La violenza economica integra il reato di maltrattamento contro familiari e conviventi

La violenza economica è riconducile al reato di cui all’articolo 572 del codice penale intitolato «Maltrattamenti contro familiari e conviventi».

Allegati

Ogni giorno migliaia di donne subiscono una qualche forma di violenza in Italia e nel resto del mondo. Alcune di queste sono tragiche e ben visibili sul corpo e nell’anima, altre invece sono subdole e si insinuano silenziosamente in tutti quei luoghi dove nessuno guarda: nelle proprie case. Stiamo parlando della violenza economica, una piaga invisibile che esiste e persiste nel tessuto della nostra società.
La violenza economica è riconducile al reato di cui all’articolo 572 del codice penale intitolato «Maltrattamenti contro familiari e conviventi» quando i connessi comportamenti vessatori siano suscettibili di provocare un vero e proprio stato di prostrazione psicofisica e le scelte economiche ed organizzative assunte in seno alla famiglia, in quanto non pienamente condivise da entrambi i coniugi, ma unilateralmente imposte, costituiscano il risultato di comprovati atti di violenza e prevaricazione psicologica.
È quanto emerge dalla recente sentenza n° 1268/2025 pronunciata dalla Suprema Corte di Cassazione VI Sezione penale in data 14 novembre 2024 e depositata il 13 gennaio 2025.
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Corte di Cassazione -sez. VI pen.- sentenza n. 1268 del 14-11-2024

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Indice

1. I fatti: la violenza economica sulla moglie


La Suprema Corte si è espressa, rigettandolo, in merito al ricorso presentato avverso la sentenza della Corte di appello di Torino che confermava la condanna dell’imputato, in primo grado, per il delitto di maltrattamenti ai danni della moglie, aggravato dalla presenza di figli minorenni.
Si trattava di maltrattamenti perpetrati dal 2000 al 2019.
L’imputato sosteneva che la moglie avesse autonomamente deciso di non lavorare per dedicarsi ai figli, facendo affidamento sul mantenimento da parte del marito.
Contestava, altresì, la violazione della legge in ordine al regime sanzionatorio in quanto la sentenza impugnata aveva, a suo dire, erroneamente applicato quello più grave previsto dalla legge n. 69 del 2019 nonostante le ultime condotte contestate, risalenti al periodo successivo all’entrata in vigore della presente legge, e precisamente al 30 e 31 agosto del 2019, fossero solo due.
La difesa di parte ricorrente sosteneva, pertanto, che le due condotte, consistenti in minacce, andassero lette autonomamente rispetto alle precedenti in quanto disancorate e consumatesi in assenza di convivenza.
Dalle prove testimoniali assunte in sede dibattimentale emergeva, invece, in tutta la sua evidenza, la realizzazione di condotte violenti, controllanti e denigratorie durante la vita matrimoniale nei confronti della moglie, proseguite anche successivamente alla separazione.
Con particolare riferimento all’aspetto economico, risultava ampiamente provato che l’imputato, nel corso degli anni, ostacolava l’emancipazione economica della moglie, negandole di intraprendere percorsi formativi e di trovare un’occupazione lavorativa.
Inoltre, quando la donna aveva trovato un’occupazione nel settore turistico, affrancandosi dai divieti imposti, l’imputato aveva iniziato a seguirla, a chiamarla incessantemente, intimandole di tornare a casa in presenza di colleghe e clienti, così umiliandola.
La sentenza impugnata individuava i diversi profili –psicologico, sessuale, fisico ed economico- attraverso cui si è connotata nel tempo la condotta tenuta dal ricorrente, correttamente qualificabili come costitutivi del delitto di cui all’art. 572 del codice penale. Per un valido supporto per professionisti consigliamo: Codice penale e di procedura penale e norme complementari -Edizione 2024. Aggiornato alla Riforma Nordio e al decreto Svuota Carceri

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2. L’articolo 572 del codice penale e l’incidenza del diritto internazionale sulla pronuncia della sentenza della Suprema Corte


