La Consulta interviene sul regime di carcere duro: vediamo come

Scarica PDF Stampa
E’ illegittimo costituzionalmente l’art. 41-bis, comma 2-quater, lettera f), della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), come modificato dall’art. 2, comma 25, lettera f), numero 3), della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica), limitatamente alle parole «e cuocere cibi».

Il fatto e le argomentazioni prospettate nell’ordinanza di rimessione

Con ordinanza del 10 maggio 2017, iscritta al n. 120 del registro ordinanze 2017, il Magistrato di sorveglianza di Spoleto sollevava, in riferimento agli artt. 3, 27 e 32 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 41-bis, comma 2-quater, lettera f), della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), come modificato dall’art. 2, comma 25, lettera f), numero 3), della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica), nella parte in cui «impone che siano adottate tutte le necessarie misure di sicurezza volte a garantire che sia assicurata la assoluta impossibilità per i detenuti in regime differenziato di cuocere cibi».
Il giudice a quo riferiva in particolare di essere investito del reclamo proposto da un detenuto sottoposto al regime ex art. 41-bis ordin. penit., con il quale l’interessato si doleva dei divieti, impostigli dall’amministrazione penitenziaria, di acquistare cibi che richiedono cottura, nonché di cucinare quelli di cui gli è consentito l’acquisto (poiché consumabili anche crudi), a pena della sottoposizione, in caso di violazione, ad una sanzione disciplinare.
Il rimettente chiariva, in via preliminare, che il reclamo era stato proposto dall’interessato ai sensi degli artt. 35-bis e 69, comma 6, lettera b), ordin. penit., lamentando un pregiudizio grave e perdurante al proprio diritto a subire una pena non disumana ai sensi dell’art. 27 Cost., da scontare in condizioni di parità di trattamento, ai sensi dell’art. 3 Cost., rispetto alle altre persone detenute presso il medesimo istituto penitenziario (casa circondariale di Terni), seppur in sezioni diverse da quella a regime differenziato in cui si trova riferendo, altresì, che il reclamante aveva allegato la violazione del proprio diritto alla salute, «dovendo accontentarsi del vitto somministratogli dall’amministrazione e non potendo invece acquistare cibi da cuocere o comunque cucinare quelli di cui gli è autorizzato l’acquisto»: al detenuto sarebbe stato perciò impedito di seguire la dieta alimentare di cui avrebbe bisogno per le proprie patologie, poi specificate nel corso dell’udienza fissata per la discussione del reclamo, mediante il deposito di certificazione medica attestante «gastrite cronica, malattia da reflusso gastroesofageo e tendenza alla ipercolesterolemia» così come avrebbe avanzato anche la richiesta di «mangiare cibi più sani», per «ovviare così ai deficit igienici che ha riscontrato nella distribuzione del vitto», che avverrebbe «con modalità gravemente carenti, a suo modo di vedere, a causa del lungo percorso, senza le opportune cautele, che le pietanze preparate compiono dalle cucine alle stanze detentive».
In ordine alle fonti normative dei contestati divieti, il giudice a quo esponeva che quello di cucinare cibo è previsto, come risulta da una nota fatta pervenire dalla direzione dell’istituto penitenziario, dal punto M) della circolare del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria del Ministero della giustizia n. 286202 del 4 agosto 2009, a sua volta emanata in diretta attuazione dell’art. 41-bis, comma 2-quater, lettera f), ordin. penit., che espressamente vieterebbe la cottura di cibi, sicché ai detenuti in regime differenziato sarebbe consentito l’uso di fornelli personali, ma per il solo riscaldamento di liquidi e cibi già cotti, nonché per la preparazione di bevande.
