Messa alla prova e piccolo spaccio: l’illegittimità costituzionale dell’art. 168-bis, comma 1, c.p.

La Corte costituzionale apre alla messa alla prova per il piccolo spaccio, dichiarando illegittimo l’art. 168-bis, co. 1, c.p. per disparità di trattamento.

Allegati

La Corte costituzionale apre alla messa alla prova per il piccolo spaccio, dichiarando illegittimo l’art. 168-bis, co. 1, c.p. per disparità di trattamento. Per approfondire ulteriormente il tema della legislazione in materia di stupefacenti, consigliamo il volume Stupefacenti – Manuale pratico operativo, disponibile su Shop Maggioli e su Amazon.

Corte costituzionale -sentenza n.90 dell’11-06-2025

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Indice

1. Il contesto processuale: due giudizi paralleli


Il Tribunale ordinario di Padova, sezione penale, in composizione monocratica, stava procedendo, in sede di giudizio direttissimo, dopo aver convalidato l’arresto in flagranza di una persona accusata di avere commesso il reato di produzione, traffico e detenzione illeciti di sostanze stupefacenti qualificato di lieve entità.
Ebbene, all’udienza predibattimentale fissata successivamente alla concessione del termine a difesa ex art. 558, comma 7, cod. proc. pen., l’imputato aveva formulato una richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova, ai sensi degli artt. 168-bis cod. pen. e 464-bis cod. proc. pen., depositando, a tal fine, la documentazione richiesta dall’art. 141-ter norme att. cod. proc. pen. ed eccependo, contestualmente, l’illegittimità costituzionale del citato art. 168-bis, laddove «preclude l’accesso al rito speciale richiesto per il delitto contestato all’imputato». Su questa richiesta, il pubblico ministero esprimeva parere negativo.
Ciò posto, dal canto suo, il Tribunale ordinario di Bolzano, sezione penale, in composizione monocratica, stava procedendo anch’esso in sede di giudizio direttissimo, dopo aver convalidato l’arresto in flagranza, per un reato analogo a quello trattato dal Tribunale di Padova.
Ebbene, all’udienza all’uopo fissata, l’imputato aveva formulato una richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova, ai sensi degli artt. 168-bis cod. pen. e 464-bis cod. proc. pen., «depositando [la] documentazione inerente l’attivazione della procedura» ed eccependo pure lui, contestualmente, l’illegittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 168-bis cod. pen., 550 cod. proc. pen. e 73, comma 5, t.u. stupefacenti, come modificato dall’art. 4, comma 3, del “decreto Caivano”; il pubblico ministero si rimetteva alla decisione del giudice. Per approfondire ulteriormente il tema della legislazione in materia di stupefacenti, consigliamo il volume Stupefacenti – Manuale pratico operativo, disponibile su Shop Maggioli e su Amazon.

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2. Le ragioni dell’illegittimità costituzionale: violazione degli artt. 3 e 27 Cost.


