Tipicità e delitto tentato nell’ottica della rapina impropria

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Dal binomio tentato furto/ tentata rapina impropria delle Sezioni Unite 2012 alle pronunce del 2017

Sommario: 1. Il principio di tipicità: brevi cenni e qualche teoria; 2. La tipicità si intreccia con il delitto tentato: i retroscena dottrinali e teorici del dibattito giurisprudenziale risolto nel 2012; 3. Il presupposto di fatto e la qualificazione giuridica del fatto concreto: passaggio dal furto tentato alla tentata rapina impropria. Le SSUU n. 34952 del 2012; 4. Ancora sulla tentata rapina impropria. Il  segmento della condotta tipica e la sua collocazione temporale: una recente pronuncia del 2017.

 Il principio di tipicità: brevi cenni e qualche teoria.

L’individuazione dei comportamenti penalmente rilevanti passa necessariamente attraverso la costruzione di fattispecie astratte. Alle esigenze di protezione dei beni giuridici implicitamente o esplicitamente desumibili dal tessuto costituzionale il legislatore risponde mediante la selezione dell’insieme degli elementi che, prendendo in prestito le parole di autorevole dottrina[1], delineano il volto del reato.

La predeterminazione di tali elementi e la predetta attività di strutturazione astratta dell’illecito penale sopperiscono ad una fondamentale funzione di garanzia:  se il p. di legalità proibisce l’assoggettamento a pena di condotte che non siano sussumibili sotto fattispecie astratte esistenti al momento della loro manifestazione nella realtà, il p. di tipicità è il criterio che consente di operare una cernita dei comportamenti che rientrano nel divieto penale e di quelli che, in quanto non corrispondenti ad alcun tipo legale, sono privi di conseguenze.

Cos’è, dunque, il tipo legale? Quali sono gli elementi che compongono il fatto tipico? La risposta ai predetti quesiti varia al variare del pensiero dei massimi esponenti della dottrina penale italiana. Volendo raggruppare le diverse scuole di pensiero  in due grandi filoni, si può ritenere che, secondo una concezione “classica”, la fattispecie deve essere intesa come insieme dei soli elementi oggettivi del fatto di reato, identificabili nella condotta ed, eventualmente, nel nesso causale e nell’evento.

Secondo altra e diversa visione, invece, oggi predominante, il fatto tipico ricomprende anche le componenti soggettive (elemento soggettivo, in particolare dolo e colpa).

Tanto nell’una quanto nell’altra concezione, un ruolo fondamentale è assunto dalla tecnica legislativa utilizzata ai fini della composizione del fatto tipico: la tecnica di formazione cd “descrittiva” si basa sull’uso di elementi  traenti fondamento dalla realtà empirica.

Essa agevola, non poco, la conoscibilità dell’illecito penale da parte del singolo consociato, specie se non avvezzo all’uso di termini giuridici, e, il più delle volte, risponde in modo concreto ai principi di precisione (definizione chiara, precisa e dettagliata dei contorni e dell’ambito applicativo dell’illecito penale), determinatezza  (idoneità degli elementi ad essere accertati e provati in giudizio) e tassatività (idoneità della norma a porre il giudicante nelle condizioni di non far uso dell’analogia).

Maggiori difficoltà sorgono quanto più ci si allontana dal dato empirico, fino all’uso di “concetti normativi” dotati di elevato grado di astrazione, i quali rendono più complessa la comprensione della portata del precetto penale e dei quali, ad ogni modo, il legislatore ha fatto largo uso.

Quale che sia la tecnica adottata di volta in volta dal legislatore, la struttura dell’illecito penale e, quindi, del fatto tipico, è fortemente ancorata al concetto di azione, del quale la dottrina ha cercato, invano, di fornire una definizione unitaria, ma finendo solamente col proporre tre teorie incomplete:  teoria causale, teoria finalistica e teoria sociale.

Secondo la prima, l’azione si qualificherebbe come una modificazione del mondo esterno.  Tale definizione, tuttavia, da un lato mal si concilia con le condotte puramente omissive, non descrivibili in senso puramente naturalistico, dall’altro, isola l’elemento soggettivo, relegandolo esclusivamente nell’alveo della colpevolezza.

Di diverso avviso furono i fautori della teoria finalistica, i quali definivano l’azione come attività indirizzata verso il raggiungimento di uno scopo, così fondendo elementi puramente oggettivi con gli elementi soggettivi. Il limite di siffatta concezione, tuttavia, era evidente: sembrano, infatti, escluse dalla definizione tutte le ipotesi di azioni compiute in assenza di una preventiva programmazione.