Il rimettente, inoltre, esponeva che, in base alle istruzioni ministeriali vigenti, i detenuti ristretti in regime differenziato possono acquistare al cosiddetto «mod. 72» anche i generi alimentari precotti, tra cui, ad esempio, alcune tipologie di cibi surgelati o legumi cotti in confezioni di tetrapak, partitamente indicati evidenziando oltre tutto che i detenuti, che contravvengano al divieto di cottura dei cibi, anche se rientranti tra quelli di cui è comunque consentito l’acquisto, vengono sanzionati disciplinarmente.
Il giudice a quo sottolineava per di più che agli altri detenuti, ristretti presso le sezioni «comuni» e «alta sicurezza», era invece consentito acquistare al cosiddetto «sopravvitto» un’ampia serie di «generi vittuari» da cucinare ed era altresì loro concessa la cottura di tutti i cibi consumabili anche crudi: gli unici limiti da rispettare sarebbero quelli settimanali e mensili sulle spese di acquisto, previsti in via generale, e il divieto di effettuare acquisti eccedenti, in quantità, il fabbisogno individuale, fissato in via generale dall’art. 14, comma 8, del d.P.R. 30 giugno 2000, n. 230 (Regolamento recante norme sull’ordinamento penitenziario e sulle misure privative e limitative della libertà).
Il giudice rimettente operava, poi, un confronto tra l’elenco di generi alimentari di cui è consentito l’acquisto al cosiddetto «sopravvitto» presso una sezione «media sicurezza» o «alta sicurezza» della casa circondariale di Terni e il medesimo elenco redatto per la sezione a regime speciale in cui è ristretto il reclamante, evidenziando come il secondo non contempli, a titolo esemplificativo, tutte le tipologie di carne (come pollo, agnello e maiale), le verdure e i legumi che richiedono cottura, nonché tutte le paste, il riso e i relativi condimenti.
In punto di rilevanza, il rimettente esponeva come l’oggetto del reclamo fosse costituito dalla richiesta di eliminare i divieti imposti dall’amministrazione penitenziaria con ordini di servizio in materia di cottura dei cibi.
I divieti illustrati, secondo il giudice a quo, si fondano sul punto M) – «sopravvitto e uso dei fornelli personali» – della circolare n. 286202 del 2009, emanata a seguito della modifica normativa del testo dell’art. 41-bis ordin. penit., nel cui comma 2-quater, lettera f), è stato inserito il riferimento espresso all’obbligo per l’amministrazione di adottare tutte le misure di sicurezza necessarie, tra l’altro, a garantire l’assoluta impossibilità, per i detenuti in regime differenziato, di cuocere cibi.
Solo la declaratoria d’illegittimità costituzionale della norma contenuta nel comma 2-quater, lettera f), dell’art. 41-bis ordin. penit., in definitiva, consentirebbe al giudice a quo di disapplicare i provvedimenti amministrativi impositivi dei divieti oggetto del reclamo sottoposto alla sua cognizione.
Quanto alla valutazione di non manifesta infondatezza delle questioni sollevate, secondo il giudice a quo tre sarebbero i parametri costituzionali violati.
In primo luogo, risulterebbe violato l’art. 3 Cost. poiché la disposizione sospettata d’incostituzionalità determinerebbe una disparità di trattamento tra detenuti non giustificata dalle esigenze poste a base dell’imposizione del regime differenziato.
Dopo aver ricostruito il quadro normativo, di fonte primaria e regolamentare, che disciplina, in generale, il vitto somministrato alla popolazione carceraria, il giudice a quo evidenziava come l’adozione del regime detentivo ex art. 41-bis ordin. penit. determinasse la sospensione dell’applicazione delle regole di trattamento e degli istituti previsti dalla legge di ordinamento penitenziario che possano porsi in concreto contrasto con le esigenze di ordine e di sicurezza.
Ricordava, tuttavia, il rimettente che, per espressa indicazione normativa, la sospensione comporta unicamente le limitazioni necessarie per il soddisfacimento delle predette esigenze e per impedire i collegamenti «con l’associazione criminale di riferimento».
