Sequestro delle somme di denaro giacenti su conto corrente bancario e confisca

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Indice:

Il fatto

Il Tribunale di Salerno – in parziale accoglimento di una istanza di riesame del decreto di sequestro preventivo emesso dal Giudice per le indagini preliminari dello stesso Tribunale che aveva disposto il vincolo reale sulle somme di denaro in contanti o giacenti su conti correnti bancari intestati e nella disponibilità del fino alla concorrenza di euro 175.000, quale profitto del delitto di traffico di influenze Illecite oggetto di imputazione provvisoria – ordinava il dissequestro parziale del denaro e la restituzione all’interessato della somma di euro 35.425,45 sul presupposto che, essendo essa stata versata sui conti correnti bancari successivamente alla commissione del reato, non poteva considerarsi prezzo o profitto dell’illecito, in quanto da esso non derivante.

In particolare, al ricorrente si contestava di aver ricevuto da altro soggetto la complessiva somma di euro 175.000 euro in contanti quale prezzo per la mediazione illecita che il medesimo ricorrente si era impegnato a svolgere presso un componente della Commissione Tributaria di Salerno ed un funzionario dell’Agenzia delle Entrate della stessa città al fine di ottenere una riduzione non dovuta delle imposte accertate a carico della società di cui il predetto soggetto era amministratore di fatto.

I motivi addotti nel ricorso per Cassazione

Avverso il provvedimento summenzionato proponeva ricorso per Cassazione il difensore di fiducia dell’indagato che deduceva i seguenti motivi: 1) violazione di legge perché il Tribunale avrebbe affermato di delibare un sequestro finalizzato alla confisca diretta delle somme giacenti sui conti correnti, ma avrebbe poi qualificato tali somme come “risparmio di spesa“, la cui perdurante disponibilità da parte dell’indagato sarebbe dipesa dall’avvenuto conseguimento in contanti del profitto del reato oggetto di contestazione provvisoria e così facendo, per il ricorrente, il Tribunale avrebbe finito per qualificare la misura cautelare quale confisca per equivalente, tenuto conto altresì del fatto che le somme assoggettate a cautela risultavano avere una loro causale lecita ed erano giacenti sui conti correnti bancari già in epoca anteriore a quella di commissione del reato sicché anche per esse doveva escludersi il nesso di derivazione dal reato, necessario per procedere all’ipotizzata confisca diretta; 2) violazione di legge in relazione al giudicato cautelare e al fumus commissi delicti in quanto, per la difesa, un precedente sequestro probatorio era stato disposto nel medesimo procedimento ipotizzando, sulla base delle stesse emergenze e per la medesima condotta, il delitto di truffa aggravata e tale provvedimento, a sua volta, sarebbe stato confermato dallo stesso Tribunale di Salerno in sede di riesame e, quindi, dalla Corte di Cassazione sicché la mutata qualificazione giuridica del fatto, in assenza di elementi nuovi, avrebbe violato il giudicato interno; 3) violazione di legge poiché – in ragione del tempus commissi delicti, risalente ad “epoca anteriore e prossima al 31 dicembre 2016” – i giudici di merito avrebbero dovuto fare riferimento alla fattispecie e alla pena vigenti a quella data; 4) violazione di legge poiché, in relazione al delitto di cui all’art. 346-bis cod. pen. visto che, per il difensore, non sarebbe ipotizzabile una confisca diretta del denaro costituente profitto del reato in quanto la Pubblica Amministrazione sarebbe estranea alle condotte considerate e detto profitto sarebbe totalmente privato.

Le questioni prospettate nell’ordinanza di rimessione

La Sesta Sezione, cui il ricorso era stato assegnato, ne rimetteva la trattazione alle Sezioni Unite con riferimento alla questione concernente i limiti entro i quali è possibile procedere alla confisca diretta di somme di denaro giacenti su conto corrente bancario che rappresentino il prezzo o profitto del reato, anche nel caso in cui la parte interessata fornisca la prova che il denaro vincolato a fini di confisca derivi da un titolo lecito.

In particolare, l’ordinanza di rimessione prendeva le mosse dalla ricostruzione delle movimentazioni di denaro che avevano interessato i conti correnti bancari sui quali erano state rinvenute le somme sottoposte a sequestro, rilevando come il ricorrente avesse allegato elementi volti a dimostrare, in sede cautelare, che su tali conti risultavano compiuti versamenti di assegni per un importo pari a circa 40.000 euro e, per la parte residua, accrediti di denaro di apparente derivazione lecita, quali numerosi bonifici disposti da Equitalia.

L’ordinanza evidenziava poi che il Tribunale del riesame, pur richiamandosi al principio secondo cui la confisca del denaro è sempre diretta, aveva applicato solo in parte la suddetta regola posto che, con riguardo alle somme depositate fino alla data di commissione del reato, aveva ritenuto la assoggettabilità a sequestro del saldo attivo mentre, con riguardo alle sopravvenienze successive alla suddetta data, aveva ritenuto di escludere la sussistenza del nesso di pertinenzialità con il reato, revocando parzialmente il sequestro.

Partendo da tale dato di fatto, la Sezione rimettente aveva quindi passato in rassegna la ricostruzione della confisca del denaro risultante dalle sentenze delle Sezioni Unite secondo le quali la confisca del prezzo o del profitto cosiddetto accrescitivo derivanti dal reato e costituiti da denaro andrebbe qualificata sempre come diretta e non per equivalente, in virtù della natura fungibile del bene (Sez. U, n. 10561 del 30 gennaio 2014; Sez. U, n. 31617 del 26/06/2015).

Al riguardo, la Sesta Sezione richiamava ed espressamente mostrava di condividere il principio, ribadito da Sez. U, n. 31617/2015, secondo cui il profitto è solo il vantaggio di immediata e diretta derivazione causale dal reato e rileva che nella giurisprudenza di legittimità successiva a detta sentenza se ne registrano altre che, pur formalmente non discostandosi dai principi enunciati dalle Sezioni Unite, “ridefiniscono tuttavia l’ambito di operatività e i limiti di applicabilità della confisca diretta e, in particolare, del sequestro preventivo avente ad oggetto il valore monetario del denaro che costituisce il profitto del reato”.