Infine, neppure la teoria sociale ebbe maggiore successo: con essa si era inteso qualificare l’azione come risposta agli impulsi derivanti dal mondo esterno. Una definizione, questa, in grado di abbracciare tutte le tipologie di condotte, omissive o commissive, ma giudicata eccessivamente generica.

La tipicità si intreccia con il delitto tentato: i retroscena dottrinali e teorici del dibattito giurisprudenziale risolto nel 2012.

Evidenziata, su tali basi, l’impossibilità di fornire una definizione giuridica soddisfacente del concetto di condotta/azione tipica, elemento imprescindibile tanto nei reati di mera condotta, quanto nei reati di evento, si può comunque ritenere che la selezione del comportamento concreto penalmente rilevante, in quanto corrispondente al tipo legale astratto: in primis,  passa per il principio di offensività; in secundis risulta più agevole se il reato è giunto a consumazione, rispetto alle ipotesi in cui lo stesso reato sia rimasto fermo allo stadio del tentativo.

Il principio di tipicità ed il principio di offensività sono uniti da un unico filo: ciò che è astrattamente tipico  è, dunque, anche idoneo a porre in pericolo o ledere il bene giuridico che la norma giuridica intende proteggere.

Una presunzione, questa, frutto di una scelta operata dal legislatore la cui ragionevolezza  e “resistenza” deve essere vagliata alla stregua dell’id quod plerumque accidit.

Il compito di valutare, caso per caso, la concreta offensività di una determinata condotta astrattamente corrispondente al fatto tipico, spetta, invece, al giudicante il quale è chiamato a soppesare l’idoneità dell’azione quantomeno ad esporre a pericolo il bene oggetto di interesse. Non è un caso che alcuni autori distinguano tra tipicità effettiva e tipicità apparente, richiamando l’esempio scolastico del furto di un acino d’uva; astrattamente rispecchiante il tipo, concretamente innocuo per il patrimonio dell’agricoltore.

In assenza di una norma come l’art. 56 c.p. siffatte problematiche avrebbero ragion d’essere soltanto in presenza di un fatto concreto corrispondente in tutti i suoi elementi, nessuno escluso, ad un dato reato. In caso contrario, non sorgerebbe alcuna responsabilità penale nel rispetto del p. di legalità.

Invece, il legislatore ha inteso arretrare la soglia della punibilità, acclarando che chi compie atti idonei, diretti in modo non equivoco a commettere un delitto,  risponde di delitto tentato se l’azione non si compie (cd. Tentativo incompiuto) o l’evento non si verifica (cd. Tentativo compiuto).

Tale presa di posizione ha imposto delle riflessioni in ordine alla struttura del delitto tentato ( da qualificare come autonoma figura di reato e non come circostanza attenuante) ed, in particolare, in ordine al concetto di non equivocità e di idoneità dell’atto a commettere delitto.

Con riguardo al primo termine, occorre sottolineare che l’atto univoco, nella vigenza del codice Zanardelli del 1889, all’art.  61, veniva identificato nell’atto che dà inizio all’esecuzione del delitto. La visione oggettiva del requisito della equivocità tende, nel rispetto del pensiero di un autorevole esponente della dottrina (Carrara), a qualificare non equivoci quegli atti che fuoriescono dalla sfera di controllo dell’agente ed assumono un connotato indiscutibilmente illecito.

Con tale definizione si tende ad espungere dal penalmente rilevante ogni atto antecedente al “cominciamento” della fase esecutiva; ogni atto, dunque, che è ancora incolore, avendo lo stesso la possibilità di assumere risvolti sia leciti sia illeciti.

L’irrilevanza degli atti preliminari rispetto alla fase esecutiva, definiti preparatori, ben si concilia con l’ordinamento giuridico penale nel suo complesso, dal momento che esplicitamente, all’art. 115 c.p., non si assoggettano a pena i meri accordi criminosi cui non fa seguito nessun inizio di azione, nonché le mere istigazioni non accolte, configurandosi, in tali casi, ipotesi di quasi reato meritevoli al massimo di applicazione della misura di sicurezza della libertà vigilata. Misura di sicurezza, ma, di certo, non pena.

Sulla falsariga di queste impostazioni, la Suprema Corte, nel 2010, ha avuto modo di sostenere che l’atto esecutivo è l’atto che inizia a porre in essere la condotta tipica prevista dalla norma incriminatrice direttamente coinvolta nel caso concreto. Nonostante tali argomentazioni, tuttavia, occorre rilevare che la giurisprudenza continua, in modo consistente, ad attribuire rilievo anche agli atti preparatori nella valutazione del delitto tentato.