A fronte della situazione summenzionata, il Tribunale ordinario di Padova, sezione penale, in composizione monocratica, sollevava, in riferimento agli artt. 3 e 27, terzo comma, della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 168-bis, primo comma, del codice penale, 550, comma 2, del codice di procedura penale, e 73, comma 5, del decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza), nella parte in cui esclude, dall’ambito di applicazione della sospensione del procedimento con messa alla prova, il reato di produzione, traffico e detenzione illeciti di sostanze stupefacenti qualificato di lieve entità (d’ora in avanti, per comodità espositiva si utilizzerà anche la sineddoche “piccolo spaccio” o “spaccio di lieve entità”).
In particolare, ad avviso del Tribunale rimettente, le questioni di legittimità costituzionale sarebbero state rilevanti nel giudizio a quo, risultando soddisfatte le condizioni in presenza delle quali, ai sensi dell’art. 464-quater cod. proc. pen., la sospensione del procedimento con messa alla prova può essere disposta.
In primo luogo, avendo convalidato l’arresto in flagranza per la sussistenza dei «gravi indizi di colpevolezza a carico [dell’imputato] come emergenti dal verbale di arresto e dagli atti allegati allo stesso», il giudice a quo non ravvisava «elementi che consentano di ritenere infondata la contestazione del P.M. o che comportino una sentenza di proscioglimento per improcedibilità dell’azione o di estinzione del reato», ai sensi dell’art. 129 cod. proc. pen.
In secondo luogo, egli riteneva come fosse «possibile formulare un giudizio prognostico nel senso che l’imputato non commetterà altri reati», in quanto quella contestatagli costituiva «la prima violazione dei precetti penali, non essendo egli mai stato né segnalato né indagato né tantomeno condannato per altri reati», tenuto conto altresì del fatto che questa valutazione sarebbe stata supportata dalla «sua giovane età e [dal] contegno serbato in udienza di convalida dell’arresto», avendo, in sede di interrogatorio, «confessato il fatto e manifestato non solo a parole ma anche piangendo il proprio rammarico e il pentimento».
Tuttavia – osservava sempre il rimettente – l’art. 4, comma 3, del decreto-legge 15 settembre 2023, n. 123 (Misure urgenti di contrasto al disagio giovanile, alla povertà educativa e alla criminalità minorile, nonché per la sicurezza dei minori in ambito digitale), convertito, con modificazioni, nella legge 13 novembre 2023, n. 159, ha innalzato, da quattro a cinque anni di reclusione, il limite edittale massimo della pena prevista per il reato di spaccio di lieve entità, contestato all’imputato, precludendogli così l’accesso alla messa alla prova dato che l’art. 168-bis, primo comma, cod. pen. limita l’operatività di detto istituto alle ipotesi in cui si proceda «per reati puniti con la sola pena edittale pecuniaria o con la pena edittale detentiva non superiore nel massimo a quattro anni, sola, congiunta o alternativa alla pena pecuniaria, nonché per i delitti indicati dal comma 2 dell’articolo 550 del codice di procedura penale».
In conclusione, per codesto giudice, la circostanza che il reato contestato all’imputato era (ed è), ora, punito con la pena «da sei mesi a cinque anni» di reclusione, oltre la multa, e non rientrava nel novero di quelli a cui, ai sensi del comma 2 dell’art. 550 cod. proc. pen., si applica il procedimento per citazione diretta a giudizio, il quale costituiva l’«unico ostacolo all’ammissione dell’imputato alla sospensione del procedimento con messa alla prova», «essendo soddisfatti tutti gli altri requisiti».
Precisato ciò, in ordine invece alla non manifesta infondatezza, il giudice a quo stimava, in primo luogo, come il combinato disposto degli artt. 168-bis, primo comma, cod. pen., 550, comma 2, cod. proc. pen., e 73, comma 5, t.u. stupefacenti violasse l’art. 3 Cost., sotto il profilo dell’irragionevolezza e della disparità di trattamento dato che il decreto legislativo 10 ottobre 2022 n. 150 (Attuazione della legge 27 settembre 2021, n. 134, recante delega al Governo per l’efficienza del processo penale, nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari) ha ampliato l’operatività dell’istituto della messa alla prova, aumentando i «casi di citazione diretta a giudizio» di cui all’art. 550, comma 2, cod. proc. pen., tra cui ha inserito, alla lettera c), il reato previsto dall’art. 82, comma 1, del d.P.R. n. 309 del 1990 («Istigazione, proselitismo e induzione al reato di persona minore»; d’ora in avanti, anche: “istigazione all’uso illecito di sostanze stupefacenti”), che punisce, con la reclusione da uno a sei anni e con la multa da euro 1.032 a euro 5.164, «[c]hiunque pubblicamente istiga all’uso illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope, ovvero svolge, anche in privato, attività di proselitismo per tale uso delle predette sostanze, ovvero induce una persona all’uso medesimo».