«Chiunque, fuori dei casi indicati nell’articolo precedente, maltratta una persona della famiglia o comunque convivente, o una persona sottoposta alla sua autorità o a lui affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l’esercizio di una professione o di un’arte, è punito con la reclusione da tre a sette anni.
La pena è aumentata fino alla metà se il fatto è commesso in presenza o in danno di persona minore, di donna in stato di gravidanza o di persona con disabilità come definita ai sensi dell’articolo 3 della legge 5 febbraio 1992 n. 104, ovvero se il fatto è commesso con armi.
Se dal fatto deriva una lesione personale grave, si applica la reclusione da quattro a nove anni; se ne deriva una lesione gravissima, la reclusione da sette a quindici anni; se ne deriva la morte, la reclusione da dodici a ventiquattro anni.
Il minore di anni diciotto che assiste ai maltrattamenti di cui al presente articolo si considera persona offesa dal reato».
Questo il contenuto dell’articolo, così come modificato ed integrato per effetto della legge n. 69 del 2019.
Considerato il prestarsi dell’articolo 572 del codice penale a differenti interpretazioni in merito a cosa debba intendersi per maltrattamenti, la Suprema Corte con la sentenza in esame ha evidenziato l’importanza del ricorso a quanto previsto a livello internazionale precisando che: «Ove una norma interna si presti a differenti interpretazioni o presenti margini di incertezza, è opportuno scegliere quella che consenta il rispetto degli obblighi internazionali».
È questo un concetto già chiarito dalla Suprema Corte, a Sezioni Unite, con sentenza n.10959 del 2016.
Nella sentenza n° 1268 del 2025 si legge che assumono particolare rilievo l’art. 3, lett. a) della Convenzione di Istanbul dell’11 maggio 2011 (Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica) ratificata dall’Italia con legge n. 77 del 27 giugno 2013, nonché i considerando 17 e 18 della Direttiva 29/2012/UE e in ultimo la direttiva UE 1385/2024 del 14 maggio 2024.
L’art. 3, lett. a) della citata Convenzione stabilisce che «Con l’espressione “violenza nei confronti delle donne” si intende designare una violazione dei diritti umani e una forma di discriminazione contro le donne, comprendente tutti gli atti di violenza fondati sul genere che provocano o sono suscettibili di provocare danni o sofferenze di natura fisica, sessuale, psicologica o economica, comprese le minacce di compiere tali atti, la coercizione o la privazione arbitraria della libertà, sia nella vita pubblica, che nella vita privata».
Passando ad analizzare la direttiva 29/2012/UE, i Considerando 17 e 18 definiscono rispettivamente i concetti di «violenza di genere» e di «violenza nelle relazioni strette», ciascuna delle quali in grado di provocare danni di natura economica alla vittima.
Il Considerando 17 enuncia: «Per violenza di genere si intende la violenza diretta contro una persona a causa del suo genere, della sua identità di genere o della sua espressione di genere o che colpisce in modo sproporzionato le persone di un particolare genere. Può provocare un danno fisico, sessuale, emotivo o psicologico o una perdita economica alla vittima…».
Il Considerando 18 sancisce: «La violenza nelle relazioni strette è quella commessa da una persona che è l’attuale o l’ex coniuge o partner della vittima ovvero da un altro membro della sua famiglia, a prescindere dal fatto che l’autore del reato conviva o abbia convissuto con la vittima. Questo tipo di violenza potrebbe includere la violenza fisica, sessuale, psicologica o economica e provocare un danno fisico, mentale o emotivo o perdite economiche…».
Ad avallare ulteriormente la gravità della violenza economica è la direttiva UE 1385/2024 del 14 maggio del 2024 «sulla lotta alla violenza contro le donne e alla violenza domestica» la cui adozione da parte del legislatore europeo ha postol’attenzione sulla possibile rilevanza di forme di controllo economico, nel più ampio contesto delle condotte di violenza domestica.
Nel Considerando 32 si legge: «…La violenza domestica può tradursi in un controllo economico da parte dell’autore del reato e le vittime potrebbero non avere un accesso effettivo alle proprie risorse finanziarie».
Ed ancora, il Considerando 39 afferma che nel valutare le situazioni che richiedono una particolare attenzione alle esigenze di protezione e assistenza in favore della vittima, dovrebbe essere preso in considerazione, tra l’altro, «…il grado di controllo esercitato dall’autore del reato o dall’indagato sulla vittima, sia dal punto di vista piscologico che economico».

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3. La pronuncia della Suprema Corte