La Sesta Sezione mostrava infatti di ritenere tale principio meritevole di un approfondimento, volto a verificarne l’assolutezza, ovvero la necessità di apportare delle limitazioni in tutti quei casi in cui risulti concretamente allegata, o addirittura dimostrata, la provenienza lecita del denaro da sottoporre a cautela, richiamandosi a tale proposito la giurisprudenza di legittimità formatasi, dopo Sez. U, n. 31617/2015, con riferimento alla possibilità di individuare un “profitto” nei cosiddetti risparmi di spesa che non determinano un effetto accrescitivo del patrimonio, bensì solo un mancato decremento.

La Sesta Sezione aveva quindi evidenziato l’esistenza di un orientamento favorevole a riconoscere la possibilità di dar rilievo alla dimostrata provenienza lecita del denaro, sul presupposto che, in presenza della prova dell’insussistenza del nesso di pertinenzialità tra reato e denaro vincolato, dovrebbe riprendere vigore la regola distintiva tra confisca diretta e per equivalente.

L’ordinanza di rimessione richiamava al proposito plurime pronunce che, pur non ponendosi in aperto contrasto con i principi affermati da Sez. U, n. 31617/2015, ne hanno fornito un’interpretazione secondo cui la confisca del denaro costituente prezzo o profitto del reato, pur in astratto suscettibile di essere qualificata come diretta, non determina una sorta di automatismo, in base al quale risulterebbe irrilevante la prova della provenienza lecita del quantum oggetto di confisca.

Ciò posto, la Sezione rimettente manifestava altresì la sua condivisione di tale orientamento interpretativo e sostiene che in tal modo si manterrebbe fermo il principio di diritto recepito dalle Sezioni Unite, la cui assolutezza verrebbe temperata consentendo alla parte interessata di dimostrare che il profitto illecito non si è confuso con le somme aventi sicura provenienza lecita.

Il punto sul quale, pertanto, la Sesta Sezione sollecitava un intervento chiarificatore delle Sezioni Unite atteneva alla possibilità che, ai fini del sequestro e della confisca diretta del denaro costituente prezzo o profitto derivante dal reato, la fungibilità del bene esenti “sempre” dalla prova che il denaro soggetto a vincolo sia legato da un nesso di derivazione diretta al prezzo o profitto del reato, ovvero che tale evenienza configuri solo una presunzione superabile.

La Sezione rimettente evidenziava a tale riguardo come una lettura non temperata di tale pronuncia condurrebbe ad una completa sovrapposizione della confisca diretta a quella di valore, nel senso che quest’ultima, nel caso di confisca di denaro, non sarebbe mai configurabile, oltre che ad una sostanziale inutilità dell’art. 322-ter cod. pen., che assolverebbe, nella prospettiva valorizzata dalle Sezioni Unite, all’unica funzione di rendere obbligatoria la confisca del profitto che, invece, è facoltativa, ai sensi dell’art. 240 cod. pen..

La Sesta Sezione sosteneva pertanto che, in definitiva, in mancanza dei prefigurati aggiustamenti interpretativi, l’applicazione del principio di diritto affermato da Sez. U, n. 31617/2015, comporterebbe l’esistenza nell’ordinamento di un triplice modello di confisca: a) la confisca diretta, che impone l’accertamento del nesso di derivazione diretta della cosa dal reato; b) la confisca di valore, che invece prescinde dall’accertamento del nesso in questione; c) la confisca di denaro, che sarebbe sempre diretta, prescindendo, di fatto, da una parte, dall’accertamento del nesso di derivazione del denaro dal reato in ragione della natura del bene, cioè della sua fungibilità, e, dall’altra, anche dalla eventuale prova positiva della liceità ed estraneità del denaro che si sequestra rispetto al reato.

L’attuale assetto basato sui principi affermati da Sez. U, n. 31617/2015, però, non veniva dalla Sezione rimettente considerato esaustivo, nella misura in cui determinerebbe la sovrapposizione di elementi diversi atteso che il rapporto di pertinenza tra il bene vincolato e il reato è strutturalmente autonomo rispetto alla natura di bene fungibile del denaro, posto che la verifica del nesso di derivazione dal reato non attiene alla natura del bene, ma si sostanzia in un giudizio di relazione tra la cosa ed il reato che non è in radice impedita dalla fungibilità del denaro.

Orbene, a fronte di ciò, l’ordinanza di rimessione precisava del resto che il tema non era il superamento o la rivisitazione dei principi affermati da Sez. U, n. 31617/2015, quanto, piuttosto, se detti principi possano essere definiti ulteriormente nella loro portata nel senso di ritenere che il denaro può essere attinto con il sequestro finalizzato alla confisca diretta solo nei casi in cui: a) risulti che la somma sia proprio quella che è derivata immediatamente e direttamente dal reato; b) ovvero, si tratti di denaro che, per mero valore, corrisponda al profitto del reato in virtù di una presunzione semplice, non superata da una “prova” contraria cautelare: la parte interessata può, cioè, fornire elementi idonei ad escludere la presunzione e dimostrare che su quel conto sono giacenti, in tutto o in parte, somme aventi origine da un titolo lecito ed in relazione alle quali si può escludere ogni rapporto di derivazione con il reato mentre, ove detta prova vi sia, il denaro sarà sequestrabile, ma solo in funzione della confisca di valore, se consentita, e non di quella diretta.

Per questa Sezione, infine, tale risistemazione della materia consentirebbe anche di escludere l’insorgere di dubbi di legittimità costituzionale e compatibilità con i principi CEDU posto che la qualificazione in termini di confisca diretta del denaro, anche a fronte dell’accertata provenienza lecita, potrebbe porre l’istituto in possibile conflitto con le garanzie previste dagli artt. 25, 27 Cost. e 6, 7 CEDU giacché – a fronte della formale qualificazione – si realizzerebbe di fatto una confisca per equivalente in casi non consentiti.

Le argomentazioni sostenute dall’Avvocatura generale

L’Avvocato generale, mediante il deposito, ai sensi dell’art. 611, comma l, cod. proc. pen., di un’articolata memoria, sollecitava la Corte a confermare integralmente argomentazioni e principi di diritto già affermati da Sez. U, n. 31617/2015, ribadendo le caratteristiche proprie della confisca diretta del denaro nonché l’incompatibilità, logica e di sistema, di ogni prova tesa alla dimostrazione della provenienza lecita di alcune somme e disponibilità finanziarie presenti nel patrimonio dell’indagato, tale provenienza essendo del tutto irrilevante rispetto alla misura ablativa una volta conseguita la gravità indiziaria, prima, e la prova piena, poi, dell’esistenza e dell’ammontare del prezzo o profitto del reato e del conseguente incremento monetario di cui, in forza di esso, ha beneficiato il patrimonio del reo.