Ciò posto, il giudice a quo evidenziava che, dopo la novella del 2009, il comma 2-quater del medesimo art. 41-bis ordin. penit. si compone di una elencazione di limitazioni ritenute necessarie per raggiungere gli obbiettivi perseguiti dalla norma e, in particolare, prescrive alla lettera f), tra l’altro, che siano adottate tutte le necessarie misure di sicurezza volte a garantire che sia assicurata la assoluta impossibilità per i detenuti in regime differenziato di cuocere cibi.
Proprio l’assolutezza del divieto di cuocere cibi determinerebbe, ad avviso del giudice rimettente, una disparità di trattamento, rispetto al resto della popolazione ristretta, che intanto potrebbe ritenersi ragionevole ai sensi dell’art. 3 Cost., «in quanto giustificata da ragioni di sicurezza pretermesse ove fosse consentito al detenuto in 41bis di cucinare».
Il giudice a quo, a questo punto della disamina, ricostruiva la ratio del divieto di cuocere cibi nello scopo di evitare il pericolo che il detenuto, di spessore criminale tale da essere sottoposto al regime differenziato, avesse potuto acquistare presso il carcere quantità e qualità di cibi che gli consentano di mostrare o imporre il suo carisma criminale.
Una simile finalità, tuttavia, appariva al rimettente «inidonea a giustificare effettivamente il divieto imposto», sia perché il divieto sarebbe del tutto incongruo rispetto alla finalità descritta, sia perché l’ordinamento penitenziario prevederebbe altri strumenti – quali le limitazioni, valevoli per la generalità della popolazione detenuta, alla quantità e alla qualità di cibi ricevibili o acquistabili dall’esterno (siano essi da consumarsi crudi o da cucinarsi) – volti ad evitare efficacemente l’affermarsi di situazioni come quelle temute.
Alla luce della giurisprudenza costituzionale ampiamente richiamata nell’ordinanza di rimessione, in definitiva, il divieto di cuocere cibi contenuto nella norma censurata acquisterebbe un carattere puramente afflittivo «non riconducibile alla funzione attribuita dalla legge al provvedimento ministeriale».
Ancora, a giudizio del rimettente, sussisterebbe un contrasto tra la norma censurata e l’art. 27 Cost..
Il rimettente ricordava al riguardo le numerose limitazioni cui è sottoposto il reclamante, in quanto recluso ai sensi dell’art. 41-bis ordin. penit., evidenziando che, tra queste, quella relativa alla cottura del cibo non sembrerebbe apportare «alcun concreto contributo alla fondamentale necessità di inibire pericolosi contatti criminali del detenuto con l’esterno né di limitarne l’esibizione di potere e carisma all’interno, a fronte dei vincoli di spesa comunque imposti a tutti i ristretti» e tale ulteriore limitazione, dunque, finirebbe per rivestire un carattere meramente vessatorio, come tale lesivo dell’art. 27 Cost., sia perché contrario al senso d’umanità che deve caratterizzare l’esecuzione della pena, sia perché d’ostacolo alla funzione rieducativa della pena.
Infine, per il rimettente sussisterebbe un contrasto tra la disposizione censurata e l’art. 32 Cost..
Il giudice a quo esponeva come al reclamante fossero state riscontrate alcune patologie gastriche (gastrite cronica e tendenziale ipercolesterolemia) che, al di là delle terapie farmacologiche pure prescrittegli, potrebbero essere «tenute sotto controllo» mediante l’approntamento quotidiano di cibi particolari e cotti con modalità, anche semplici, «di cui non si evince dagli atti che la Casa Circondariale si faccia carico».
Secondo il rimettente, soltanto la libertà di prepararsi autonomamente anche i cibi che richiedono cottura, avrebbe consentito al detenuto interessato di prescegliere e variare la dieta alimentare che ritenga più congrua per le proprie condizioni di salute psico-fisica.