Sulla scorta di quanto disposto a livello internazionale, la Suprema Corte ha potuto agevolmente concludere per un’interpretazione dell’art. 572 del codice penale tale da inglobare tra le forme di maltrattamenti anche quelli concernenti la violenza economica considerata l’imposizione di un sistema di potere asimmetrico, all’interno del nucleo familiare, di cui la componente economico-patrimoniale rappresenta un profilo di particolare rilievo perché costituisce oggetto di una decisione unilateralmente assunta dall’imputato, anche attraverso il ricorso a forme manipolatorie e pressioni psicologiche sulla persona offesa, tali da incidere sulla sua autonomia, sulla sua dignità e sulla sua integrità fisica e morale, quali beni giuridicamente tutelati dall’art. 572 del codice penale.
È chiaramente emerso che le gravi condotte maltrattanti poste in essere dall’imputato sono insorte spesso per il desiderio della persona offesa di lavorare o comunque dalla trasgressione a divieti dall’imputato imposti.
Dal testo della sentenza si evince che già precedentemente, e precisamente con sentenza n° 6937 del 17 febbraio del 2023, la Cassazione penale si era pronunciata in ordine alla rilevanza delle condotte impositive di forme di «risparmio domestico» quale modalità pervasiva di coartazione e controllo dell’imputato nei confronti della moglie, in quel caso economicamente autonoma, idonea a determinare un sistema di relazioni familiari basato su un regime di controlli vessatori e mortificanti.
Anche in quell’occasione, la Cassazione concludeva per l’applicabilità dell’art. 572 del codice penale perché se è vero che con il matrimonio i coniugi stabiliscono anche uno stile di vita eventualmente improntato al risparmio, in alcuni casi magari non necessario, è altrettanto vero che tale stile di vita debba essere condiviso e non possa essere imposto, soprattutto con riferimento alle quotidiane esigenze di vita in casa e all’accudimento personale.
L’imputato, in quel caso imponeva alla moglie i negozi in cui recarsi per la spesa e di fare la doccia una sola volta a settimana.
Inoltre, era consentito l’utilizzo di una sola posata e di un solo piatto per pasto.
L’articolo 572 del codice penale trovava applicazione alla luce delle condotte seriali tenute che denotavano sia l’abitualità che un comportamento impositivo del proprio volere, fortemente limitante l’autonomia e la dignità della donna.
Per quanto concerne la doglianza in merito all’applicazione del più grave regime sanzionatorio di cui alla legge n. 69/2019, che ha riformato l’art. 572 del codice penale, inasprendone le pene, la Suprema Corte con la sentenza del 2025 ha rigettato i motivi del ricorso atteso che i fatti avvenuti il 30 e 31 agosto del 2019 e quindi successivamente alla riforma, pur essendo solo due, sono stati correttamente collocati, dalle conformi sentenze di merito, in linea di continuità, attesi il contesto e le modalità di commissione, con quelli precedenti, di cui hanno costituito il conseguente epilogo fattuale, con la doverosa applicazione della sanzione più grave  entrata in vigore il 9 agosto del 2019.
Ha ulteriormente precisato che: «Il mero decorso del tempo, anche protratto, non assume di per sé valenza dirimente per escludere la continuità tra la singola condotta successiva e quelle precedenti, cui essa si lega inscindibilmente anche sotto il profilo psicologico».
Ed ancora: «È di tutta evidenza che la prospettiva esegetica deve concentrarsi sulla specifica dinamica della abitualità delle condotte poste in essere nei confronti della donna in ambito familiare e deve essere volta ad accertare se il singolo atto o fatto sia riproduttivo delle modalità cicliche di prevaricazione e controllo che caratterizzano la serie degli atti di maltrattamento commessi a suoi danni».
A tanto si aggiungache «la lettura non frazionata del tempus commissi delicti rispetta la struttura del reato, lo colloca nella dimensione interpretativa richiesta anche dalle Corti sovranazionali e consente di verificare nella capacità lesiva di ogni ulteriore atto la rinnovazione e l’aggravamento dell’offesa prodotta dalla non interrotta condotta antigiuridica incidente su diritti inalienabili».
È innegabile che la violenza economica, unitamente a quella psicologica, non sia la forma più evidente perché, a differenza di quella fisica e sessuale, non lascia segni visibili.
La violenza economica, invece, potrebbe essere solo il primo segnale di una violenza che può assumere altre forme, ancora più pericolose. È una sorta di reato spia a cui bisogna dare la giusta attenzione.
Pertanto, non possono residuare dubbi sulla gravità della stessa che, protraendosi nel tempo, ha quale epilogo l’annientamento della dignità e la limitazione, se non la totale soppressione, della libertà di autodeterminazione finanziaria di chi si ritrova costretto a sottostare ad abituali condotte maltrattanti e a dover dipendere dall’autorizzazione di chi, arrogandosi tale potere, si erge ad unico decisore delle scelte familiari, trascurando oltre la gravità del reato a livello penale, altresì, il contenuto di cui all’art. 143 del codice civile ai sensi del quale «Con il matrimonio il marito e la moglie acquistano gli stessi diritti e assumono gli stessi doveri. Dal matrimonio deriva l’obbligo reciproco anche all’assistenza materiale oltre che morale».
Non può non ravvisarsi, pertanto, l’evidente contrarietà alla vigente normativa, nazionale e internazionale, di un’eventuale sottomissione dell’una all’altro.

Maria Teresa Caputo

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