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Le valutazioni giuridiche formulate dalle Sezioni Unite

Le Sezioni Unite, prima di procedere ad esaminare la questione posta alla loro attenzione, procedevano ad una sua delimitazione nei seguenti termini: “se il sequestro delle somme di denaro giacenti su conto corrente bancario debba sempre qualificarsi come finalizzato alla confisca diretta del prezzo o profitto derivante dal reato anche nel caso in cui la parte interessata fornisca la “prova” della derivazione del denaro da titolo lecito”.

Premesso ciò, gli Ermellini osservavano prima di tutto che le stesse Sezioni Unite hanno più volte esaminato il perimetro della confisca diretta del prezzo e del profitto del reato consistente in una somma di denaro.

Infatti, per prima, Sez. U, n. 29951 del 24/05/2004, ha affermato che è ammissibile il sequestro preventivo finalizzato alla confisca di somme di denaro che costituiscono profitto di reato sia nel caso in cui la somma si identifichi proprio in quella che è stata acquisita attraverso l’attività criminosa, sia quando sussistono indizi per i quali il denaro di provenienza illecita risulti depositato in banca ovvero investito in titoli, trattandosi di assicurare ciò che proviene dal reato e che si è cercato di occultare e, in tale arresto giurisprudenziale, nel valorizzare la fungibilità del denaro e la sua funzione di mezzo di pagamento, tale pronuncia ha escluso che il sequestro debba necessariamente colpire le medesime specie monetarie illegalmente percepite, ben potendosi apprendere la somma corrispondente al loro valore nominale, ovunque sia stata rinvenuta, purché sia attribuibile all’indagato fermo restando che tale sentenza ha inoltre sottolineato che l’ablazione di quegli attivi monetari o finanziari richiede comunque la sussistenza del rapporto pertinenziale, quale relazione diretta, attuale e strumentale, tra il danaro sequestrato ed il reato del quale costituisce il profitto illecito (utilità creata, trasformata od acquisita proprio mediante la realizzazione della condotta criminosa).

Ciò posto, i giudici di piazza Cavour notavano che, sul tema della correlazione tra il bene da aggredire con la confisca diretta – e, quindi, con il sequestro ad essa preordinato – e il reato produttivo di utile economico, le Sezioni Unite sono tornate con altra sentenza secondo la quale, in tema di sequestro preventivo finalizzato alla confisca prevista dall’art. 322-ter cod. pen., costituisce profitto del reato anche il bene immobile acquistato con somme di denaro illecitamente conseguite, quando l’impiego del denaro sia causalmente collegabile al reato e sia soggettivamente attribuibile all’autore di quest’ultimo (Sez. U, n. 10280 del 25/10/2007).

In particolare, dopo essere stato ribadito che “nel concetto di profitto o provento di reato vanno compresi non soltanto i beni che l’autore del reato apprende alla sua disponibilità per effetto diretto e immediato dell’illecito, ma anche ogni altra utilità che lo stesso realizza come effetto anche mediato ed indiretto della sua attività criminosa”, quella sentenza ha chiarito che la nozione di profitto del reato “deve essere riguardata in rapporto all’arricchimento complessivo” e ha precisato che “una corretta interpretazione letterale dell’art. 240 cod. pen. e logico-sistematica dell’istituto della confisca” impone che “qualsiasi trasformazione che il denaro illecitamente conseguito subisca per effetto di investimento dello stesso deve essere considerata profitto del reato quando sia causalmente collegata al reato stesso ed al profitto immediato il denaro conseguito e sia soggettivamente attribuibile all’autore del reato, che quella trasformazione abbia voluto”.

Oltre a ciò, veniva fatto presente che, nell’abbracciare “una nozione di profitto estensibile anche ai beni ottenuti indirettamente dal reo attraverso l’utilizzo del profitto stesso”, le Sezioni Unite hanno inoltre espressamente recepito il principio di diritto – già affermato da Sez. 6, 14/6/2007 – secondo cui, quando il profitto del reato di concussione sia costituito da denaro, è legittimamente operato in base alla prima parte dell’art. 322-ter, primo comma, cod. pen. il sequestro preventivo di disponibilità di conto corrente dell’imputato finalizzato a confisca diretta.

Nel dettaglio, dopo aver ritenuto di dovere superare tanto le decisioni che suggeriscono una interpretazione più restrittiva della nozione di profitto e che sottolineano la necessità di una stretta e diretta correlazione tra il profitto confiscabile e la condotta illecita (Sez. U, n. 29951 del 24/05/2004; Sez. U, n. 920 del 17/12/2003) quanto la dottrina che riferisce il profitto del reato unicamente “al primo rapporto di scambio“, la sentenza in esame ha quindi affermato che il bene costituente profitto di reato è suscettibile di confisca diretta ogni qualvolta esso sia ricollegabile causalmente in modo preciso all’attività criminosa posta in essere dall’agente, sicché è necessario “che siano indicati in modo chiaro gli elementi indiziari sulla cui base determinare come i beni sequestrati possano considerarsi in tutto o in parte /’immediato prodotto di una condotta penalmente rilevante o l’indiretto profitto della stessa, siccome frutto di reimpiego da parte del reo del denaro o di altre utilità direttamente ottenute dai concussi”, non risultando comprensibile un’interpretazione degli artt. 240 e 322-ter, primo comma, prima parte, cod. pen. “che consenta la confisca del denaro ricevuto dal concussore e non anche del bene immobile acquistato con tale denaro perché non di diretta derivazione causale dall’attività del reo”.

Detto questo, i giudici di legittimità ordinaria notavano che le conclusioni, alle quali le Sezioni Unite erano pervenute con la sentenza n. 10280/2007, sono state ribadite, specificate e approfondite da Sez. U, n. 10561 del 30 gennaio 2014, con riferimento al profitto derivante da reato tributario e corrispondente all’imposta evasa dal momento che, con tale decisione, tali Sezioni hanno recepito una nozione di profitto funzionale alla confisca capace di accogliere al suo interno “non soltanto i beni appresi per effetto diretto ed immediato dell’illecito, ma anche ogni altra utilità che sia conseguenza, anche indiretta o mediata, dell’attività criminosa (. . .) la trasformazione che il denaro, profitto del reato, abbia subito in beni di altra natura, fungibili o in fungibili, non è quindi di ostacolo al sequestro preventivo il quale ben può avere ad oggetto il bene di investimento così acquisito. Infatti, il concetto di profitto o provento di reato legittimante la confisca e quindi nelle indagini preliminari, ai sensi dell’art. 321, comma 2, cod. proc. pen., il suddetto sequestro, deve intendersi come comprensivo non soltanto dei beni che l’autore del reato apprende alla sua disponibilità per effetto diretto ed immediato dell’illecito, ma altresì di ogni altra utilità che lo stesso realizza come conseguenza anche indiretta o mediata della sua attività criminosa” e, sulla base di tale principio, la Corte di Cassazione ha espressamente qualificato come risparmio di spesa il profitto causato dal reato tributario e, al contempo, ha ritenuto configurabile la confisca diretta del denaro corrispondente all’imposta evasa, rimasto nel patrimonio della persona giuridica nel cui interesse o vantaggio il reato sia stato commesso, non potendo l’ente considerarsi, salvo il caso in cui costituisca un mero schermo della persona fisica, terzo estraneo rispetto al reato.