Di conseguenza, in virtù del richiamo contenuto nell’art. 168-bis, primo comma, cod. pen., al comma 2 dell’art. 550 cod. proc. pen., la fattispecie di istigazione all’uso illecito di sostanze stupefacenti rientra, quindi, nell’ambito dei reati per i quali può essere disposta la sospensione del procedimento con messa alla prova e, dunque, poiché si tratterebbe di una condotta lesiva del medesimo bene giuridico tutelato dalla norma incriminatrice dello spaccio di lieve entità, sanzionata peraltro con una pena edittale maggiore, «nel minimo e nel massimo», la mancata previsione della possibilità di accedere alla messa alla prova per l’imputato di quest’ultimo reato genererebbe un’«evidente disparità di trattamento tra le due fattispecie».
Peraltro – osservava sempre il rimettente – «[d]etto irragionevole trattamento differenziato potrebbe costituire una conseguenza non contemplata dall’intervento legislativo che ha innalzato la pena massima del delitto» di piccolo spaccio, il quale, precedentemente, essendo punito con la pena edittale massima di quattro anni di reclusione, rientrava «nelle ipotesi di citazione diretta a giudizio da parte del Pubblico Ministero» di cui al primo comma dell’art. 550 cod. proc. pen. e, di conseguenza, nell’ambito di applicazione dell’art. 168-bis cod. pen.
Insomma, a seguito della modifica introdotta dall’art. 4, comma 3, del d.l. n. 123 del 2023, come convertito (d’ora in avanti, anche: “decreto Caivano”), il reato di spaccio di lieve entità è escluso dai casi di citazione diretta a giudizio di cui ai commi 1 e 2 dell’art. 550 cod. proc. pen. e, di conseguenza, dall’ambito di applicazione della sospensione del procedimento con messa alla prova.
Ad avviso del giudice a quo, peraltro, anche qualora questa esclusione «fosse frutto di una precisa e consapevole scelta del Legislatore», «si tratterebbe [comunque] di una scelta arbitraria», in quanto non vi sarebbero motivi giustificativi della disparità di trattamento, ai fini dell’ammissione alla sospensione del procedimento con messa alla prova, tra le due fattispecie incriminatrici.
D’altronde, sempre secondo questo giudice rimettente, le questioni qui in esame sarebbero state non manifestamente infondate anche con riferimento all’art. 27 Cost.: «[l]a pretermissione del reato di cui ci si occupa dall’ambito della messa alla prova contrasta [infatti] con il finalismo rieducativo della pena, non permettendo a chi – come nel caso di specie – si trova per la prima volta a giudizio di riparare alla propria condotta, attraverso un programma appositamente elaborato di concerto con l’Ufficio Locale dell’Esecuzione Penale Esterna, comprensivo dello svolgimento di lavori di pubblica utilità, con ciò riducendo il pericolo di reiterazione dell’illecito e reinserendo l’imputato nella società».
A fronte di ciò, il rimettente considerava, invece, come non superasse «il vaglio di non manifesta infondatezza […] la censura, sollevata dalla Difesa, in relazione alla violazione dell’art. 31, comma secondo, Cost. (tutela della gioventù), in quanto la circostanza che l’imputato sia da poco maggiorenne non impone un trattamento privilegiato, equiparabile a quello previsto per i minorenni».
Ad avviso del giudice a quo, era, infine, da escludere un’interpretazione costituzionalmente orientata delle norme censurate, sia perché non sarebbe possibile «aumentare arbitrariamente i limiti edittali dell’art. 168 bis c.p. per la sospensione con messa alla prova dell’imputato», che peraltro apparivano  non irragionevoli, avendo voluto il legislatore «limitare lo speciale rito premiale ai soli reati considerati meno gravi», sia perché non potrebbe ampliarsi l’elenco, di carattere tassativo, dei «casi di citazione diretta a giudizio» di cui all’art. 550, comma 2, cod. proc. pen..
Ciò posto, venendo ad esaminare la posizione assunta dall’altro organo giudicante, pure il Tribunale ordinario di Bolzano, sezione penale, in composizione monocratica, sollevava, in riferimento agli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost., questioni di legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990, 168-bis, primo comma, cod. pen., e 550, comma 2, cod. proc. pen., nella parte in cui esclude, dall’ambito di applicazione della sospensione del procedimento con messa alla prova, il reato di spaccio di lieve entità, oltre a dubitare della legittimità costituzionale, in riferimento all’art. 77, secondo comma, Cost., dell’art. 4, comma 3, del d.l. n. 123 del 2023, come convertito, nella parte in cui ha innalzato la pena edittale massima per il reato di piccolo spaccio da quattro a cinque anni di reclusione, così precludendo l’accesso all’istituto della messa alla prova.
Nel dettaglio, in punto di rilevanza, il rimettente osservava che, a seguito della modifica apportata dall’art. 4, comma 3, del d.l. n. 123 del 2023, come convertito, il limite edittale massimo della pena detentiva prevista per il reato di spaccio di lieve entità è stato aumentato, da quattro a cinque anni di reclusione, con conseguente «esclusione dell’applicabilità del rito speciale di cui all’art. 168-bis cod. pen.», e da ciò se ne faceva conseguire che all’imputato ne era precluso l’accesso, nonostante potesse «essere sin d’ora ritenuta positiva la prognosi rispetto alla futura astensione dalla commissione di ulteriori reati, posto che l’imputato, di giovane età, aveva effettivamente due precedenti, ma si trattava di contravvenzioni relative a violazioni del Codice della Strada, commesse nel giro di pochi giorni, tre anni prima dei fatti per cui qui si procede.
