Lo smart working: risultati e riflessioni a due anni dall’emergenza Covid

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Il legislatore con la L. n. 81/2017 ha introdotto nel panorama nazionale la disciplina del lavoro agile (smart working), c.d. “Jobs Act degli autonomi”, strumento che, in una veste diversa, è passato a cavallo tra il 2019 ed il 2020, da circa 600.000 attivazioni ad oltre 6 milioni.
Per approfondire consigliamo il volume: Smart Working -Cosa abbiamo imparato dopo l’emergenza

Indice

1. Smart working ed emergenza sanitaria


L’emergenza sanitaria da diffusione del virus Sars – Cov2 ha posto così la necessità di rivedere i pilastri fondanti dell’organizzazione sociale lavorativa, ponendo al centro del modello relazionale il distanziamento fisico, con un impatto anche sulla gestione degli ambienti lavorativi. Il lavoro da remoto (1) è diventato un mezzo imprescindibile per evitare il blocco della produttività e scongiurare un tracollo per l’economia nazionale e come spesso accade le situazioni di crisi possono funzionare anche e soprattutto come acceleratore di tendenze in atto.
Durante il periodo emergenziale, lo smart working[2] più che una forma propria di lavoro agile è risultata essere un modello ibrido: la fattispecie concretamente più utilizzata infatti presenta aspetti, non solo provenienti dal lavoro agile c.d. “ordinario” (quello delineato nella legge del 2017), quello del telelavoro (struttura fissa e rigida dell’apporto lavorativo)[3] e del lavoro domestico (quale l’impossibilità concreta di connettersi da luoghi diversi della propria abitazione).
A prima vista questa struttura contiene alcuni aspetti positivi, potenzialmente in grado di rompere rigidità organizzative e di generare un maggiore equilibrio tra il lavoro e la vita privata.
Circostanza questa, che ha portato alcuni osservatori del settore a proporre una revisione non tanto del modello speciale di lavoro da remoto utilizzato durante il periodo della pandemia, quanto il modello ordinario.
Lo smart working emergenziale ha aperto una breccia nel granitico muro del mondo del lavoro italiano diventando così un’alternativa alla classica impostazione lavoristica del tempo e del luogo dell’adempimento. Ma è davvero così? E a quali conseguenze porterà?
In tale assetto mi soffermerò solo su due essenziali caratteri che già nella pratica attuativa pre-emergenziale, hanno attuato maggiori ostacoli ad un’affermazione piena e completa del modello legale dello smartworking, soprattutto nel settore privato.
Primo tra tutti si fa riferimento all’esercizio dei poteri datoriali, in specie quello direttivo, e dal lato del lavoratore, al diritto a preservare le posizioni giuridiche individuali connesse all’integrità psico-fisica e alla protezione della privacy, aspetti maggiormente messi a rischio dalla remotizzazione del lavoro (non solo nella versione agile).
L’obiettivo è ricostruire un percorso che, partendo dal modello tradizionale, si sottoponga ad un’analisi critica alla luce delle esperienze emerse.

