire l’ammissione alla messa alla prova per tutti.
In secondo luogo, il rimettente riteneva come non dovesse pronunciarsi sentenza di proscioglimento, ai sensi dell’art. 129 del codice di procedura penale, «non potendosi predicare, sulla base degli elementi di prova nella [sua] disponibilità […], l’evidenza dell’innocenza» dell’imputato.
Inoltre, «ai sensi dell’articolo 133 c.p., deve ritenersi che il programma trattamentale redatto dall’UEPE sia adeguato», come si desumerebbe dall’incensuratezza dell’imputato, dalla sua resipiscenza – avendo, in sede di indagine sociale, «manifestato rammarico per i suoi comportamenti antigiuridici» –, nonché dall’essere egli «soggetto scolarizzato e [proveniente] da un contesto socio-familiare lontano da ambienti e logiche devianti».
Infine, il giudice rimettente stimava che, alla luce di questi stessi elementi, sebbene sarebbe stato possibile «pronosticare che [l’imputato], in futuro, si asterrà dal commettere ulteriori reati», tuttavia, l’art. 168-bis, primo comma, cod. pen. limita l’operatività dell’istituto della messa alla prova alle ipotesi in cui si proceda «per reati puniti con la sola pena edittale pecuniaria o con la pena edittale detentiva non superiore nel massimo a quattro anni, sola, congiunta o alternativa alla pena pecuniaria, nonché per i delitti indicati nel comma 2 dell’articolo 550 del codice di procedura penale»; mentre uno dei reati contestati all’imputato, il favoreggiamento reale, è punito con la pena detentiva massima di cinque anni di reclusione e non rientra nel novero di quelli a cui, ai sensi del comma 2 dell’art. 550 cod. proc. pen., si applica il procedimento per citazione diretta a giudizio, il che avrebbe precluso la concessione della messa alla prova.
Ciò posto, in ordine alla non manifesta infondatezza, il giudice a quo riteneva, in primo luogo, che l’art. 168-bis, primo comma, cod. pen. violi l’art. 3 Cost. sotto il profilo dell’irragionevole disparità di trattamento rispetto ai delitti, assunti a tertia comparationis, di falsa testimonianza (art. 372 cod. pen.) e di induzione a non rendere dichiarazioni o a rendere dichiarazioni mendaci all’autorità giudiziaria (art. 377-bis cod. pen.), trattandosi, invero, di figure criminose che offendono il medesimo bene giuridico – «l’amministrazione della giustizia, sub specie di attività giudiziaria» – leso dal favoreggiamento reale, che sono punite con una pena detentiva più severa (da due a sei anni di reclusione) e che possono ledere anche altri «diritti e libertà fondamentali».
Tuttavia, sempre ad avviso di tale organo giudicante, se, per esse, è ammissibile la messa alla prova, perché inserite nell’elenco dei reati di cui all’art. 550, comma 2, cod. proc. pen., per i quali il pubblico ministero esercita l’azione penale con la citazione diretta a giudizio, disposizione alla quale l’art. 168-bis, primo comma, cod. pen. rinvia per ampliare le ipotesi in cui è ammessa la sospensione del procedimento con messa alla prova, invece, il favoreggiamento reale è escluso dall’ambito di applicazione dell’istituto, perché è punito con la pena della reclusione fino a cinque anni, oltre alla pena pecuniaria, ossia con un massimo edittale superiore a quello entro cui il primo comma dell’art. 168-bis cod. pen. ammette la messa alla prova («pena edittale detentiva non superiore nel massimo a quattro anni, sola, congiunta o alternativa alla pena pecuniaria») e non è ricompreso nell’elenco dei reati di cui al comma 2 dell’art. 550 cod. proc. pen..
Orbene, ad avviso del rimettente, si ravviserebbe del resto una disparità di trattamento lesiva dell’art. 3 Cost. anche in relazione al delitto di favoreggiamento personale di cui all’art. 378 cod. pen., per il quale la messa alla prova è possibile, in quanto punito con la pena della reclusione fino a quattro anni visto che la commissione di tale reato «è potenzialmente idonea a compromettere le sorti di un intero procedimento penale» e non, come il favoreggiamento reale, la sola «possibilità di addivenire al sequestro e/o alla confisca del prezzo, del prodotto o del profitto di un reato».