Sul versante dell’ulteriore requisito della idoneità dell’atto, il principio di tipicità torna ad intrecciarsi col principio di offensività. Appurato che l’atto posto in essere di volta in volta dal soggetto agente è univoco (e, pertanto, secondo la tesi dell’atto esecutivo, coincidente almeno con l’inizio dell’azione tipica descritta dalla norma) occorre verificare se tale atto sia idoneo quantomeno ad esporre a pericolo un determinato bene giuridico.

La predetta verifica potrebbe apparentemente essere più agevole nelle ipotesi di reato a forma vincolata, espressione del principio di frammentarietà del diritto penale, nei quali il legislatore ha inteso incriminare una condotta posta in essere con determinate e specificate modalità, rispetto ai reati a forma libera, incardinati sulla “mera” verificazione di un dato evento, a prescindere dal modus scelto dall’agente.

Tuttavia, si tratta di una sensazione che non trova riscontro pratico effettivo:  l’omicidio è reato a forma libera, ma non vi sono dubbi sulla idoneità ed univocità dell’atto del versare una dose letale di veleno nel bicchiere della vittima designata.

Con riguardo, più nel dettaglio, al criterio di accertamento della idoneità dell’atto, si rende necessario un giudizio di prognosi postuma o ex ante in concreto: il giudicante è chiamato a porsi nella posizione dell’agente al momento del compimento del fatto al fine di verificare se quell’atto sia effettivamente offensivo ed a tal fino deve far uso di tutte le leggi scientifiche  o le massime di esperienza disponibili al momento dell’accertamento stesso che, secondo l’orientamento maggiormente accolto, deve essere effettuato su base parziale e non, come sostenuto da parte della dottrina, su base totale.

L’accertamento su base parziale impone al giudice di valutare l’idoneità tenendo conto solamente delle circostanze conosciute o conoscibili dall’agente al momento del compimento dell’atto; viceversa, la base totale ricomprende tutte le circostanze esistenti e non solamente quelle delle quali ha avuto o poteva avere contezza  l’imputato.

Se, com’è facilmente intuibile, l’accertamento su base parziale non pone problemi sotto il profilo del principio di tipicità, in sé considerato, qualche difficoltà potrebbe, come evidenziato da parte della dottrina, sorgere in ordine al principio di offensività, dal momento che un atto potrebbe essere, dal punto di vista dell’agente, idoneo ed offensivo ma rivelarsi, alla luce della totalità delle circostanze esistenti, in realtà innocuo.  Si tratta, pertanto, di una offensività (parziale) ex ante, con un risvolto di inoffensività (totale) ex post.

Perché l’accertamento poc’anzi descritto possa essere validamente effettuato, si richiede che vi sia stato un inizio dell’azione tipica, non essendo sufficiente all’uopo la presenza di un mero presupposto (di fatto) del reato.

Il presupposto di fatto e la qualificazione giuridica del fatto concreto: passaggio dal furto tentato alla tentata rapina impropria. Le SSUU n. 34952 del 2012

Proprio la distinzione tra presupposto di fatto e condotta è stata oggetto di una accesa disamina in ordine alla configurabilità o meno di un tentativo di rapina impropria ex artt. 56 e 628 c.p. c2.

Ai fini della presente indagine può essere utile schematizzare le due contrapposte prospettive indicate nella storica pronuncia del 2012 delle Sezioni Unite della Corte di cassazione, riducendole a due principali linee di pensiero.

Secondo un primo orientamento, nell’ipotesi in cui il soggetto agente tenti di sottrarre dei beni senza successo ed usi violenza o minaccia per garantirsi l’impunità non sarebbe configurabile un tentativo di rapina impropria bensì un tentato furto aggravato in concorso con uno dei reati di cui agli artt. 581 c.p.  (percossa) o 582 c.p. (lesione personale), con applicazione, probabilmente, dell’art. 81 c.p. in giudizio.

La ratio del suddetto orientamento va ravvisata nella qualificazione  della “sottrazione” di cui all’art. 628 comma 2 c.p. non come segmento dell’azione criminosa che, sulla base dei ragionamenti esposti nei precedenti paragrafi, si presta ad esser valutata alla luce dei criteri dell’art. 56 c.p., bensì come mero presupposto del reato.