Chiarito ciò, la Suprema Corte rilevava come la successiva giurisprudenza di legittimità abbia consolidato il principio affermato da Sez. U, n. 10561/2014, nel senso che la confisca del prezzo o del profitto del reato rappresentato da una somma di denaro – che si sostanzi, quindi, in un effettivo accrescimento patrimoniale di natura monetaria – non è “per equivalente” ma, attesa la fungibilità del bene, è sempre confisca diretta (Sez. 6, n. 2336 del 7/1/2015; Sez. 3, n. 39177 deIl’8/5/2014, non massimata sul punto; Sez. 7, Ord. n. 50482 del 12/11/2014, in fattispecie in cui la Corte ha ritenuto legittima la qualificazione come confisca diretta dell’ablazione, disposta con sentenza di patteggia mento per i reati di concussione e peculato, di somma contante rinvenuta e sequestrata nella cassetta di sicurezza della figlia dell’imputato, considerata prestanome di quest’ultimo; in precedenza, nello stesso senso, Sez. 6, n. 30966 del 14//6/2007, con specifico riferimento a sequestro preventivo a fini di confisca relativo a disponibilità di conto corrente dell’imputato).

Si è in particolare rilevato che, nella ipotesi in cui il profitto del reato sia costituito da numerario, cosa fungibile, è legittimo il sequestro delle disponibilità di conto corrente dell’imputato a norma della prima parte e non della seconda parte dell’art. 322-ter cod. pen., alla luce della seguente considerazione: “nella dizione dell’art. 322-ter cod. pen. il denaro, come cosa essenzialmente fungibile e, anzi, quale parametro di valutazione unificante rispetto a cose di diverso valore rispettivo, non può qualificarsi come cosa di valore corrispondente ed esorbita pertanto dal sistema della confisca per equivalente, la cui funzione è di rapportare il valore in denaro del bene ulteriormente disponibile all’importo del prezzo del reato. Prezzo che nel sistema di questa forma di confisca, che si riferisce anche a beni di per estranei sia al prezzo che al profitto del reato, ha in tal caso la sola funzione di parametro di riferimento al valore confiscabile. Pertanto, la norma dev’essere intesa nel senso che, ave sia impossibile sottoporre a confisca i beni che costituiscono il prezzo o il profitto del reato e nel patrimonio del condannato non vi sia disponibilità di denaro liquido, si ricorrerà alla confisca di beni diversi, eventualmente disponibili, nei limiti del valore corrispondente al prezzo del reato. A fronte di questa interpretazione – è stato quindi dedotto erroneamente si esclude la configurabilità della confisca, e quindi del sequestro, in relazione al denaro liquido disponibile nel conto corrente dell’imputato sul presupposto che si tratti di profitto e non di prezzo del reato, prescindendo dalla considerazione che la fungibilità del bene, e la confusione delle somme che ne deriva nella composizione del patrimonio, rendono superflua la ricerca della provenienza con riferimento al prezzo o al profitto del reato”.

Ciò posto, le fondamenta ermeneutiche appena descritte sono state a loro volta ulteriormente consolidate dalla pronuncia resa da Sez. U, n. 31617 del 26/06/2015, secondo cui, qualora il prezzo o il profitto c.d. accrescitivo derivante dal reato sia costituito da denaro, la confisca delle somme depositate su conto corrente bancario, di cui il soggetto abbia la disponibilità, deve essere qualificata come confisca diretta e, in considerazione della natura del bene, non necessita della prova del nesso di derivazione diretta tra la somma materialmente oggetto della ablazione e il reato fermo restando che, in tale obiter dictum, le Sezioni Unite hanno in particolare affermato quanto sussegue: «ove il profitto o il prezzo del reato sia rappresentato da una somma di denaro, questa, non soltanto Si confonde automaticamente con le altre disponibilità economiche dell’autore del fatto, ma perde – per il fatto stesso di essere ormai divenuta una appartenenza del reo qualsiasi connotato di autonomia quanto alla relativa identificabilità fisica. Non avrebbe, infatti, alcuna ragion d’essere né sul piano economico né su quello giuridico la necessità di accertare se la massa monetaria percepita quale profitto o prezzo dell’illecito sia stata spesa, occultata o investita: ciò che rileva è che le disponibilità monetarie del percipiente si siano accresciute di quella somma, legittimando, dunque, la confisca in forma diretta del relativo importo, ovunque o presso chiunque custodito nell’interesse del reo. Soltanto, quindi, nella ipotesi in cui sia impossibile la confisca di denaro sorge la eventualità di far luogo ad una confisca per equivalente degli altri beni di cui disponga l’imputato e per un valore corrispondente a quello del prezzo o profitto del reato, giacché, in tal caso, si avrebbe quella necessaria novazione oggettiva che costituisce il naturale presupposto per poter procedere alla confisca di valore (l’oggetto della confisca diretta non può essere appreso e si legittima, così, l’ablazione di altro bene di pari valore). Né è a dirsi, come parte della giurisprudenza mostra di ritenere, che la confisca del denaro costituente prezzo o profitto del reato, in assenza di elementi che dimostrino che proprio quella somma è stata versata su quel conto corrente, determinerebbe una sostanziale coincidenza della confisca diretta con quella di valore, dal momento che è la prova della percezione illegittima della somma che conta, e non la sua materiale destinazione: con la conseguenza che, agli effetti della confisca, è l’esistenza del numerario comunque accresciuto di consistenza a rappresentare l’oggetto da confiscare, senza che assumano rilevanza alcuna gli eventuali movimenti che possa aver subito quel determinato conto bancario».