2. Le sfide nell’esercizio dei poteri datoriali


L’introduzione normativa di un modello esecutivo di prestazione subordinata privo dei consueti vincoli rigidi di tempo e luogo, ha rappresentato e rappresenta una vera e propria svolta rispetto al classico concetto di organizzazione dei rapporti di lavoro.
Il Jobs Act del lavoro autonomo individua due scopi: da un lato “agevolare la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro” e al secondo “incrementare la competitività”. Questa formulazione in linea di principio “innocua” combinata con gli scopi e le modalità della prestazione sposta in maniera netta la configurazione dei processi produttivi verso l’azione e la responsabilità dei singoli individui.
Il legislatore del Codice civile del 1942, dovendo disciplinare il rapporto di lavoro subordinato, ha scelto di intestare il Tit. II del libro V al “Lavoro nell’impresa”, utilizzando la preposizione “nel” non casualmente, ma per esprimere la chiara intenzione di disciplinare il lavoro che si svolge all’interno dell’azienda. Lavoro, rispetto al quale è consentito al datore di attuare, per lo più in presenza, e tramite specifici poteri, l’attività di conformazione della prestazione all’utilità attesa dalla collaborazione subordinata.
Con l’avvento dello smart working, tali poteri si sono ritrovati spiazzati, privi del contesto in cui preminentemente e tradizionalmente si erano estrinsecati. C’è un altro aspetto che muta ancora più in profondità il paradigma del lavoro: il superamento del tempo come unità di misura della prestazione lavorativa e quindi della sua retribuzione. Questo diventa così il significato del lavoro per “obiettivi”, continuamente mutevoli, slegati da un’identità professionale fondata sulla condivisione e trasmissione dei saperi all’interno di una comunità di lavoro, individuati all’interno di accordi tra le parti e non nell’ambito di contratti collettivi. Ciascuno diventa imprenditore di sé stesso.
Agire sulla flessibilità, responsabilizzazione e autonomia delle persone significa trasformare i lavoratori da dipendenti orientati e valutati in base al tempo di lavoro svolto a “professionisti responsabili” focalizzati e valutati in base a “risultati ottenuti”.
Alcuni studi hanno dimostrato che il timore principale avvertito dai datori di lavoro nello smart working pre-pandemico era stato quello di una perdita di aderenza della prestazione lavorativa da remoto all’indirizzo dato dai vertici aziendali nell’ottica del perseguimento degli interessi imprenditoriali.
Le aziende hanno temuto e temono ancora adesso un calo della performance dell’organizzazione interna e per questo, prima dell’emergenza hanno limitato il ricorso al lavoro agile, mentre quando il virus ha imposto loro la necessità della remotizzazione, hanno intensificato il ricorso agli unici mezzi a loro disposizione in grado di compensare la distanza fisica dalla risorsa umana da dirigere, ossia gli strumenti tecnologici digitali. Ma non solo il modello di lavoro agile, comporta anche e non solo la disgregazione del lavoro, delle sue culture e della sua organizzazione. E anche dei suoi conflitti, ossia di quell’agire collettivo che è sempre stato l’unico strumento a disposizione dei lavoratori per la conquista e la difesa dei loro diritti.
Questa versione rischia di produrre, cambiando anche solo uno dei fattori le derive di una cultura che nel corso del Novecento ha sacrificato dei diritti fondamentali sull’altare della produttività: ieri l’oggetto del baratto era stata la salute, domani sarà la libertà individuale. L’emergenza da Sars – Covid ha scoperto le carte, ma forse oggi non ci resta che rimescolarle.


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3. Il problema della tutela effettiva


Il ricorso alla tecnologia digitale per l’esercizio dei poteri datoriali ha avuto e avrà come effetto quello di innalzare esponenzialmente il rischio di lesioni di posizioni giuridiche soggettive rilevanti del lavoro agile.
L’autorità direttiva che cerca di compensare l’assenza dello spazio fisico e temporale richiesto per la prestazione potrebbe trasformare una legittima richiesta di lavoro in una richiesta di adempimento priva di elasticità, creando così una condizione costante di disponibilità lavorativa per il dipendente.
Così viene vanificato uno dei pilastri del lavoro agile: quella conciliazione tra tempi di vita e tempi di lavoro che, invece nelle intenzioni del legislatore, doveva rappresentare il principale appeal per prestare il consenso, dal lato del lavoratore, agli accordi di lavoro agile ordinario.
Il potere di controllo, in tal senso, potrebbe invece rischiare, avvalendosi di dispositivi e applicazioni utilizzati per rendere la prestazione da remoto, die stendersi ben oltre il necessario, mettendo a rischio i dati personali sensibili del dipendente e ponendolo anche indirettamente in una condizione di continua pressione psicofisica da supervisione.
In tale contesto, nel lavoro agile, il legislatore con la L. n. 81/2017 si è limitato ad affermare un principio: il diritto alla disconnessione[4], che secondo alcuni è risultato essere per alcuni tratti una mera norma manifesto, incapace di vincolare il datore di lavoro a adempimenti effettivi e tutelanti per il dipendente. Tale aspetto sembra poi essersi aggravato con l’avvento della pandemia e del modello emergenziale di smart working, con il legislatore dell’emergenza che, oltre a non aver previsto tale aggravamento, sembra addirittura aver del tutto dimenticato il problema della disconnessione.
In tale contesto è improbabile che, affievolita o terminata del tutto l’emergenza, il modello tradizionale di lavoro agile possa conservare gli attuali volumi di utilizzo. L’equilibrio che si deve mantenere tra esigenze organizzative aziendali e protezione sufficiente dei diritti del lavoratore appena descritta rischia infatti di disincentivare il ricorso sia dal lato datoriale sia da quello dipendente. 