L’istanza da questi presentata, inoltre, per siffatto giudice, era oltre tutto tempestiva e accompagnata dalla richiesta del programma trattamentale presentata all’Ufficio esecuzione penale esterna di Bolzano, di cui però non poteva valutarsi l’idoneità perché non ancora elaborata.
L’unico elemento ostativo all’ammissione dell’imputato alla messa alla prova era, quindi, per il giudice a quo, la modifica normativa relativa al massimo edittale della pena del reato per cui si procedeva; dal che discendeva la rilevanza delle questioni, fermo restando che codesta rilevanza sarebbe stata confermata dall’impossibilità, in virtù della «chiarezza del dato normativo», di un’interpretazione costituzionalmente orientata delle norme censurate.
Ciò posto, in ordine alla non manifesta infondatezza, il Tribunale rimettente richiamava l’ordinanza di rimessione del Tribunale di Padova sopra esaminata, con riferimento alle censure di violazione degli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost..
In particolare, ribadito che l’esclusione del reato di spaccio di lieve entità dall’ambito applicativo dell’istituto della sospensione del procedimento con messa alla prova è «con ogni probabilità effetto non previsto e non voluto dal legislatore, che mirava esclusivamente […] all’inserimento» di detto reato tra quelli «per cui fosse possibile disporre la custodia cautelare in carcere», il giudice a quo sottolineava come si sia creata una «manifesta discrasia con il fatto che il delitto di cui all’art. 82 d.P.R. 309/1990 […] sia stato invece recentemente ricompreso espressamente nell’art. 550, comma secondo, lett. c) cod. proc. pen. […]» e, pertanto, in virtù del richiamo contenuto nell’art. 168-bis, primo comma, cod. pen., tra quelli per cui detto istituto è ammesso, evidenziandosi però al contempo che, tuttavia, questa differenza di trattamento tra le due fattispecie incriminatrici sarebbe stata priva di giustificazione e, quindi, irragionevole, perché sono poste, entrambe, a tutela della salute pubblica e privata e, anzi, «nel delitto di cui all’art. 82 il bene giuridico è messo in maggior pericolo, in quanto la condotta di diffusione dell’assunzione di stupefacenti coinvolge soggetti evidentemente non assuntori o comunque che non sarebbero autonomamente portati al consumo». Invece, lo spaccio di lieve entità presuppone «un rapporto “paritario” di compravendita, in cui il consumatore si approvvigiona dal reo per la soddisfazione di un desiderio di consumo che ha maturato personalmente».
Il piccolo spaccio, inoltre, sempre per siffatto organo giudicante, «coinvolge nella stragrande maggioranza dei casi soggetti che sono a loro volta assuntori e che utilizzano i proventi dell’attività illecita per approvvigionarsi di stupefacente» e, di conseguenza, per questo reato, l’istituto della messa alla prova consentirebbe, conformemente alla finalità rieducativa della pena, di evitare l’ingresso in carcere, che può mettere «in contatto il condannato con soggetti ben più professionali nell’ambito dello spaccio di stupefacenti», di «affrontare in via privilegiata il problema della tossicodipendenza», nonché di «consentire all’imputato di affrontare il percorso rieducativo in tempi prossimi alla commissione del delitto».
Ad avviso del Tribunale di Bolzano, tra l’altro, le questioni summenzionate sarebbero state nemmeno non manifestamente infondate anche in riferimento all’art. 77, secondo comma, Cost., in quanto il “decreto Caivano” è stato adottato per far fronte a un «”caso straordinario” determinato da episodi di criminalità giovanile ritenuti pericolosamente in aumento», come emerge dai lavori preparatori e dal preambolo dello stesso, fermo restando che, rispetto alle finalità perseguite dal legislatore, «l’intervento di cui all’art. 4, terzo comma, appare affatto inconferente», ponendosi come «norma oggettivamente e teleologicamente sconnessa con il resto del corpo dell’atto» poiché l’aumento del massimo edittale della pena detentiva per il reato di spaccio di lieve entità non può «in alcun modo, nemmeno astrattamente, essere ricondotto alla necessità di contrastare il disagio giovanile, la criminalità minorile o la sicurezza dei minori in ambito digitale», tenuto conto altresì del fatto che non risulterebbe esserci alcun legame tra «i delitti in tema di stupefacenti (in particolare le ipotesi lievi)» e la «criminalità minorile», considerato comunque che l’esclusione dell’accesso alla messa alla prova riguarda solamente «gli indagati adulti» e, quindi, l’eventuale obiettivo legislativo di contrasto alla criminalità minorile sarebbe stato «manifestamente mancato».