Orbene, a seguito del duplice pronunciamento delle Sezioni Unite favorevole alla qualificazione come diretta della confisca di denaro costituente prezzo o profitto del reato, la giurisprudenza successiva ha dato con continuità applicazione a quel principio di diritto ogni qualvolta si sia riscontrata una obiettiva “confusione” nel patrimonio dell’indagato/imputato del profitto monetario conseguito quale diretta conseguenza del reato a lui ascritto e, tra questa sentenze, era segnalata Sez. 5, n. 23393 del 29/03/2017, secondo la quale il denaro, essendo il bene fungibile per eccellenza, non solo si confonde necessariamente con le altre disponibilità del reato, ma perde anche qualsiasi connotato di autonomia quanto alla relativa identificabilità fisica e, quindi, ciò che rileva è che le disponibilità monetarie del percipiente si siano accresciute di quella somma, il che legittima sempre la confisca diretta del relativo importo, ovunque o presso chiunque custodito nell’interesse del reo (in senso conforme, Sez. S, n. 5459 del 18/01/2018).

Ebbene, terminato di esaminare tali approdi ermeneutici, la Suprema Corte notava che i principi di diritto affermati dalle più recenti sentenze delle Sezioni unite, ed in particolare da Sez. U, n. 31617/2015, sono stati posti in discussione da talune decisioni che la Corte di Cassazione ha reso in ordine a fattispecie caratterizzate a vario titolo dalla particolarità del fatto concreto o dalla specifica natura dei reati contestati.

La Sesta Sezione ha così ritenuto che, in tema di sequestro preventivo funzionale alla confisca, è illegittima l’apprensione diretta delle somme di denaro entrate nel patrimonio del reo in base ad un titolo lecito, ovvero in relazione ad un credito sorto dopo la commissione del reato, che non risultino allo stesso collegate, neppure indirettamente (Sez. 6, n. 6816 del 29/1/2019) essendo stato al riguardo ammesso quanto segue: “nell’ipotesi in cui il profitto del reato sia consistito in una somma di denaro, la confisca diretta possa legittimamente avere ad oggetto un importo di pari entità comunque presente nei conti bancari o nei depositi nella disponibilità dell’autore del reato”, ma ha subordinato tale evenienza alla condizione che “si tratti di denaro già confluito nei conti o nei depositi al momento della commissione del reato ovvero al momento del suo accertamento”, in quanto “solo in tali ipotesi è possibile ragionevolmente sostenere che il denaro è sequestra bile e poi confiscabile in via diretta come profitto accrescitivo, dunque indipendentemente da ogni verifica in ordine al rapporto di concreta pertinenzialità con il reato, perché tale relazione è considerata in via fittizia sussistente proprio per effetto della confusione del profitto concretamente conseguito con tutte le altre disponibilità economiche del reo. Diversamente argomentando, cioè ammettendo che il vincolo reale possa estendersi anche su importi di denaro indistintamente accreditati sui conti o nei depositi dell’autore del reato, sulla base di crediti lecitamente maturati in epoca successiva al momento della commissione del reato momento che giuridicamente finirebbe per recidere ogni rapporto di pertinenzialità con il reato si finirebbe obiettivamente per trasformare una confisca diretta in una confisca per equivalente: in quanto avente ad oggetto somme di denaro sì oggetto di movimentazione sui conti o sui depositi nella disponibilità dell’autore del reato, ma che solo con una inaccettabile forzatura possono essere qualificate come profitto accrescitivo, perché del tutto sganciate, dal punto di vista logico e cronologico, dal profitto dell’illecito. D’altro canto, se la finalità della confisca diretta è quella di evitare che chi ha commesso un reato possa beneficiare del profitto che ne è conseguito, bisogna ammettere che tale funzione è assente laddove l’ablazione colpisca somme di denaro entrate nel patrimonio del reo certamente in base ad un titolo lecito ovvero in relazione ad un credito sorto dopo la commissione del reato, e non risulti in alcun modo provato che tali somme siano collegabili, anche indirettamente, all’illecito commesso».

Allo stesso modo è stata altresì messa in evidenza la necessità che il sequestro a fini di confisca diretta di somme di denaro giacenti su conti correnti o di altri strumenti finanziari consegua all’accertamento del nesso di pertinenzialità tra il denaro sottoposto a vincolo ed il profitto del reato (Sez. 6, n. 17997 del 20 marzo 2018, con la quale la Corte ha annullato con rinvio il sequestro di conti correnti, libretti postali, titoli ed altri strumenti finanziari intestati all’indagato, disposto sulla base del generico presupposto che tali beni fossero provento dell’appartenenza ad un’associazione di stampo mafioso; Sez. 5, n. 48625 del 24/09/2018).

A fronte di tale quadro ermeneutico, gli Ermellini osservavano come invece in dottrina siano prevalenti le posizioni nettamente contrarie a quelle espresse da Sez. U, nn. 10561/2014 e 31617/2015 in quanto, una volta fatto presente che tali pronunce, modulando il principio nominalistico in funzione del supermento dell’individuazione della riferibilità al reato del denaro oggetto di vincolo a fini di ablazione, si sarebbero spinte fino a recidere l’individuazione di un nesso diretto tra la somma da confiscare e quella costituente profitto del reato, il che comporterebbe la sostanziale trasformazione della misura, da confisca diretta a confisca per equivalente, si è sottolineato che, per potersi affermare in ogni caso la natura diretta della confisca del profitto monetario del reato, nella sentenza 10561/2014  si è dovuto ammettere che tale confisca non deve necessariamente ricadere sul denaro immediatamente conseguito col reato, ben potendosi confiscare anche le utilità mediate e conseguenziali.

Le Sezioni Unite avrebbero quindi, per tale via, definito un vero e proprio regime derogatorio alla confisca del profitto monetario, nel quale la naturale fungibilità del denaro consente di superare la pur necessaria individuazione del vincolo di provenienza, rilevandosi al contempo che proprio il rilievo svolto da Sez. U, n. 31617/2015 – secondo cui il denaro non soltanto si confonde automaticamente con le altre disponibilità economiche dell’autore del reato, ma perde, per il fatto stesso di essere ormai divenuto un’appartenenza del reo, qualsiasi connotato di autonomia e ogni identificabilità fisica – induce a concludere nel senso che la confisca del denaro, ove di quest’ultimo non sia tracciabile l’origine, dovrebbe essere considerata una confisca di valore e, in questa prospettiva, la fungibilità caratteristica del denaro non potrebbe comportare l’elisione del requisito della pertinenzialità in realtà sussistente solo se proprio la somma di denaro vincolata a fini di ablazione è causai mente collegata in via diretta al reato, sicché la confisca diretta dovrebbe ritenersi circoscritta ai casi in cui il denaro costituente profitto del reato rimanga identificabile, perché depositato o custodito senza che si sia determinata confusione con altri attivi monetari del reo, ovvero perché direttamente reinvestito con modalità che ne consentano la tracciabilità fermo restando che, al di là di tali limiti, si verificherebbe una vera e propria trasfigurazione della nozione stessa di profitto del reato nella quale evaporerebbe il nesso di pertinenzialità, rendendosi possibile la confisca di qualsiasi vantaggio derivante dal reato, a prescindere dal fatto che si tratti di un effettivo e concreto accrescimento patrimoniale.