4. L’efficienza nell’utilizzo dei poteri datoriali


In dottrina è opinione diffusa quella per cui la vera diversità e unicità del lavoro agile consista nella idoneità a spostare il fulcro della prestazione lavorativa dalla disponibilità della collaborazione, calibrata tramite spazio e tempo, al raggiungimento del risultato, misurato tramite obiettivi pattuiti ed eventualmente conseguiti.
Il risultato in tale contesto gioca un ruolo fondamentale nella disciplina del lavoro agile, come si può trarre dal testo della L. n. 81/2017, che al co.1 dell’art.18 parla proprio della possibilità delle parti dell’accordo del lavoro agile di concordare l’esecuzione della prestazione per fasi, cicli ed obiettivi.
Non è presente alcuna indicazione in merito a due aspetti connessi al risultato: il primo riguarda la nozione tecnico – giuridica, da adoperare nel contesto del contratto di lavoro subordinato, il secondo invece attiene alla posizione di tale risultato rispetto alla prestazione di lavoro agile.
In prospettiva giuslavoristica, il risultato è stato preso in considerazione alla disciplina della retribuzione premiale del lavoratore, rimanendo sincronizzato alla sfera di controllo del datore: quest’ultimo, infatti, può impattare sugli esiti dell’azione attuata dalla complessa organizzazione di cui è titolare, poiché solo lui può tenere una visione ampia e complessiva d’insieme.
Il lavoratore ha la possibilità di partecipare al suo conseguimento – con contributo che si intensifica all’innalzarsi della posizione ricoperta in azienda, ma non può essere indicato come colui in grado di condizionare in maniera decisa il raggiungimento degli obiettivi da raggiungere.
Il concetto più vicino a quello di “risultato” è che è stato preso in considerazione, soprattutto nell’impiego pubblico è quello di “rendimento” o “performance”, concetto che per come ci insegnano le scienze economiche, organizzative e comportamentali è diverso da quello di risultato.
Il rendimento riguarda il processo, la procedura necessaria per l’ottimizzazione delle risorse in vista del raggiungimento di un obiettivo, secondo una linea di condotta specifica per lo più vincolante: esso si rivolge all’efficienza.
Il risultato attiene all’esito, la definizione di quel procedimento non necessariamente considera il percorso seguito per il suo raggiungimento riguardante principalmente l’efficacia.
Trasferendo questi concetti in ambito giuslavoristico, possiamo affermare che quest’ultimo riguarda nell’esito raggiunto dal lavoratore tramite l’applicazione della propria energia lavorativa e a prescindere dal metodo utilizzato per conseguirlo, mentre il rendimento consiste nella capacità del medesimo dipendente di mantenere quegli standard minimi di prestazione secondo dei metodi specifici e determinati dal datore di lavoro.
Definire la nozione di “risultato” in ambito giuslavoristico è essenziale per affrontare l’altro aspetto citato, ossia quello che riguarda il posizionamento del risultato rispetto alla prestazione di lavoro agile.
Per alcuni autori, il lavoro agile, non modificando in alcun modo la natura del rapporto di lavoro, il quale resta di tipo subordinato, non potrebbe incidere sul contenuto della prestazione dovuta dal lavoratore agile, con la conseguenza che il risultato, anche se elemento essenziale di tale esecuzione, non entrerebbe nell’adempimento e non parteciperebbe alla definizione dell’estensione del c.d. “debito di lavoro”.