Come nessuno potrebbe considerare lo stato di gravidanza nel procurato aborto come “cominciamento dell’azione” così si è ritenuto in ordine al momento sottrattivo del bene.

Di diverso avviso è un altro orientamento, secondo il quale la sottrazione sarebbe parte, segmento, della condotta tipica.

Ebbene, le Sezioni Unite hanno avallato, dei due, quest’ultimo orientamento e chiarito, inoltre, che la locuzione “immediatamente dopo” inserita dal legislatore del comma dedicato alla rapina impropria ha la sola ed unica funzione di scandire l’ordine cronologico di manifestazione dei due segmenti dell’azione criminosa, sottrazione-impossessamento da un lato, violenza-minaccia per garantirsi l’impunità dall’altro.

Ancora sulla tentata rapina impropria. Il segmento della condotta tipica e la sua collocazione temporale: una recente pronuncia del 2017.

Tenendo a mente tutto quanto sino ad ora ricostruito, appaiono chiare le coordinate seguite, questa volta con più disinvoltura, dalla Corte di cassazione del 2017, n. 11135.

Il Tribunale di Milano, a seguito di istanza di riesame avanzata nell’interesse di T.S., indagato per il reato di rapina impropria, aveva ritenuto sussistente il quadro di gravità indiziaria fondato sul verbale di arresto di arresto in flagranza di reato e sulle stesse ammissioni del prevenuto e respingeva l’istanza della difesa di derubricare il fatto in tentativo di furto ovvero in tentativo di rapina impropria.

Più in dettaglio il Tribunale aveva ritenuto evidentemente esistere un serio  pericolo di reiterazione del reato, reputando la custodia cautelare in carcere come l’unica misura adeguata, come l’extrema ratio per perseguire i necessari scopi preventivi.

L’indagato, invece, ricorrendo in Cassazione e deducendo una violazione e falsa applicazione degli artt. 56 e 628 c.p. , sosteneva  che l’azione criminosa dovesse essere ricondotta nell’ambito del delitto tentato. Il cardine della difesa ruotava attorno all’interruzione della condotta criminosa in itinere, in forza dell’intervento della polizia. Il predetto intervento aveva reso impossibile l’uscita della refurtiva dalla sfera del controllo del soggetto passivo. In altri termini, sarebbe venuto a mancare quel necessario <<collegamento logico-temporale fra l’aggressione al patrimonio e l’aggressione alla persona>>.

La Suprema Corte, dal canto suo, ha respinto il ricorso, riesumando i principi di diritto statuiti dalla sentenza n. 34952 del 2012 ed aggiungendo un  aliquid novi, qualcosa di nuovo.

Il punto di partenza, è, dunque, sempre lo stesso: <<…mentre la rapina propria si consuma (come il furto) solo quando che si sono verificati sia la sottrazione della cosa mobile altrui sia l’impossessamento della stessa, la rapina impropria, invece, si consuma con la sola sottrazione della cosa, senza che occorra che si sia verificato anche l’impossessamento…. Tuttavia  <<…il delitto di rapina impropria…[si può] perfezionare anche se il reo [usa] violenza dopo la mera apprensione del bene, senza il conseguimento, sia pure per un breve spazio temporale, della disponibilità autonoma dello stesso>>.

Ancora, i supremi giudici ribadiscono un elemento imprescindibile: la voluntas legis ruota attorno ad una netta distinzione concettuale tra “sottrazione” e “impossessamento”: <<la prima consiste nel mero “spossessamento” altrui, ossia nel fatto che altri venga privato del possesso di una cosa; l’”impossessamento”, invece, consiste nell’acquisto del possesso sulla cosa sottratta ad altri, ossia nel fatto che l’agente acquisti su di essa una signoria indipendente e autonoma. E sebbene nella maggior parte dei casi “sottrazione” e “impossessamento” avvengono in una continuità temporale che può rendere difficile distinguerli, non sempre è così: come nell’esempio classico del ladro che, trovandosi su un camion in corsa, getta sulla strada alcune merci (consumando così la sottrazione), affinchè in seguito esse vengano raccolte e fatte proprie dai suoi complici (così conseguendo solo allora l’impossessamento). Orbene, questa distinzione tra sottrazione e impossessamento è di fondamentale rilievo ai fini della individuazione del momento consumativo della rapina impropria, giacchè, una volta esclusa la rilevanza dell’impossessamento (in quanto non costitutivo dell’elemento materiale del reato), il discrimine tra “rapina impropria consumata” e “rapina impropria tentata” rimane affidato proprio alla “sottrazione”[2]>>.