Le argomentazioni sostenute dalle parti

Interveniva il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, il quale aveva chiesto che le questioni fossero dichiarate inammissibili o, comunque, infondate.
In relazione al profilo dell’asserito contrasto della disposizione in esame con l’art. 3 Cost., la difesa dello Stato evidenziava come il divieto di cuocere cibi costituisse una restrizione che assume rilievo nella vita interna all’istituto, rispondendo all’esigenza di affermare la supremazia delle regole dello Stato di diritto nei confronti di chi utilizza le stesse regole del trattamento penitenziario per mantenere, anche all’interno del carcere, il proprio prestigio criminale e di conseguenza aggregare consenso traducibile in termini di potenzialità offensive criminali trattandosi della medesima ratio che ispira l’analogo divieto, imposto da circolari ministeriali, di ricevere e detenere capi di abbigliamento ed accessori particolarmente costosi e di tipo lussuoso (divieto considerato ragionevole dal giudice di legittimità: vengono riportati ampi stralci della sentenza della Corte di cassazione, sezione prima penale, 16 ottobre 2013, n. 42605).
Con riferimento alla prospettata violazione dell’art. 27, terzo comma, Cost., l’interveniente sosteneva che la cottura dei cibi non costituisse affatto espressione di un diritto fondamentale del detenuto, atteso che l’art. 9 ordin. penit. prevede che il vitto venga somministrato «di regola» in specifici locali destinati a contenere un numero non elevato di detenuti o internati aggiungendo altresì che, a tale proposito, l’art. 13 del d.P.R. n. 230 del 2000 prevede che ogni istituto deve essere dotato di una cucina ove venga preparato il pasto per non più di duecento persone, con la necessaria presenza di un adeguato numero di cucine per gli istituti di maggiore capienza: solo per le carenze strutturali registrate negli istituti di pena per adulti, dunque, i detenuti scaldano e consumano i pasti nelle camere di pernottamento, benché l’utilizzo del fornello sia stato concepito «in via eccezionale e soltanto per esigenze marginali».
Pertanto, ad avviso dell’Avvocatura generale dello Stato, la mancata realizzazione di ambienti comuni ove consumare i pasti, e la conseguente possibilità attribuita ai detenuti di cuocere i cibi nelle proprie camere di pernottamento, non si tradurrebbe nel riconoscimento di un diritto del detenuto a cuocere i cibi nella propria cella e quindi la limitazione della cottura dei cibi non possa affatto costituire trattamento contrario al senso di umanità.
Infine, in ordine ai prospettati profili di contrarietà della norma all’art. 32 Cost., veniva evidenziata l’omissione di «ogni descrizione della patologia e delle esigenze di salute del detenuto», circostanza preclusiva dello scrutinio nel merito circa la rilevanza della questione di legittimità costituzionale sollevata dal giudice a quo.
In ogni caso, secondo l’interveniente, in riferimento alle esigenze di salute del reclamante, le prescrizioni ministeriali sul divieto di cottura dei cibi nella propria camera di pernottamento non sarebbero comunque in grado di pregiudicare il diritto alla salute del detenuto, «potendo e dovendo l’Amministrazione penitenziaria assicurare il vitto compatibile con le patologie di ciascun detenuto» richiamandosi, in proposito, la circolare del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria del Ministero della giustizia n. 686040 del 7 aprile 1988 che avrebbe previsto la possibilità di modificare il vitto, adeguandolo, su proposta del sanitario, alle esigenze specifiche di salute del singolo detenuto.