Secondo un ulteriore indirizzo politico, il risultato potrebbe essere inserito nell’oggetto della prestazione lavorativa poiché, venuti meno tempo e luogo dell’adempimento, e riconosciuta maggiore autonomia gestionale e organizzativa al lavoratore, questi, per poter garantire il funzionamento effettivo della prestazione nell’interesse dell’impresa, prenderebbe su di sé una maggiore responsabilità esecutiva, valutata anche in base al conseguimento del risultato.
Quindi ad una maggiore delega di autonomia da parte del datore, corrisponderebbe una maggiore assunzione di responsabilità lavorativa del dipendente agile, valutabile tramite risultato.
La questione dell’estensione del debito è un tema classico del diritto del lavoro e non è possibile approfondirlo ulteriormente.
La differenza, non sembra di poco conto, in quanto secondo la prima; l’omesso conseguimento del risultato potrebbe portare al più ad un recesso del datore di lavoro, ante tempus e giustificato dall’accordo di smart working, con conseguente rientro in azienda; per la seconda al contrario gli effetti dell’omesso risultato attribuibile al dipendente potrebbero incidere sul rapporto di lavoro di quest’ultimo, anche in sede disciplinare.
Nell’ottica di un rafforzamento della specificità e della specialità del lavoro agile, e al fine di mitigare le criticità connesse all’attuazione del modello ordinario e di quello emergenziale, si può proporre una soluzione intermedia rispetto a quelle riportate precedentemente.
Si potrebbe accogliere un incisivo posizionamento di risultato all’interno della prestazione agile, ma solo a precise condizioni, oggetto di fissazione da parte del legislatore che dovrebbe rimettere inevitabilmente mano al modello legale dello smart working, in grado di non snaturare l’impianto giuridico essenziale della prestazione subordinata.
Le condizioni per il lavoro agile potrebbero essere definite come segue:
a) Deve esserci una chiara, precisa e anticipata indicazione del risultato richiesto al lavoratore, con dettagli sulle sue caratteristiche essenziali. Ciò richiede che si evitino formulazioni generiche, vaghe o riferimenti ad esiti organizzativi e produttivi non controllabili dal lavoratore o non correlati al suo contributo individuale esclusivo;
b) L’obiettivo dovrebbe rientrare nei limiti massimi di impegno e difficoltà previsti per ciascuna categoria contrattuale dai contratti collettivi, al fine di assegnare risultati adeguati alle competenze, formazione, responsabilità e posizione aziendale del lavoratore agile. Questo meccanismo aiuterebbe a bilanciare il potere negoziale del datore di lavoro e a ridurre i rischi associati allo smart working ordinario.
c) La contrattazione collettiva dovrebbe definire le conseguenze di un mancato raggiungimento dell’obiettivo, considerando il grado di responsabilità del lavoratore e il suo impatto effettivo sull’esito. Le conseguenze dovrebbero essere differenziate in base ai risultati minimi, intermedi ed elevati.
Un risultato definito in questo modo assume una dimensione diversa da quella tipicamente associata al lavoro subordinato. Non è più una dinamica esterna al controllo e all’influenza diretta della prestazione del dipendente, ma diventa un elemento vicino e coerente con la posizione lavorativa e professionale del lavoratore.
La delega alla contrattazione collettiva per limitare assegnazioni inadeguate garantisce che i risultati siano stabiliti in maniera chiara e coerente.