Dunque, è la sottrazione il “jolly” della struttura del delitto de quo: essa rappresenta l’elemento di distinzione tra la rapina propria e la rapina impropria.  E’ cosa nota, ma giova pur sempre ricordarlo, che nella rapina propria il momento “sottrattivo” deve essere “accompagnato” dalla violenza o minaccia. Viceversa, nella rapina impropria la sottrazione deve precedere la violenza o minaccia,  le quali sono esclusivamente finalizzate ad assicurare il possesso della cosa sottratta ovvero poste in essere al fine di procurare a sè o ad altri l’impunità.

Ancora il jolly è il segmento che consente di distinguere la rapina impropria consumata dalla rapina impropria tentata, a seconda che la stessa sia effettivamente portata a termine o sia rimasta incompiuta.

Quid iuris, dunque, nell’ipotesi in cui vi sia stata la sottrazione della cosa mobile altrui, e l’indagato abbia adoperato violenza o minaccia per assicurare a sè o ad altri il possesso della res? I supremi giudici, in questa recente pronuncia, sono stati più che chiari.

In siffatti contesti non può non trattarsi di rapina impropria consumata anche se l’impossessamento non si è effettivamente verificato. Il discrimen tra rapina impropria consumata e rapina impropria tentata va individuato esclusivamente nel completamento o meno della condotta sottrattiva. Nel caso di cui è stato processo, conclusosi nel 2017, il soggetto fu letteralmente colto in flagrante dalla polizia mentre si trovava con altri due complici all’interno di un appartamento. Insieme avevano già provveduto a lesionare  la cassaforte ed a riporre tutto il contenuto in una borsa, immediatamente lanciata al momento dell’intervento delle forze dell’ordine.

Dunque, non si tratterebbe di tentata rapina impropria, come ha cercato, per ovvi e palesi motivi inerenti la pena, di sostenere l’interessato, bensì di rapina impropria consumata, dovendo il contesto prescindere dal completamento dell’impossessamento.

Dall’incidenza del presupposto di fatto, dunque, si giunge alla irrilevanza del segmento successivo, del segmento- impossessamento, eliminando in via definitiva ed una volta per tutte  ogni possibilità che si formi un binomio sottrazione-impossessamento nell’applicabilità dell’art. 56 c.p. Il cerchio sulla rapina impropria, dunque, sembra essersi chiuso.

[1] In questi termini Fiandaca Musco, Diritto penale parte generale, 2015, Zanichelli, pag. 193.

[2] Cassazione  Penale, 8 marzo 2017 n. 11135.

 

Riforma penale guida commentata alla Legge 103/2017

Con la Legge 23 giugno 2017, n. 103 (G.U. n. 154 del 4 luglio 2017), il legislatore ha apportatosignificative modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e all’ordinamento penitenziario.  Attraverso un’analisi puntuale e tabelle di raffronto tra vecchia e nuova disciplina, questo nuovissimo Manuale fornisce un primo commento sistematico delle disposizioni contenute nella Riforma penale e approfondisce le numerose novità legislative introdotte sia dal punto di vista sostanziale che processuale, che hanno inciso su: • estinzione del reato per condotte riparatorie • modifiche ai limiti di pena per i delitti di scambio elettorale politico mafioso, furto, rapina ed estorsione • disciplina della prescrizione • incapacità dell’imputato a partecipare al processo, domicilio eletto, indagini preliminari, archiviazione • udienza preliminare, riti speciali, istruzione dibattimentale e struttura della sentenza di merito • semplificazione delle impugnazioni • organizzazione dell’ufficio del pubblico ministero. Chiarisce inoltre i temi più significativi della Riforma contenuti nelle deleghe al Governo sulla riforma della procedibilità per taluni reati, per il riordino di alcuni settori del codice penale e per una revisione della disciplina del casellario giudiziale penale, per la riforma del processo penale e dell’ordinamento penitenziario. Un’indispensabile Guida per il Professionista che deve orientarsi tra nuovi istituti e procedure.Nicola D’AngeloMagistrato, autore di testi di diritto, collabora su tematiche giuridiche con diverse riviste tra cui “Progetto sicurezza”, “Rivista Giuridica di Polizia” e “L’Ufficio Tecnico”, tutte pubblicate da Maggioli Editore.Antonio Di Tullio D’ElisiisAvvocato in Larino, autore di pubblicazioni cartacee e numerosi articoli su riviste giuridiche telematiche.

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Micaela Lopinto

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