Orbene, a questo punto della disamina, le Sezioni Unite affermavano di volere rispondere al quesito posto dalla Sezione remittente dando continuità al principio di diritto affermato, in tema di sequestro a fini di confisca diretta del prezzo o profitto monetario del reato, da Sez. U, n. 31617/2015.

In particolare, il Collegio ribadiva che, ai fini della confisca diretta del pretium delicti rappresentato da una somma di denaro, è indifferente l’identità fisica del numerario oggetto di ablazione rispetto a quello illecitamente conseguito e, conseguentemente, riteneva necessario precisare che il nesso eziologico di diretta provenienza che lega al reato la somma acquisita dall’autore, lungi dal venir meno, va tuttavia individuato, definito e conformato in relazione alla peculiare natura del denaro e alla disciplina giuridica sua propria.

Si osservava a tal proposito prima di tutto che il denaro è bene numerario fungibile ed esso è strumento corrispettivo di valore per eccellenza, specificamente destinato alla circolazione e a servire da mezzo di pagamento.

Da tali sue intrinseche caratteristiche se ne facevano conseguire alcune rilevanti conseguenze giuridiche.

La prima è che il denaro è bene ontologicamente diverso rispetto a qualunque “utilità” di altro tipo.

Non è quindi un accidente che le varie norme penali che ad esso si riferiscono – in particolare nell’ambito dei delitti contro la pubblica amministrazione, ma non solo – traccino una espressa e netta demarcazione tra queste due categorie – “denaro o altra utilità” – allorché si tratta di individuare le cose e i beni nei quali può consistere il prezzo, il profitto o il prodotto del reato.

In particolare, se si esamina tale distinzione nella prospettiva della confisca-misura di sicurezza di cui all’art. 240 cod. pen., è agevole rilevare che allorché la norma fa riferimento a “cose“, “beni” e “strumenti“, il denaro, ove rappresenti uno dei suddetti proventi, è genericamente considerato bene soggetto a confisca diretta dato che, quando il legislatore ha voluto riservare all’ablazione del denaro una specifica disciplina, lo ha fatto in modo espresso, al comma l-bis del citato art. 240, il quale per l’ipotesi ivi descritta prevede che tale ablazione possa avvenire unicamente per equivalente.

Precisato ciò, si faceva inoltre presente che la peculiare natura del “bene-denaro” costituente il prezzo o il profitto del reato conforma i tratti e la disciplina della confisca che lo abbia ad oggetto e, a tale fine, quale numerario fungibile destinato ex lege a servire da mezzo di pagamento posto che esso è ontologicamente e normativamente indifferente all’individuazione materiale del relativo supporto nummario: natura e funzione del denaro rendono recessiva la sua consistenza fisica, determinando la sua automatica confusione nel patrimonio del reo, che ne risulta correlativamente accresciuto.

Per la confisca del prezzo o del profitto del reato che sia consistente in una somma di denaro è quindi irrilevante, per le Sezioni Unite, che il numerario conseguito dall’autore – perciò stesso confuso nel suo patrimonio, al pari, del resto, di eventuali altre acquisizioni monetarie lecite – sia materialmente corrispondente a quello sottoposto a confisca.

La somma di denaro che ha costituito il prezzo o il profitto del reato non va dunque considerata, per la Corte di legittimità, nella sua fisica consistenza, ma nella sua ontologica essenza di bene fungibile e paradigma di valore fermo restando che, se il prezzo o il profitto del reato è rappresentato da una somma di denaro, essa si confonde con le altre componenti del patrimonio del reo e perde perciò stesso ogni giuridico rilievo la sua Identificabilità fisica.

Da un lato, quindi, non occorrerà ricercare lo stesso numerario – le medesime banconote – conseguito dall’autore come diretta derivazione del reato da lui commesso, e, dall’altro, nessuna rilevanza sarà attribuibile all’eventuale esistenza di altri attivi monetari in ipotesi confluiti nel patrimonio del reo, foss’anche a seguito di versamenti di denaro aventi origine lecita nel suo conto corrente bancario atteso che lo scopo della misura non è di ritrovare sul conto corrente del reo le stesse banconote ab origine costituenti il prezzo o il profitto del reato, ma di realizzare l’ablazione della somma che sia già entrata nel patrimonio dell’autore a causa della commissione dell’illecito ed ivi sia ancora rinvenibile.

Come icasticamente affermato dall’Avvocato generale nella sua pregevole memoria, in effetti, “la confisca diretta insegue non le banconote, ma la somma di denaro quale entità che incrementa il patrimonio del reo”, così come, allo stesso modo, sempre a parere del Supremo Consesso, risultano irrilevanti le vicende che abbiano in ipotesi interessato la somma riveniente dal reato una volta che la stessa – intesa, come per sua natura, quale massa monetaria fungibile – sia stata reperita nel patrimonio del reo al momento dell’esecuzione della misura ablativa o, se del caso, del prodromico vincolo cautelare poiché, in tale ipotesi, l’occultamento o il consumo eventuali del pretium delicti, ovvero la sua sostituzione con altro numerario – anche di origine lecita – avrebbero ad oggetto un valore monetario già confluito nel patrimonio del reo e divenuto perciò, al pari degli altri dello stesso tipo ivi rinvenuti, una sua indistinguibile componente liquida, tutt’ora esistente al momento della confisca mentre l’eventuale trasformazione di quella componente monetaria rileverebbe solo in quanto essa abbia comportato, al momento della cautela reale o dell’ablazione, il venir meno nel patrimonio del reo di qualsivoglia attivo dello stesso genere.

Solo in questa ipotesi, che Sez. U, n. 31617/2015, ha definito “novazione oggettiva“, cioè quando non sia più rinvenuto l’accrescimento monetario derivante dal reato perché la persona non dispone più di denaro, opererà, nei casi normativamente previsti, lo strumento surrogatorio della confisca per equivalente, attuabile sui beni di diversa natura di cui disponga l’autore del reato.