5. Implicazioni di un miglioramento dei risultati nel contesto del lavoro agile


Un rafforzamento del risultato, nell’ambito della prestazione agile potrebbe avere alcuni effetti benefici sia sul funzionamento dei poteri datoriali sia sulla tutela personale del lavoratore.
Sul piano del potere direttivo, potrebbe insistere principalmente nella fase “genetica”, consistente nell’ individuazione del risultato, lasciando l’organizzazione della sua esecuzione al dipendente, rispandendosi poi nei giorni di lavoro in presenza (che, come si dirà a breve, dovrà necessariamente essere previsto) o in caso di un intervento – sempre debitamente giustificato – di riassestamento o parziale modifica in itinere di quei risultati, al fine di adattarli alle mutevoli condizioni di contesto.
Il lavoratore potrebbe così accedere ad una autonomia più effettiva nella gestione del suo contributo subordinato, con conseguente affermazione di un equilibrio più centrato tra spazio (sia temporale sia fisico) di lavoro e spazio di vita.
Sul piano dei controlli, poi, si favorirebbe una loro concentrazione sulla sola fase conclusiva di verifica del risultato, evitando focus sulla persona del lavoratore e limitando fortemente sia il possibile accesso a informazioni personali sensibili, sia la creazione di una costante ed ubiqua supervisione dell’adempimento. Gioverebbe sia la funzionalità organizzativa aziendale nell’ottica del mantenimento dei livelli di produttività desiderati, sia la tutela personale del lavoratore.
Si può argomentare che l’integrazione più marcata del risultato nella valutazione delle prestazioni del lavoratore agile potrebbe alterare in modo significativo la natura del rapporto di lavoro, portandolo a somigliare in modo eccessivo a un rapporto autonomo. Quest’ultimo si basa su un’obbligazione di risultato e non sull’obbligo di mezzi.
In tal senso, il datore non rinuncerebbe mai al potere direttivo ed a quello di controllo, né verrebbe negata la sostanziale asimmetria tra gli interessi di cui le parti del rapporto sono portatori. Il dipendente, inoltre, non si sgancerebbe del tutto dall’organizzazione fisica dell’azienda, restando necessaria, nel modello ordinario di smart working, l’alternanza tra lavoro da remoto e lavoro in presenza.
Non pare dunque sia a rischio il “tipo” lavoro subordinato, non venendo meno quella che ad oggi è ancora la sua matrice essenziale, ossia la soggezione del lavoratore a direttive datoriali che, sebbene meno incisive restano determinanti. Si potrebbe inoltre sostenere che una simile proposta finisca sostanzialmente per rendere troppo più ampie e variabili le maglie di uno strumento discusso come il licenziamento per scarso rendimento, spostando così troppo in avanti la diligenza richiesta al lavoratore agile.
In realtà, come si è detto, rendimento e risultato non sono concetti del tutto coincidenti ed il mancato conseguimento dell’obiettivo indicato, pur con le conseguenze eventualmente previste dalla contrattazione collettiva, non è detto che incida sulla valutazione complessiva della performance tenuta, nel corso del tempo, dal lavoratore, al punto da agevolarne l’espulsione dall’organizzazione aziendale per scarso rendimento.
Infine, potrebbe essere oggetto di censura la proposta di affidare al legislatore il compito di dettagliare più specificamente una disciplina che, nelle intenzioni originarie, doveva chiaramente essere lasciata ad una formulazione aperta, comprensiva e adattabile alle esigenze dei destinatari dell’istituto.
L’intervento normativo proposto, si limita a richiedere qualche minima indicazione vincolante in più rispetto alle maglie eccessivamente larghe delle regole di principio al momento vigenti, nell’ottica non solo di una tutela più effettiva, ma anche di una maggiore sicurezza dell’interprete nell’applicazione dello strumento. Inoltre, il modello ipotizzato lascia ampio margine di intervento alla contrattazione collettiva, che da molti osservatori è stata individuata, per la sua intrinseca capacità di mediare le opposte esigenze e di trovare soluzioni adattabili ed in linea con il concreto sviluppo dei rapporti di lavoro in azienda, come l’attrice protagonista di uno smart working che guardi al futuro con serie prospettive di consolidamento e rafforzamento del mondo del lavoro.