Le valutazioni giuridiche formulate dalla Consulta

La Consulta riteneva le questione fondate poiché la disposizione censurata viola gli artt. 3 e 27 Cost..
Si evidenziava prima di tutto come la giurisprudenza costituzionale avesse da tempo chiarito che il regime differenziato previsto dall’art. 41-bis, comma 2, ordin. penit. mira a contenere la pericolosità di singoli detenuti, proiettata anche all’esterno del carcere, in particolare impedendo i collegamenti dei detenuti appartenenti alle organizzazioni criminali tra loro e con i membri di queste che si trovino in libertà: collegamenti che potrebbero realizzarsi attraverso i contatti con il mondo esterno che lo stesso ordinamento penitenziario normalmente favorisce, quali strumenti di reinserimento sociale (sentenza n. 376 del 1997; ordinanze n. 417 del 2004 e n. 192 del 1998) rilevando in particolare che ciò, che l’applicazione del regime differenziato intende soprattutto evitare, è che gli esponenti dell’organizzazione in stato di detenzione, sfruttando il regime penitenziario normale, possano continuare ad impartire direttive agli affiliati in stato di libertà, e così mantenere, anche dall’interno del carcere, il controllo sulle attività delittuose dell’organizzazione stessa (sentenza n. 143 del 2013).
In questa prospettiva, si faceva presente che il comma 2-quater dell’art. 41-bis ordin. penit. – nel testo da ultimo novellato dalla legge n. 94 del 2009, che ha introdotto significativi inasprimenti al regime in questione – dopo aver previsto che il regime speciale comporta «l’adozione di misure di elevata sicurezza interna ed esterna» finalizzate principalmente a «prevenire contatti con l’organizzazione criminale di appartenenza o di attuale riferimento» del detenuto o dell’internato, oltre che «contrasti con elementi di organizzazioni contrapposte, interazione con altri detenuti o internati appartenenti alla medesima organizzazione ovvero ad altre ad essa alleate», elenca una serie di misure specifiche, costituenti il contenuto tipico e necessario del regime stesso (sentenza n. 122 del 2017) e, tra queste misure, alla lettera f) del comma 2-quater dell’art. 41-bis ordin. penit. figura, per la parte qui rilevante, quella sulla quale si appuntano le censure del giudice rimettente: l’adozione di accorgimenti di natura logistica sui locali di detenzione volti a garantire che sia assicurata la assoluta impossibilità, per i detenuti, di cuocere cibi.
Posto ciò, si metteva in risalto che, originariamente contenuto in alcuni dei primi provvedimenti applicativi della disciplina del “carcere duro” introdotta nel 1992, il divieto di cottura dei cibi da parte dei detenuti considerati più pericolosi trova in seguito stabile collocazione in varie circolari dell’amministrazione carceraria, approvate lungo tutto il corso degli anni ’90, fermo restando che tale divieto non venne tuttavia inserito in fonti di livello primario, e non comparse neppure nella legge 23 dicembre 2002, n. 279 (Modifica degli articoli 4-bis e 41-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di trattamento penitenziario), la quale pur disciplinava in modo analitico il regime di detenzione speciale ex art. 41-bis ordin. penit., tipizzando le limitazioni che in concreto il Ministro della giustizia poteva imporre allo scopo di contenere la pericolosità dei singoli destinatari della misura.
Invece, osserva sempre la Consulta, solo con la legge n. 94 del 2009, indirizzata ad irrigidire significativamente il regime speciale in esame, al divieto di cottura dei cibi da parte dei detenuti in regime differenziato, è assegnata veste legislativa e ciò era avvenuto attraverso l’inserimento del divieto all’interno di una lettera f) del comma 2-quater dell’art. 41-bis ordin. penit., che contiene misure complessivamente volte ad incidere, limitandole drasticamente, sulle potenzialità di relazione dei detenuti: il divieto qui specificamente censurato si accompagna così alla restrizione della loro permanenza all’aperto, che non può svolgersi in gruppi superiori a quattro persone e per una durata superiore alle due ore al giorno, dovendo altresì essere assicurata «l’assoluta impossibilità» di comunicare con detenuti appartenenti a diversi gruppi di socialità e di scambiare oggetti.