Nonostante il reato di favoreggiamento reale sia punito con un «massimo edittale maggiore» rispetto al reato di favoreggiamento personale, sarebbe quindi evidente che quest’ultimo è «maggiormente idone[o] a destabilizzare l’amministrazione della giustizia», con conseguente non giustificabilità – anche in considerazione del fatto che il minimo edittale è uguale in entrambi i casi – della concedibilità della messa alla prova solamente per la seconda delle due fattispecie criminose in comparazione.
Le questioni sarebbero, poi, sempre ad avviso del giudice rimettente, non manifestamente infondate anche in riferimento all’art. 27, terzo comma, Cost., in quanto «l’impossibilità di addivenire alla sospensione del procedimento penale con messa alla prova» sarebbe «non razionalmente spiegabile e, dunque, idonea a comportare l’irrogazione di pene percepite come ingiuste».

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3. La decisione della Corte costituzionale: ampia discrezionalità del legislatore penale


La Corte costituzionale – dopo avere richiamato le argomentazioni addotte nell’ordinanza di rimessione – reputava la questione posta, in riferimento all’art. 3 della Cost., infondata.
Nel dettaglio, per il Giudice delle leggi, a fronte dell’argomentazione sostenuta dal giudice a quo secondo cui l’art. 168-bis, primo comma, cod. pen. – nella parte in cui non consente la sospensione del procedimento con messa alla prova per il delitto di favoreggiamento reale (art. 379 cod. pen.) – violerebbe l’art. 3 Cost., determinando un’irragionevole disparità di trattamento rispetto ai delitti di falsa testimonianza (art. 372 cod. pen.) e di induzione a non rendere dichiarazioni o a rendere dichiarazioni mendaci all’autorità giudiziaria (art. 377-bis cod. pen.), puniti con pena più elevata, per i quali, tuttavia, la messa alla prova è astrattamente ammissibile, osservava che, se è vero che le fattispecie di reato per le quali è possibile la messa alla prova perché elencate nell’art. 550, comma 2, cod. proc. pen., al quale, come detto, rinvia l’art. 168-bis cod. pen. – tra cui rientrano quelle assunte a tertia comparationis nell’odierno giudizio di legittimità costituzionale – presentano elementi di notevole disomogeneità, tanto che è problematico individuarne un’univoca e coerente ratio ispiratrice, tuttavia, per costante giurisprudenza costituzionale, il raffronto tra fattispecie normative, finalizzato a verificare la non manifesta irragionevolezza delle scelte legislative, deve avere comunque a oggetto casistiche omogenee, risultando altrimenti improponibile la stessa comparazione (sentenze n. 90 del 2025, n. 120 del 2023, n. 156 del 2020, n. 282 del 2010 e n. 161 del 2009), tenuto conto altresì del fatto come la medesima Corte costituzionale avesse già più volte riconosciuto al legislatore «un’ampia discrezionalità nella definizione dei limiti oggettivi» – ad esempio riferiti ai limiti di pena o a «specifici titoli di reato (individuati nominativamente o, come in questo caso, attraverso il richiamo a una categoria definita da altra disposizione)» – entro i quali possono trovare applicazione gli istituti del diritto penale punitivo “non carcerario”, sempre che la scelta normativa non risulti manifestamente irragionevole, creando insostenibili disparità di trattamento (così, da ultimo, sentenza n. 139 del 2025); disparità che, per la Corte, doveva essere esclusa nel caso in esame.