Oltre a ciò, gli Ermellini notavano inoltre come il denaro rappresenti non solo cosa essenzialmente fungibile, ma anche l’archetipo di bene corrispettivo di valore dato che esso è parametro di valutazione unificante del valore di cose tra loro diverse e, quindi, rispetto ad esso, è impossibile – e comunque inutile, logicamente prima ancora che giuridicamente – ricercare in altra somma di denaro un equivalente di valore, sicché, nel caso in cui il prezzo o il profitto del reato siano originariamente costituiti da numerario, quest’ultimo esorbita dal sistema della confisca per equivalente, la cui funzione è quella di rapportare il valore in denaro del diverso bene disponibile a fini di ablazione a quello dei proventi del reato; altrimenti detto, se la confisca diretta del prezzo o del profitto del reato consistente in una somma di denaro ha necessariamente ad oggetto un determinato valore, non v’è ragione che non possa essere quello stesso valore, se esistente nel patrimonio del reo, a formare oggetto di ablazione diretta giacché lo strumento della confisca per equivalente ha carattere surrogatorio ed è applicabile nel caso in cui il bene suscettibile di ablazione diretta non sia rintracciabile, rendendosi così necessario confiscare un bene di valore corrispondente, ma, ove il bene oggetto di confisca diretta sia, come il denaro, ex se privo di una propria rilevante identità fisica e sia esso stesso ontologicamente rappresentativo di un valore e di un corrispettivo monetario, non c’è spazio per operare tale sostituzione dell’aliud pro alio.

Orbene, da tutto quanto precede se ne faceva conseguire che, contrariamente agli assunti dei critici della più volte citata Sez. U, n. 31617/2015, l’esegesi innanzi descritta non determina la recisione del nesso di diretta derivazione causale tra il reato e il prezzo o profitto monetario sottoposto a confisca, bensì la necessaria conformazione di quel rapporto eziologico alla peculiare natura del denaro e alla sua concreta funzione economica.

Per il denaro, il nesso di pertinenzialità col reato non può essere inteso come fisica identità della somma confiscata rispetto al provento del reato, ma consiste nella effettiva derivazione dal reato dell’accrescimento patrimoniale monetario conseguito dal reo, che sia ancora rinvenibile, nella stessa forma monetaria, nel suo patrimonio in quanto è tale incremento monetario che rappresenta il provento del reato suscettibile di ablazione, non il gruzzolo fisicamente inteso.

Se correttamente definito e individuato, per la Corte di legittimità, il rapporto eziologico di derivazione dal reato non viene dunque meno per il fatto che la somma di denaro oggetto di ablazione sia rappresentata da un numerario “diverso” rispetto a quello fisicamente conseguito per effetto del reato, e da ciò se ne faceva derivare le seguenti conseguenze: “Una volta risolto l’equivoco di fondo che sorregge l’opposta ricostruzione interpretativa – la quale riferisce il rapporto di pertinenza tra il bene e il reato non già all’incremento monetario provocato nel patrimonio del reo, bensì al denaro fisicamente inteso – il rapporto eziologico di causazione che lega il prezzo o il profitto monetario al reato rimane strutturalmente autonomo rispetto alle caratteristiche intrinseche del bene, alla sua fungibilità. (…) Perché il prezzo o il profitto monetari possano essere soggetti ad ablazione diretta, è necessario che il loro effettivo conseguimento da parte del reo (ed il relativo accrescimento patrimoniale) sia provato secondo gli ordinari standard probatori, previsti, dapprima, per l’eventuale adozione della cautela reale e, poi, in termini di certezza processuale, per la confisca. Rispetto a tale thema probandum l’indagato/imputato gode di tutte le facoltà che l’ordinamento gli riconosce per garantire la pienezza del contraddittorio e il suo diritto di difendersi provando. Non è dunque vero che consentire all’indagato/imputato la prova dell’origine lecita di componenti finanziarie del suo patrimonio al fine di paralizzare la confisca proprietaria del prezzo o del profitto monetario del reato rappresenti l’unica garanzia compatibile con i principi costituzionali e convenzionali che presidiano l’effettività del diritto di difesa, ed in particolare del diritto di difendersi provando. (…) Se si ammettesse che la confisca diretta del denaro costituente il prezzo o il profitto del reato si debba arrestare di fronte alla concreta allegazione che gli attivi monetari oggetto di ablazione abbiano origine lecita (cioè che quel denaro, pur facente parte del patrimonio del reo, è cosa diversa da quello conseguito per effetto del reato), si determinerebbero effetti non desiderabili in punto di coerenza di sistema e di funzionalità della misura ablativa. Sotto il primo profilo, il metodo probatorio della confisca diretta, basato sul rigoroso accertamento del nesso eziologico di derivazione dal reato dell’accrescimento patrimoniale monetario conseguito dall’autore del fatto delittuoso, assumerebbe caratteristiche diverse dall’attuale previsione codicistica. Esso sarebbe, infatti, soggetto ad una innaturale ibridazione con le modalità di accertamento del presupposto della sproporzione, proprie della confisca di prevenzione e di quella “allargata”. Verrebbe infatti ad essere riconosciuta al reo – nei confronti del quale è stato dimostrato l’effettivo conseguimento del pretium delicti, entrato pertanto nel suo patrimonio – una eccezione probatoria, finalizzata alla giustificazione della provenienza del denaro oggetto di ablazione, fondata sull’allegazione che nella componente patrimoniale attinta dalla misura sono confluite disponibilità monetarie di origine lecita. Gli effetti pratici di un tale approccio risulterebbero amplificati dal fatto che nella confisca diretta la distribuzione dell’onere probatorio è naturalmente diversa rispetto alle confische “di sproporzione”. In queste ultime è l’interessato a dover giustificare la legittima provenienza delle sue risorse per sottrarsi all’ablazione, mentre alla confisca diretta, contrariamente a quanto suggerito nell’ordinanza di rimessione, è estranea qualunque forma di presunzione ed è l’accusa a dover dimostrare l’effettivo conseguimento del prezzo o del profitto monetario del reato da parte del suo autore. L’esegesi che si contesta avrebbe, dunque, per effetto di porre a carico del pubblico ministero – in tutti i casi in cui il reo ha visto provato l’effettivo conseguimento da parte sua del denaro costituente prezzo del reato, ma ha avuto cura di occultare lo specifico numerario o di rendere non tracciabile la sua circolazione – l’ulteriore e alternativo onere di rinvenire proprio quel denaro, ovvero di dimostrarne le vicende che hanno condotto alla sua sostituzione o trasformazione in beni della stessa o diversa natura. Tutto ciò in spregio del fatto che la commixtio nummorum col patrimonio del reo, e la conseguente perdita di autonoma identificabilità degli attivi monetari che vi sono soggetti, si verifica in via automatica tanto per il denaro provento di reato che per gli altri asset monetari di origine lecita confluiti in quel patrimonio al momento della misura ablatoria. Sicché il più volte descritto fenomeno di confusione attrae tutte quelle componenti liquide nel patrimonio monetario del reo e giustifica che su tale patrimonio venga eseguita la confisca diretta dei proventi del reato rappresentati da somme di denaro”.