6. Conclusioni


Nelle considerazioni sino ad adesso svolte, si è provato a dare una lettura dello strumento del lavoro agile che possa agevolare il superamento di alcune criticità tecniche.
Allo sforzo dell’interprete, del legislatore e delle parti sociali di fornire soluzioni, pur parziali e limitate, per migliorare il funzionamento dello smart working devono necessariamente accompagnarsi alcuni elementi che, seppur sottratti al controllo del giurista o dell’operatore di settore, sembrano di decisiva importanza per il lavoro agile del domani.
In primis, è necessario che si prenda atto di un imprescindibile superamento del modello del lavoro full remote emergenziale: la socializzazione, come confermato da diversi studi empirici, costituisce un elemento fondamentale per il conseguimento delle strategie aziendali e per la realizzazione, dal lato del lavoratore, di una soddisfazione professionale piena e duratura.
Lo smart working del domani, poi non potrà in alcun modo essere lo strumento massimo. Alcune mansioni, alcune attività subordinate, anche quelle a contenuto intellettuale, per la loro natura elementare, esecutiva o ripetitiva, non si prestano ad un allontanamento intensivo dalla sede fisica di adempimento, pena la vanificazione non solo della produttività, ma anche della professionalità del dipendente.
Infine, se è un fatto che il lavoro agile, sin dalla sua introduzione nell’ordinamento giuridico, ha sostituito il tradizionale binomio di organizzazione rigida/ disponibilità con uno basato su maggiore autonomia/ maggiore responsabilità è evidente che nessun modello legale potrà avere successo senza un significativo e duraturo cambiamento culturale.
Si tratta, in particolare, di investire su di una rinnovata fiducia reciproca tra chi organizza nell’ottica della produttività e chi collabora, tramite il proprio lavoro, a tali fini. Senza confondere ruoli ed interessi, ma apportando un serio contributo al funzionamento delle relazioni di lavoro in un mondo in continuo cambiamento non andando ad inficiare quello che durante il Novecento ha sacrificato diritti fondamentali sulla produttività: nel secolo scorso l’oggetto del baratto è stata la salute, un domani potrebbe essere la propria libertà individuale.

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Note

  1. [1]

    Dati diffusi dall’Osservatorio sullo Smart Working del Politecnico di Milano nella ricerca “Smart-working: il futuro del lavoro oltre l’emergenza”, pubblicata nel novembre 2020 e disponibile al sito internet https://www.osservatori.net/it/prodotti/formato/video/smart-working-impatti-covid-video

  2. [2]

    “Smart working”, disciplinato nella Legge n.81/2017, prevede che sussista carattere volontario, parità di trattamento retributivo, diritto alla disconnessione, e non per ultimo, sicurezza e tutela del lavoratore.

  3. [3]

    Per “Telelavoro” s’intende un lavoro a distanza rispetto alla sede lavorativa, è una modalità di organizzazione del lavoro e non una tipologia contrattuale. La disciplina è rinvenibile nell’ accordo interconfederale sul telelavoro del 9 giugno 2006.

  4. [4]

    Diritto alla disconnessione: Il 21 gennaio 2021 il Parlamento Europeo ha approvato la risoluzione n. 2019/2181, contenente raccomandazioni rivolte alla Commissione Europea in materia di diritto alla disconnessione.
    Il Parlamento ha qualificato la disconnessione come, cito testualmente: “mancato esercizio di attività o comunicazioni lavorative per mezzo di strumenti digitali, direttamente o indirettamente, al di fuori dell’orario di lavoro”, rivolgendosi anche ai datori di lavoro e raccomandando loro di fornire ai propri dipendenti “i mezzi necessari per esercitare il diritto alla disconnessione”.

Giulia Ippolito

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