A fronte del nuovo contenuto di questa fonte primaria, la Corte costituzionale osservava come si fossero prontamente adeguate le fonti secondarie (in particolare, la circolare del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria del Ministero della giustizia n. 286202 del 4 agosto 2009) introducendo, per i detenuti in questione e per la parte che ora qui interessa, anche il divieto di ricevere dall’esterno e di acquistare al cosiddetto “sopravvitto” (lo spaccio interno al carcere) generi alimentari che per il loro utilizzo richiedano cottura, e precisando che l’utilizzo dei fornelli personali, all’interno delle camere di detenzione, è consentito esclusivamente per riscaldare liquidi e cibi già cotti, nonché per la preparazione di bevande e, a tale specifico regime, riservato ai detenuti soggetti alla disciplina differenziata dell’art. 41-bis ordin. penit., si affianca, peraltro, il diverso e meno restrittivo regime applicato agli altri detenuti dato che quest’ultimi possono acquistare al sopravvitto, nonché ricevere dall’esterno, anche generi alimentari di consumo comune ed eventualmente da consumarsi previa cottura, ai sensi dell’art. 14 del d.P.R. 30 giugno 2000, n. 230 (Regolamento recante norme sull’ordinamento penitenziario e sulle misure privative e limitative della libertà).
Si evidenziava oltre a ciò come, da un lato, in virtù della disciplina contenuta nel d.P.R. n. 230 del 2000, a causa della mancata predisposizione – nella quasi totalità degli istituti di detenzione – di locali attrezzati per cucinare, ai detenuti comuni è permesso utilizzare nelle camere di detenzione i fornelli personali, non solo – come è previsto per i detenuti in regime differenziato – per riscaldare liquidi e cibi già cotti oppure per preparare bevande, ma anche per la preparazione di cibi di facile e rapido approntamento (art. 13, comma 4, d.P.R. n. 230 del 2000), dall’altro, con regola non applicabile ai detenuti soggetti al regime di cui all’art. 41-bis ordin. penit. proprio a causa del divieto legislativo del quale si duole il giudice a quo, il comma 7 dell’art. 13 del citato d.P.R. n. 230 del 2000 autorizza il regolamento interno di ciascun carcere a prevedere che, sia pur senza carattere di continuità, sia consentita ai detenuti comuni la cottura di generi alimentari, stabilendo i generi ammessi nonché le modalità da osservare e sulla base di quest’ultima disposizione – e a causa della già rilevata assenza, nella quasi totalità delle carceri, di locali attrezzati per cucinare – i detenuti comuni utilizzano abitualmente all’interno delle camere di detenzione il fornello personale per cuocere cibi, e non solo per riscaldare cibi già cotti o per preparare cibi di facile e rapido approntamento (secondo i limiti testualmente posti dall’art. 13, comma 4, del d.P.R. n. 230 del 2000).
Terminata questa disamina di ordine normativo, il giudice delle leggi passava ad esaminare il quadro ermeneutico del diritto vivente rilevando, per un verso, come la giurisprudenza (appunto) costituzionale avesse puntualmente definito non solo gli obbiettivi cui tende il regime detentivo differenziato previsto dall’art. 41-bis, comma 2, ordin. penit., ma anche i limiti cui è soggetta la sua applicazione in quanto, affermando che, in base alla citata disposizione, è possibile sospendere solo l’applicazione di regole ed istituti dell’ordinamento penitenziario che risultino in concreto contrasto con le esigenze di ordine e sicurezza, la Consulta aveva chiarito, correlativamente, non potersi disporre misure che, a causa del loro contenuto, a quelle concrete esigenze non siano riconducibili poiché risulterebbero palesemente inidonee o incongrue rispetto alle finalità del provvedimento che assegna il detenuto al regime differenziato: «[m]ancando tale congruità, infatti, le misure in questione non risponderebbero più al fine per il quale la legge consente che esse siano adottate, ma acquisterebbero un significato diverso, divenendo ingiustificate deroghe all’ordinario regime carcerario, con una portata puramente afflittiva