Delineate tali conseguenze, i giudici di legittimità ordinaria notavano inoltre, una volta fatto presente che l’ordinanza di rimessione ricordava correttamente che, secondo la giurisprudenza nomofilattica, l’applicabilità del principio di legalità penale in tema di confisca è conseguente alla valutazione della natura giuridica dell’ablazione, affidata all’individuazione della funzione ad essa assegnata dall’ordinamento e da essa concretamente assicurata sicché ove la confisca assolva una funzione afflittivo-punitiva, la stessa dovrà essere considerata alla stregua di una pena, nel senso che al termine assegna la CEDU, e il soggetto che la subisce deve poter godere delle garanzie di cui agli artt. 25, 27 Cost., 6, 7 CEDU e 2 cod. pen. mentre, nel caso in cui, invece, la confisca assolva ad una finalità di prevenzione, di mero riequilibrio, la stessa non è soggetta alle indicate garanzie. (Sez. U, n. 4880 del 26/4/2014, dep. 2015).

Ebbene, come innanzi ricostruita, ad avviso della Cassazione, la confisca diretta dei proventi monetari del reato non ha carattere afflittivo e, tantomeno, sanzionatorio rilevandosi, a tale riguardo, in effetti, che non ha tanto rilievo la sua formale collocazione tra le misure di sicurezza, quanto il fatto che essa assolve unicamente una finalità ripristinatoria visto che l’ablazione ha ad oggetto solo l’effettivo accrescimento monetario direttamente prodotto nel patrimonio del reo dal dimostrato conseguimento da parte sua del prezzo o profitto del reato consistente in una somma di denaro.

Del resto, sempre ad avviso delle Sezioni Unite, se il nesso di diretta derivazione dal reato dovesse essere unicamente riferito alla somma di denaro fisicamente conseguita dal reo o, al più, esteso a quella risultante in via immediata dalla sua trasformazione tracciabile dei cosiddetti succedanei, già considerati da Sez. U., n. 10280/2007, cit., la confisca diretta del denaro sarebbe limitata a rarissime e del tutto marginali ipotesi, a veri e propri casi di scuola, rilevandosi al contempo come la dottrina ne abbia puntualmente individuati alcuni: per esempio, il denaro contante riversato sul conto corrente a saldo zero, ovvero su quello destinato a ricevere unicamente proventi criminosi mentre altre, quale la tracciatura preventiva delle banconote prezzo di corruzione o profitto di estorsione rinvenute ancora in possesso del consegnatario al momento del sequestro, emergono dall’esperienza giudiziaria.

Definire residuali i casi nei quali si avrebbe certezza che un attivo monetario è confiscabile in via diretta – in quanto fisica derivazione dal reato e distinguibile da altri asset liquidi dei quali il reo possa concretamente allegare l’origine lecita – sarebbe quindi, per la Corte, un eufemismo fermo restando che, negli altri casi, la confisca del denaro dovrebbe sempre essere ritenuta una confisca di valore e potrebbe operare solo in ragione delle eccezionali ipotesi in cui quello specifico strumento ablatorio è consentito, ma ciò, oltre a contraddire l’innanzi descritta, ontologica natura del denaro, caratterizzato dall’essere destinato a circolare rapidamente e in forma per lo più anonima quale strumento di pagamento e parametro di valore, comporterebbe evidenti ricadute negative sul piano della coerenza stessa del sistema, il quale verrebbe a fondarsi principalmente, in casi così rilevanti e frequenti, sullo strumento ablativo surrogatorio, normativa mente riservato a un ristretto numero di fattispecie penali, laddove, al contrario, quello di carattere generale avrebbe di fatto un’applicazione del tutto residuale.

Al quesito sottoposto alle Sezioni Unite, si rispondeva pertanto conclusivamente nei seguenti termini: “Qualora il prezzo o il profitto derivante dal reato sia costituito da denaro, la confisca viene eseguita, in ragione della natura del bene, mediante l’ablazione del denaro, comunque rinvenuto nel patrimonio del soggetto, che rappresenti l’effettivo accrescimento patrimoniale monetario da quest’ultimo conseguito per effetto del reato; tale confisca deve essere qualificata come confisca diretta, e non per equivalente, e non è ostativa alla sua adozione l’allegazione o la prova dell’origine lecita del numerario oggetto di ablazione”.

Conclusioni

La decisione in esame è assai interessante essendo ivi postulato, dopo un lungo e articolato ragionamento giuridico, che, qualora il prezzo o il profitto derivante dal reato sia costituito da denaro, la confisca viene eseguita, in ragione della natura del bene, mediante l’ablazione del denaro, comunque rinvenuto nel patrimonio del soggetto, che rappresenti l’effettivo accrescimento patrimoniale monetario da quest’ultimo conseguito per effetto del reato fermo restando che tale confisca deve essere qualificata come confisca diretta, e non per equivalente, e non è ostativa alla sua adozione l’allegazione o la prova dell’origine lecita del numerario oggetto di ablazione.

Di conseguenza, per effetto di questo arresto giurisprudenziale, è consentito procedere alla confisca nella misura in cui il denaro, oggetto di questo provvedimento ablativo, riguardi l’effettivo accrescimento patrimoniale monetario conseguito per effetto del reato, il che vuol significare, argomentando a contrario, che di norma non si può ricorrere a questo provvedimento in relazione al cespite monetario che nulla abbia a che fare con l’attività illecita posta in essere.

Il giudizio in ordine a quanto statuito in siffatta sentenza, proprio perché contribuisce a fare chiarezza su codesta tematica giuridica, dunque, non può che essere positivo.

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Avv. Di Tullio D’Elisiis Antonio

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