Difatti, per la Consulta, le ipotesi di reato messe a confronto – favoreggiamento reale, falsa testimonianza e induzione a non rendere dichiarazioni o a rendere dichiarazioni mendaci all’autorità giudiziaria – presentano sostanziali differenze sul piano della tipizzazione della fattispecie penale, così rappresentate: “In particolare, l’art. 372 cod. pen. punisce tre condotte alternative, di cui due commissive – affermare il falso e negare il vero – e una omissiva – tacere, totalmente o parzialmente, ciò che si sa (cosiddetta reticenza). Dette condotte devono essere poste in essere da colui che assume la qualifica di testimone, configurando così un reato proprio, e il loro destinatario può essere solamente il giudice, ordinario o speciale, civile o penale, monocratico o collegiale, oltre alla Corte penale internazionale. La fattispecie integra un reato di pericolo concreto, in quanto è sufficiente, ai fini della sua consumazione, che il mendacio e la reticenza siano idonei a indurre in errore il giudice e ad alterarne il convincimento, anche se poi non abbiano effettivamente inciso sul contenuto della decisione. Nell’art. 377-bis cod. pen., invece, la condotta tipica consiste nell’induzione del soggetto chiamato a rendere dichiarazioni davanti all’autorità giudiziaria (oltre al giudice, quindi, anche al pubblico ministero, ma non alla polizia giudiziaria) ad avvalersi della facoltà di non rispondere e a non rendere dichiarazioni ovvero a rendere dichiarazioni mendaci. Detta condotta deve essere realizzata con modalità tassativamente indicate dal legislatore, consistenti nella minaccia o violenza ovvero nell’offerta o promessa di denaro o di altra utilità, e deve indurre, effettivamente, il suo destinatario alla reticenza o alla menzogna processuali. Si tratta, infatti, di un reato di evento, perché, per la sua consumazione, è necessario che sia tenuta la condotta di non rendere dichiarazioni o di rendere dichiarazioni mendaci, ancorché, trattandosi anche in tal caso di reato di pericolo, non sia necessario che ciò abbia contaminato o deviato il corretto corso del procedimento penale. Mentre il soggetto agente può essere chiunque, il destinatario della condotta di induzione deve essere la persona chiamata a rendere dichiarazioni davanti all’autorità giudiziaria che abbia la facoltà processuale di non rispondere, come, ad esempio, l’indagato o l’imputato (art. 64 cod. proc. pen.), nonché l’indagato o l’imputato in procedimento connesso ai sensi dell’art. 12 cod. proc. pen., ovvero per reato collegato ai sensi dell’art. 371, comma 2, lettera b), cod. proc. pen. (art. 210 cod. proc. pen.). La norma incriminatrice, peraltro, punisce solamente chi pone in essere la condotta istigatrice, non anche la persona indotta, neanche quando l’induzione sia stata realizzata con offerta o promessa di denaro. Le dichiarazioni che il destinatario della condotta istigatrice può non rendere, infine, sono unicamente quelle che confluiscono nel procedimento penale e non in qualsiasi processo, anche civile o amministrativo, come le false dichiarazioni del testimone. Nel favoreggiamento reale – che presuppone la previa commissione di un reato e il non aver concorso il soggetto attivo in esso – la condotta tipica consiste, invece, nell’aiutare taluno ad assicurare il prodotto, il profitto o il prezzo di un reato. Ai fini dell’integrazione del reato, è sufficiente una qualsiasi azione od omissione obiettivamente idonea allo scopo, ossia a rendere definitivo, o almeno certo, il vantaggio che il reo abbia tratto dal reato, ancorché questo risultato non venga raggiunto; si tratta, infatti, di un reato di pericolo, in quanto, per la sua consumazione, non è necessario che il bene o il vantaggio siano definitivamente entrati nel patrimonio del “favorito”, nonché di un reato a forma libera. Nel favoreggiamento reale, poi, l’aiuto deve essere prestato nell’esclusivo interesse dell’autore del reato presupposto, potendosi configurare, altrimenti, altre fattispecie criminose, rispetto alle quali esso ha natura sussidiaria”.
Orbene, da tali considerazioni i giudici di legittimità costituzionale giungevano alla conclusione secondo la quale le condotte integrative dei reati in comparazione sono profondamente diverse, risultando accomunate solamente dal loro collegamento con lo svolgimento della funzione giudiziaria.
Ad ogni modo, a fronte di tale «diversità sul piano della tipizzazione delle condotte», la Consulta riteneva però necessario verificare se fosse riscontrabile quella «similitudine di disvalore» tra le fattispecie poste a raffronto, attestata dall’identità di materia, dalla medesimezza dei beni giuridici e dall’anticipazione della tutela penale degli stessi (e, dunque, dalla strutturazione delle fattispecie in questione come reati di pericolo), in linea con il precedente rappresentato dalla ricordata sentenza n. 90 del 2025.
Premesso ciò, si notava che i delitti di favoreggiamento reale, falsa testimonianza e induzione a non rendere dichiarazioni o a rendere dichiarazioni mendaci all’autorità giudiziaria sono accomunati dall’essere collocati nell’ambito dei delitti contro l’amministrazione della giustizia e, in particolare, tra quelli contro l’attività giudiziaria (Capo I, Titolo III, Libro II del codice penale), preposti, in generale, a preservare il regolare ed efficace funzionamento dell’attività giudiziaria in tutte le sue fasi, prodromiche, coeve e successive al processo, deducendo al contempo che le fattispecie delittuose poste in comparazione si strutturano, tutte, come reati di pericolo concreto, non essendo richiesta, ai fini del loro perfezionamento, una lesione effettiva della funzione giudiziaria, ma la sua esposizione a pericolo da verificarsi, appunto, in concreto, in base alle caratteristiche e alle circostanze del caso di specie.