non riconducibile alla funzione attribuita dalla legge al provvedimento ministeriale» (sentenza n. 351 del 1996), per altro verso, la stessa giurisprudenza costituzionale (sentenze n. 376 del 1997, n. 351 del 1996 e n. 349 del 1993) aveva conseguentemente sottolineato che le misure, considerate singolarmente e nel loro complesso, non devono essere tali da vanificare del tutto la necessaria finalità rieducativa della pena (sentenza n. 149 del 2018) e da violare il divieto di trattamenti contrari al senso di umanità, «verifica quest’ultima tanto più delicata trattandosi di misure che derogano al trattamento carcerario ordinario» (ancora sentenza n. 351 del 1996).
A fronte di ciò, i giudici di legittimità costituzionale facevano presente che, nel silenzio dei lavori preparatori della legge n. 94 del 2009 circa la ratio dell’introduzione del divieto di cottura dei cibi per i detenuti assegnati al regime differenziato di cui all’art. 41-bis ordin. penit., si era comunemente ritenuto che tale ratio potesse essere scorta nella necessità di contrastare l’eventuale crescita di “potere” e prestigio criminale del detenuto all’interno del carcere, misurabile anche attraverso la disponibilità di generi alimentari “di lusso” e sotto questo profilo, se si riteneva non avesse errato l’Avvocatura generale dello Stato quando ricorda che è necessario «affermare la supremazia delle regole dello Stato di diritto» nei confronti di chi potrebbe sfruttare le stesse regole del trattamento penitenziario per mantenere, anche all’interno del carcere, il proprio prestigio criminale e di conseguenza aggregare un consenso traducibile in termini di potenzialità offensive criminali, tuttavia la medesima Consulta, nella sentenza n. 351 del 1996, aveva postulato che se è vero che va combattuto in ogni modo il manifestarsi all’interno del carcere di forme di “potere” dei detenuti più forti o più facoltosi, suscettibili anche di rafforzare le organizzazioni criminali, è anche vero che ciò deve perseguirsi attraverso la definizione e l’applicazione rigorosa e imparziale delle regole del trattamento carcerario, non potrebbe però, per converso, considerarsi legittimo, a questo scopo, l’impiego di misure più restrittive nei confronti di singoli detenuti in funzione di semplice discriminazione negativa, non altrimenti giustificata, rispetto alle regole e ai diritti valevoli per tutti.
Si stigmatizzava inoltre il riferimento alla necessità di contrastare attraverso regole dal sapore dimostrativo forme di “potere reale” dei detenuti anche sotto il profilo della sua palese incongruità se concretamente riferito al particolare divieto in esame che consiste nell’impossibilità di cuocere cibi atteso che: a) la crescita di “potere” e di prestigio all’interno del carcere potrebbe derivare anche dalla disponibilità di generi alimentari “di lusso” da consumare crudi fermo restando che, anche al di là di questo ovvio rilievo, è la stessa ordinaria applicazione delle regole di disciplina specificamente previste a rendere pressoché impossibile qualunque abusiva posizione di privilegio o di “potere” all’interno del carcere collegata alla cottura del cibo; b) le regole carcerarie ordinarie prevedono precisi limiti alla ricezione, all’acquisto e al possesso di oggetti e generi alimentari da parte di tutti i detenuti (art. 14 del d.P.R. n. 230 del 2000) e dunque anche il detenuto, in regime differenziato, può acquistare al sopravvitto generi alimentari (con l’esclusione, attualmente, di quelli che richiedono cottura), ma può farlo nei limiti di quantità e valore comunemente previsti (come ribadito nella recente circolare del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria del Ministero della giustizia n. 3676/6126 del 2 ottobre 2017) fermo restando che lo stesso regime differenziato di cui all’art. 41-bis ordin. penit. rende assai improbabile il possesso, da parte del detenuto, di generi alimentari pregiati, che risultino motivo di discriminazione fra detenuti o mezzo improprio di scambio, o tali comunque da distinguere la sua posizione, pur all’interno del limitatissimo “gruppo di socialità” entro il quale al detenuto è concesso di