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3. Il percorso argomentativo della Consulta: omogeneità tra le fattispecie e finalità della messa alla prova


La Corte costituzionale – dopo avere osservato che i due giudizi concernevano questioni in larga misura sovrapponibili e, pertanto, meritavano di essere riuniti ai fini della decisione e reputata rilevante la questione in riferimento alla stimata violazione dell’art. 77 Cost., ma considerata la predetta questione tuttavia infondata – riteneva, in ordine agli altri parametri di riferimento costituzionali, che la questione sollevata in riferimento all’art. 3 Cost. fosse fondata.
In particolare, il Giudice delle leggi – dopo avere ritenuto che l’unico intervento, il quale avrebbe consentito di rimuovere il denunciato vulnus costituzionale, sarebbe consistito nell’adottare una pronuncia additiva che inserisca il riferimento al reato di spaccio di lieve entità nella norma che prevede, in via generale, i limiti di applicabilità dell’istituto della messa alla prova (l’art. 168-bis, primo comma, cod. pen.), dichiarando al contempo le questioni relative all’art. 550, comma 2, cod. proc. pen. inammissibili e avere fatto presente che, ad avviso di entrambi i rimettenti, l’art. 168-bis, primo comma, cod. pen. – nella parte in cui non consente la sospensione del procedimento con messa alla prova per il reato di spaccio di lieve entità – avrebbe violato l’art. 3 Cost., determinando un’irragionevole disparità di trattamento rispetto al reato di istigazione all’uso illecito di sostanze stupefacenti, punito con pena più elevata, per il quale, tuttavia, la messa alla prova è astrattamente ammissibile – notava prima di tutto che, per costante giurisprudenza costituzionale, il raffronto tra fattispecie normative, finalizzato a verificare la non manifesta irragionevolezza delle scelte legislative – nel caso di specie in ordine all’ammissibilità, in astratto, alla messa alla prova – deve avere a oggetto casistiche omogenee, risultando altrimenti improponibile la stessa comparazione (sentenze n. 120 del 2023, n. 156 del 2020, n. 282 del 2010 e n. 161 del 2009).
Ebbene, alla stregua di tale quadro ermeneutico, per la Consulta, le ipotesi di reato messe a confronto – il piccolo spaccio e l’istigazione all’uso illecito di sostanze stupefacenti – attengono alla medesima materia e sono sostanzialmente omogenee sotto il profilo dell’oggettività giuridica, nonché della strutturazione come reati di pericolo astratto o presunto visto che la ratio delle relative incriminazioni è quella di combattere il mercato della droga, espellendolo dal circuito nazionale, per la tutela «sia della salute pubblica […], sempre più compromessa [dalla] diffusione [delle sostanze stupefacenti], sia […] della sicurezza pubblica e dell’ordine pubblico […] negativamente incisi [..] dal prosperare intorno a tale mercato del fenomeno della criminalità organizzata […], nonché a fini di tutela delle giovani generazioni» (sentenza n. 333 del 1991).
Oltre a ciò, i giudici di legittimità costituzionale evidenziavano che, sebbene tali fattispecie si iscrivano, entrambe, nell’ambito dei reati di pericolo astratto o presunto, nei quali – data la rilevanza dei beni giuridici tutelati – la soglia di punibilità è anticipata, non essendo richiesta, per il loro perfezionamento, la lesione di detti beni, bensì la mera esposizione a pericolo, che la legge presume sussistente nel caso di realizzazione delle condotte incriminate, tuttavia, mentre l’art. 82, comma 1, t.u. stupefacenti, incrimina, alternativamente, l’istigazione pubblica, il proselitismo e l’induzione al consumo di sostanze stupefacenti, sanzionandoli con la pena detentiva da uno a sei anni di reclusione, oltre la multa, il reato di spaccio di lieve entità, «che un tempo costituiva una fattispecie attenuata rispetto al reato-base di produzione, traffico e detenzione illeciti di sostanze stupefacenti e psicotrope, si delinea oggi quale illecito autonomo (sentenze n. 88 del 2023 e n. 223 del 2022) che, “per i mezzi, la modalità o le circostanze dell’azione ovvero per la qualità e quantità delle sostanze, è di lieve entità”» (sentenza n. 43 del 2024) ed è punito con la pena della reclusione da sei mesi (diciotto in caso di “non occasionalità della condotta”) a cinque anni, oltre la multa, facendosene conseguire da ciò che l’art. 73, comma 5, t.u. stupefacenti incrimina un fatto di ridotta (o addirittura «minima», secondo la sentenza n. 40 del 2019) offensività dei beni giuridici tutelati, allo scopo di mitigare il sistema repressivo dei reati in materia di stupefacenti (così, sentenze n. 43 del 2024, n. 88 del 2023 e n. 223 del 2022).