Pur tuttavia, per il Giudice delle leggi, anche si vi è un’identità di materia e di anticipazione della soglia di tutela penale, si tratta, comunque, di fattispecie sostanzialmente disomogenee sotto il profilo dell’oggettività giuridica dato che le ipotesi di reato poste a confronto condividono unicamente il bene giuridico di categoria – l’amministrazione della giustizia appunto –, che raggruppa però una serie eterogenea di fattispecie incriminatrici, le quali, «pur presentando tratti comuni che ne giustificano la collocazione nella categoria dei delitti contro l’attività giudiziaria, non hanno carattere del tutto omogeneo» (sentenza n. 47 del 2010).
In particolare, la norma incriminatrice della falsa testimonianza tutela, nell’ambito del più generico interesse al regolare svolgimento dell’attività giudiziaria, lo specifico interesse alla correttezza delle decisioni giurisdizionali, che può essere turbato dal difetto di veridicità e completezza della prova testimoniale, anche «in considerazione del ruolo primario [da essa] svolto nel sistema processuale» (sentenza n. 47 del 2010).
Il reato, quindi, «salvaguard[a] la genuinità della prova» a garanzia del normale svolgimento del processo e del corretto accertamento giudiziale cui esso tende (ancora, sentenza n. 47 del 2010).
D’altronde, sempre ad avviso del Giudice delle leggi, anche il delitto di induzione a non rendere dichiarazioni o a rendere dichiarazioni mendaci all’autorità giudiziaria si colloca, nell’ambito della più ampia categoria dei delitti contro l’attività giudiziaria, tra quelli volti a tutelare la correttezza dell’accertamento giudiziario di fatti, in tal caso costituenti reato, ponendosi a garanzia della genuinità delle dichiarazioni che confluiscono nel procedimento (solamente) penale in funzione probatoria.
Lo specifico bene protetto dalla norma incriminatrice attiene cioè, anche in questa ipotesi, alla formazione della prova, che, nel processo penale, avviene in dibattimento e nel contraddittorio delle parti, ossia un bene che, come chiarito nel passato dalla medesima Corte costituzionale, ha un ruolo primario «in relazione all’attuale modello di processo penale di tipo tendenzialmente accusatorio» (sentenza n. 47 del 2010).
Ciò posto, era di più fatto presente che, se, nel caso in cui l’induzione sia realizzata tramite violenza o minaccia, all’offesa del bene giuridico dinanzi indicato si aggiunge la lesione della libertà individuale del destinatario dell’indebita pressione, con conseguente configurazione della fattispecie in termini di reato plurioffensivo, nel favoreggiamento reale, invece, oggetto di tutela è l’interesse, non solamente a che non sia prestata ai rei una collaborazione diretta a far divenire definitivi i vantaggi acquisiti a mezzo del reato, ma anche, e soprattutto, ad assicurare la fruttuosità e la concreta eseguibilità della confisca, come dimostrato dal fatto che l’oggetto materiale della condotta tipica è individuato nel prodotto, profitto o prezzo del reato, ossia nelle cose che possono costituire oggetto della misura di sicurezza di cui all’art. 240 cod. pen..
Il favoreggiamento reale, quindi, così strutturato, per la Corte, si colloca al di fuori delle fattispecie criminose poste a tutela della correttezza dell’accertamento e delle decisioni giudiziali, in cui confluiscono, invece, sia la falsa testimonianza sia l’induzione a non rendere dichiarazioni o a rendere dichiarazioni mendaci all’autorità giudiziaria.
Favoreggiamento reale, da un lato, falsa testimonianza e induzione a non rendere dichiarazioni o a rendere dichiarazioni mendaci all’autorità giudiziaria, dall’altro – pur presentando tratti comuni e momenti di contatto, che ne giustificano la collocazione nella medesima categoria dei delitti contro l’amministrazione della giustizia – non hanno, quindi, per la Consulta, un carattere omogeneo in rapporto al bene protetto, declinato nella peculiare specificità di ciascuna fattispecie incriminatrice, facendosene conseguire da ciò che l’acclarata sostanziale eterogeneità delle norme incriminatrici poste a confronto, sia per quanto attiene alla loro struttura, sia per quanto attiene ai beni giuridici tutelati, «determina l’inidoneità dei tertia comparationis a fungere da termine di riferimento onde verificare la pretesa lesione del principio di uguaglianza» (sentenza n. 207 del 2017).