convivere atteso che l’art. 41-bis, comma 2-quater, lettera c) prevede che la sospensione delle ordinarie regole di trattamento debba necessariamente tradursi anche nella ulteriore limitazione delle somme, dei beni e degli oggetti che egli può ricevere dall’esterno; c) non ricorrono peculiari e differenziate esigenze di ordine e sicurezza (esterne o interne al carcere) ad imporre l’adozione del divieto in questione, con particolare riferimento, da un lato, alla necessità che il detenuto sottoposto al regime speciale non abbia contatti con le imprese esterne presso le quali acquista generi alimentari al sopravvitto e, dall’altro, alla potenziale pericolosità degli utensili (arnesi da cucina e fornello personale) necessari alla cottura dei cibi atteso che, da una parte, anche i detenuti in regime differenziato possono svolgere (limitati) acquisti di generi alimentari al sopravvitto, non è certo il divieto di cottura dei cibi a risultare congruo e funzionale all’obbiettivo di recidere i possibili contatti con l’esterno che tali acquisti potrebbero comportare, dall’altra, i detenuti in regime differenziato dispongono comunque del fornello personale, anche se possono allo stato utilizzarlo, a differenza degli altri, solo per riscaldare liquidi e cibi già cotti, oppure per preparare bevande e, poiché le esigenze di sicurezza personale dei detenuti trovano protezione in varie altre regole del complessivo regime carcerario, il divieto di cottura dei cibi non è ovviamente idoneo ad aggiungere nulla alla pur indispensabile opera di prevenzione degli utilizzi impropri di tale strumento, che risultino pericolosi per il detenuto stesso o per gli altri.
Tal chè, alla luce delle considerazioni sin qui esposte, la Consulta giungeva a postulare come il divieto di cottura dei cibi, in quanto previsto in via generale ed astratta in riferimento ai detenuti soggetti al regime carcerario di cui all’art. 41-bis ordin. penit., fosse privo di ragionevole giustificazione in quanto incongruo e inutile alla luce degli obbiettivi cui tendono le misure restrittive autorizzate dalla disposizione in questione, esso si pone in contrasto con gli artt. 3 e 27 Cost., configurandosi come un’ingiustificata deroga all’ordinario regime carcerario, dotato di valenza meramente e ulteriormente afflittiva rilevandosi in particolare che la negazione dell’accesso a questa abitudine finisce per configurarsi come una lesione all’art. 27, terzo comma, Cost., presentandosi come un’inutile e ulteriore limitazione, contraria al senso di umanità, dato che non si tratta di affermare, né per i detenuti comuni, né per quelli assegnati al regime differenziato, l’esistenza di un “diritto fondamentale a cuocere i cibi nella propria cella” quanto piuttosto di riconoscere che anche chi si trova ristretto secondo le modalità dell’art. 41-bis ordin. penit. deve conservare la possibilità di accedere a piccoli gesti di normalità quotidiana, tanto più preziosi in quanto costituenti gli ultimi residui in cui può espandersi la sua libertà individuale (analogamente, sentenze n. 122 e n. 20 del 2017, n. 349 del 1993).
Pertanto, veniva dichiarato l’art. 41-bis, comma 2-quater, lettera f), della legge n. 354 del 1975 costituzionalmente illegittimo limitatamente alle parole «e cuocere cibi» mentre veniva assorbita la censura sollevata in relazione all’asserita violazione dell’art. 32 Cost..

Conclusioni

La sentenza in argomento è condivisibile.
In essa, infatti, si sancisce il diritto per i detenuti sottoposti al regime carcerario differenziato di cuocere i cibi nella propria cella che, in quanto tale, non rappresenta alcun modo attraverso il quale poter mettere a repentaglio l’ordine e la sicurezza che lo scrivente rammenta a se stesso, sono le condizioni richieste per poter applicare questo regime carcerario.
Il giudizio su tale pronuncia, dunque, si ripete, non può che essere positivo.

Sentenza collegata

62649-1.pdf 152kB

Iscriviti alla newsletter per poter scaricare gli allegati

Grazie per esserti iscritto alla newsletter. Ora puoi scaricare il tuo contenuto.

Avv. Di Tullio D’Elisiis Antonio

Scrivi un commento

Accedi per poter inserire un commento