Ebbene, per la Corte, pur nella diversità sul piano della tipizzazione delle condotte – di induzione dei destinatari delle esortazioni al consumo di stupefacenti, da un lato, e di produzione, traffico e detenzione a fini di spaccio, ancorché di lieve entità, dall’altro – è comunque riscontrabile una similitudine di disvalore tra le due fattispecie poste a raffronto, attestata appunto dall’identità dei beni giuridici e dall’anticipazione della loro tutela penale; similitudine che rende priva di giustificazione la diversa disciplina per esse prevista con riferimento alla messa alla prova, soprattutto in considerazione della natura e delle finalità di detto istituto dal momento che la messa alla prova è prevista per reati di moderata gravità, «rispetto ai quali l’ordinamento, per finalità di deflazione giudiziaria, sospende il processo in vista dell’eventuale estinzione del reato, sempre che l’imputato ne faccia richiesta», oggi anche su proposta del pubblico ministero (sentenza n. 139 del 2020), perseguendo così «scopi specialpreventivi in una fase anticipata, in cui viene “infranta” la sequenza cognizione-esecuzione della pena, in funzione del raggiungimento della risocializzazione del soggetto» (sentenza n. 91 del 2018).
È, pertanto, irragionevole, e comunque foriero di disparità di trattamento, ad avviso del Giudice delle leggi, che, per la fattispecie meno grave tra le due poste a confronto (il piccolo spaccio), l’accesso alla messa alla prova sia precluso, mentre per quella più grave (l’istigazione all’uso illecito di sostanze stupefacenti) sia, in astratto, ammissibile dato che la maggiore severità del trattamento sanzionatorio denota una condotta criminosa più grave; con la conseguenza che mentre la messa alla prova è riferita in generale, per scelta legislativa, ai reati di minore gravità, in materia di stupefacenti essa risulta preclusa proprio in ordine alla fattispecie che, per costante giurisprudenza costituzionale, presenta «tratti di ridotta offensività, che segnano la sua marcata distanza dalle altre fattispecie di reato “inerenti agli stupefacenti”» (sentenza n. 43 del 2024).
In altre parole, l’esclusione del reato di piccolo spaccio dal perimetro applicativo della messa alla prova – che è derivata dall’innalzamento del massimo edittale da quattro a cinque anni di reclusione realizzato dal “decreto Caivano” – ha determinato un’anomalia, ribaltando la scala di gravità tra le due figure criminose in comparazione, entrambe attinenti alla materia degli stupefacenti e preposte alla tutela dei medesimi beni giuridici, di cui incriminano la mera esposizione a pericolo visto che l’ipotesi meno grave è soggetta a un trattamento più rigoroso, sul versante considerato, ossia l’ammissibilità alla messa alla prova, con conseguente violazione dei principi di uguaglianza e ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost..
Chiarito ciò, sempre per la Consulta, il sovvertimento della scala di disvalore segnata dalle comminatorie edittali, considerato che si tratta di ipotesi di reato omogenee in rapporto ai beni protetti e alle relative modalità di aggressione, è dunque privo di giustificazione alla luce della finalità dell’istituto della messa alla prova e della funzione della fattispecie attenuata dello spaccio di lieve entità; anzi, proprio la ratio su cui si fonda il comma 5 dell’art. 73 – ossia mitigare il sistema repressivo dei reati in materia di stupefacenti, in presenza di condotte che realizzano un’offesa attenuata all’interesse protetto e sono «espressione di criminalità minore», propria di «fasce marginali» della società (sentenza n. 223 del 2022) – è particolarmente rispondente alle finalità risocializzanti, da un lato, e deflattive, dall’altro, della messa alla prova, osservandosi, a tal proposito, innanzitutto che, a differenza di «altri istituti (quali le misure alternative alla detenzione, nonché la sospensione condizionale della pena), parimenti ispirati ad evitare la condanna ad una pena che possa essere percepita come non proporzionata e quindi tale da non favorire la risocializzazione del condannato» (sentenza n. 146 del 2023), la messa alla prova «disegna un percorso rieducativo e riparativo, alternativo al processo [oltre che] alla pena […], che conduce, in caso di esito positivo, all’estinzione del reato» (sentenza n. 146 del 2022), senza ignorare l’ulteriore considerazione secondo cui, dalla medesima giurisprudenza costituzionale, peraltro, «emerge un favor per la messa alla prova», in costanza della quale «il processo è sospeso e la valutazione del giudice è fatta in limine, ossia prima dell’accertamento giudiziale sull’incolpazione» (sentenza n. 146 del 2023), con la conseguenza che il programma di trattamento alternativo alla pena, cui si sottopone volontariamente l’imputato (sentenza n. 91 del 2018), inizia immediatamente senza la necessità di attendere la conclusione del processo e la pronuncia della sentenza.