Oltre a ciò, si evidenziava per di più che il favoreggiamento reale, diversamente da quanto rilevato per lo spaccio di lieve entità, non realizza «un’offesa attenuata all’interesse protetto» e non è «”espressione di criminalità minore”, propria di “fasce marginali” della società (sentenza n. 223 del 2022)», così da non poter essere considerato, di per sé, «particolarmente rispondente alle finalità risocializzanti» della messa alla prova, così come non possono ritenersi frustrate le «”finalità generali di deflazione giudiziaria per reati di contenuta gravità”, che, secondo la giurisprudenza costituzionale, l’istituto persegue (ex multis, sentenza n. 139 del 2020)», in quanto non può certo ritenersi che il favoreggiamento reale configuri, come il piccolo spaccio, «un reato di minore gravità e di facile accertamento» (sentenza n. 90 del 2025).
La censura di violazione dell’art. 3 Cost., di conseguenza, come già esposto in precedenza, era considerata non fondata.
Chiarito ciò, anche la questione sollevata in riferimento all’art. 27, terzo comma, Cost. non era reputata meritevole di accoglimento.
Difatti, in relazione all’argomentazione sostenuta dal rimettente, secondo cui «l’impossibilità di addivenire alla sospensione del procedimento penale con messa alla prova» sarebbe «non razionalmente spiegabile e, dunque, idonea a comportare l’irrogazione di pene percepite come ingiuste», la Corte costituzionale osservava che l’esclusione del delitto di favoreggiamento reale dall’ambito di applicazione della messa alla prova non frustra la finalità specialpreventiva dell’istituto. Rispetto a tale delitto, che non può considerarsi «di limitata offensività e […] indice di una ridotta pericolosità», infatti, la messa alla prova non si presta «al conseguimento dello scopo – costituzionalmente imposto dall’art. 27, terzo comma, Cost. – della risocializzazione del soggetto» (sentenza n. 90 del 2025) in modo più efficace di altri istituti «parimenti ispirati ad evitare la condanna ad una pena che possa essere percepita come non proporzionata e quindi tale da non favorire la risocializzazione del condannato» (sentenza n. 146 del 2023).
Per le ragioni sopra esposte, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 168-bis, primo comma, cod. pen., sollevata in riferimento all’art. 3 Cost., sotto il profilo dell’irragionevole disparità di trattamento rispetto al delitto di favoreggiamento personale (art. 378 cod. pen.), era pertanto dichiarata inammissibile mentre le questioni di legittimità costituzionale del medesimo art. 168-bis, sollevate in riferimento all’art. 3 Cost., sotto il profilo dell’irragionevole disparità di trattamento rispetto ai delitti di falsa testimonianza (art. 372 cod. pen.) e di induzione a non rendere dichiarazioni o a rendere dichiarazioni mendaci all’autorità giudiziaria (art. 377-bis cod. pen.), e all’art. 27, terzo comma, Cost., erano dichiarate non fondate.

4. Conclusioni: confermata la legittimità dell’art. 168-bis c.p. e l’esclusione del favoreggiamento reale


Fermo restando che, com’è noto, l’art. 168-bis, co. 1, cod. pen. stabilisce che, nei “procedimenti per reati puniti con la sola pena edittale pecuniaria o con la pena edittale detentiva non superiore nel massimo a quattro anni, sola, congiunta o alternativa alla pena pecuniaria, nonché per i delitti indicati dal comma 2 dell’articolo 550 del codice di procedura penale, l’imputato, anche su proposta del pubblico ministero, può chiedere la sospensione del processo con messa alla prova”, con la pronuncia in commento, la Corte costituzionale esclude che possa dichiararsi costituzionalmente illegittima, perché non consente che si possa chiedere siffatta sospensione allorché si proceda in riferimento al reato di cui all’art. 379 cod. pen., ossia il delitto di favoreggiamento reale.
Pertanto, alla luce di quanto postulato in codesta decisione, continua a non essere possibile accedere a tale rito speciale allorché si proceda per siffatto illecito penale.
Questa è dunque la principale novità che connota la pronuncia qui in esame.

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Avv. Di Tullio D’Elisiis Antonio

Avvocato e giornalista pubblicista. Cultore della materia per l’insegnamento di procedura penale presso il Corso di studi in Giurisprudenza dell’Università telematica Pegaso, per il triennio, a decorrere dall’Anno accademico 2023-2024. Autore di diverse pubblicazioni redatte per…Continua a leggere

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