Per questa ragione, dunque, ad avviso dei giudici di legittimità costituzionale, la messa alla prova coniuga la funzione premiale – derivante dalla circostanza che il suo «positivo svolgimento determina [per l’imputato] le favorevoli conseguenze della declaratoria di estinzione del reato» (sentenza n. 163 del 2022) – con una forte vocazione risocializzante: la risocializzazione del soggetto, infatti, si svolge in «una fase anticipata» (sentenza n. 91 del 2018) rispetto alla stessa celebrazione del processo e all’eventuale condanna a una pena condizionalmente sospesa, a una pena sostitutiva di una pena detentiva breve o, comunque, a una pena la cui esecuzione sia sostituita da una misura alternativa, e ciò indubbiamente comporta maggiori possibilità di esito positivo della prova con conseguente recupero dell’imputato, che viene “affidato”, senza ritardo, all’ente o al soggetto presso il quale svolgerà le sue prestazioni (art. 141-ter norme att. cod. proc. pen.).
Precisato ciò, la Consulta notava, in secondo luogo, che la messa alla prova non implica una mera prognosi circa l’astensione dal commettere reati, bensì la valutazione in ordine all’idoneità del programma di trattamento, che – pur «funzional[e] alla risocializzazione del soggetto» – al contempo assume «una innegabile connotazione sanzionatoria rispetto al fatto di reato» (sentenza n. 68 del 2019), fermo restando che il carattere sanzionatorio della messa alla prova è evidenziato, tra l’altro, proprio dalla prestazione del lavoro di pubblica utilità, che ne è una componente imprescindibile (sentenze n. 23 del 2025, n. 163 del 2022, n. 75 del 2020 e n. 68 del 2019), tanto più se si fa presente che, se le prescrizioni oggetto del programma trattamentale, inoltre, incidono «in maniera significativa sulla libertà personale del soggetto che vi è sottoposto», tanto da doversi mantenere «entro un rapporto di proporzionalità rispetto alla gravità del fatto commesso» (sentenza n. 68 del 2019), in virtù delle finalità specialpreventiva e risocializzante che deve perseguire, il trattamento è però «ampiamente modulabile, tenendo conto della personalità dell’imputato e dei reati oggetto dell’imputazione» (sentenza n. 91 del 2018) giacché esso è «determinato legislativamente solo attraverso l’indicazione dei tipi di condotta che ne possono formare oggetto, rimettendone la specificazione […] all’ufficio di esecuzione penale esterna e al giudice, con il consenso dell’imputato» (sentenza n. 91 del 2018).
Orbene, alla luce di quanto sin qui esposto, il Giudice delle leggi perveniva alla conclusione secondo la quale– stante la particolare natura del reato di spaccio di lieve entità che, come evidenziato, si traduce in un fatto pur sempre attinente alla produzione, al traffico e alla detenzione illeciti di sostanze stupefacenti, ma di limitata offensività e, soprattutto, indice di una ridotta pericolosità (sentenza n. 43 del 2024) – la messa alla prova ben si presta al conseguimento dello scopo – costituzionalmente imposto dall’art. 27, terzo comma, Cost. – della risocializzazione del soggetto.
Da ultimo, si evidenziava come l’esclusione del piccolo spaccio dal perimetro applicativo della messa alla prova frustrerebbe anche le «finalità generali di deflazione giudiziaria per reati di contenuta gravità», che, secondo la giurisprudenza costituzionale, l’istituto persegue (ex multis, sentenza n. 139 del 2020), essendosi infatti al cospetto di un reato di minore gravità e di facile accertamento, soprattutto in riferimento alla fattispecie base non circostanziata – che viene in rilievo «quale discrimine per l’accesso al beneficio» della messa alla prova (sentenza n. 146 del 2023) – la cui condotta è caratterizzata, alla luce delle modifiche apportate dal “decreto Caivano”, oltre che dalla minima offensività, anche dall’occasionalità, essendo dunque un reato che ben si presta a una definizione alternativa del procedimento, con evidenti effetti deflattivi (sentenze n. 146 del 2022, n. 14 del 2020, n. 91 del 2018 e n. 240 del 2015).
In conclusione, per la Corte, l’ammissibilità alla messa alla prova per il più grave reato di istigazione all’uso illecito di sostanze stupefacenti e non per quello di piccolo spaccio si traduce in una violazione dell’art. 3 Cost..
I giudici di legittimità costituzionale, di conseguenza, alla stregua delle considerazioni sin qui enunciate, dichiaravano l’illegittimità costituzionale dell’art. 168-bis, primo comma, del codice penale, nella parte in cui non consente la sospensione del procedimento con messa alla prova per il reato previsto dall’art. 73, comma 5, del decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza).

4. La decisione della Corte: pronuncia e dichiarazione di illegittimità costituzionale


Fermo restando che, come è noto, l’art. 168-bis, co. 1, cod. pen. dispone che, nei “procedimenti per reati puniti con la sola pena edittale pecuniaria o con la pena edittale detentiva non superiore nel massimo a quattro anni, sola, congiunta o alternativa alla pena pecuniaria, nonché per i delitti indicati dal comma 2 dell’articolo 550 del codice di procedura penale, l’imputato, anche su proposta del pubblico ministero, può chiedere la sospensione del processo con messa alla prova”, con la decisione in esame, è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale di questo precetto normativo nella parte in cui non consente la sospensione del procedimento con messa alla prova per il reato previsto dall’art. 73, comma 5, del decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309.
Tal che ne consegue che, per effetto di tale pronuncia, è adesso possibile accedere a siffatto rito speciale, anche laddove si proceda per un reato di questo genere.
Questa è dunque la novità che connota la sentenza qui in commento.

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Avv. Di Tullio D’Elisiis Antonio

Avvocato e giornalista pubblicista. Cultore della materia per l’insegnamento di procedura penale presso il Corso di studi in Giurisprudenza dell’Università telematica Pegaso, per il triennio, a decorrere dall’Anno accademico 2023-2024. Autore di diverse pubblicazioni redatte per…Continua a leggere

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