Come va interpretata la clausola di non punibilità ex art. 648 ter.1, c. 4, c.p

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La clausola di non punibilità prevista nel comma quarto dell’art. 648 ter 1 cod. pen. a norma della quale “Fuori dei casi di cui ai commi precedenti [….]” va intesa ed interpretata nel senso fatto palese dal significato proprio delle suddette parole e cioè che la fattispecie ivi prevista non si applica alle condotte descritte nei commi precedenti e di conseguenza, l’agente può andare esente da responsabilità penale solo e soltanto se utilizzi o goda dei beni proventi del delitto presupposto in modo diretto e senza che compia su di essi alcuna operazione atta ad ostacolare concretamente l’identificazione della loro provenienza delittuosa.

(Ricorso rigettato)

(Normativa di riferimento: C.p. art. 648 ter.1, c. 4)

Il fatto

Il Tribunale di Lucca, in data 14/02/2018, aveva rigettato l’istanza di riesame contro il decreto di sequestro preventivo emesso nei confronti di B. E. e B. N. in quanto indagati per i reati di cui agli artt. 648 ter 1 (B. E.) e 648 bis cod. pen. (B. N.), il cui delitto presupposto è costituito dal delitto di bancarotta fraudolenta patrimoniale (artt. 216/1 n. 1 e 223/1 R.D. n. 267/1942)

I motivi addotti nel ricorso per Cassazione

Avverso il suddetto provvedimento, gli indagati, per il tramite dei loro difensori, proponeva ricorso per cassazione formulando i seguenti motivi di doglianza: a) violazione dell’art. 49, c. 2, cod. pen. poiché, ad avviso di entrambi i difensori, le condotte di autoriciclaggio e riciclaggio contestate ai ricorrenti erano inidonee ad integrare l’elemento materiale richiesto dagli artt. 648 ter 1 e 648 bis cod. pen. (ostacolo alla identificazione della provenienza delittuosa) in quanto la Guardia di Finanza era perfettamente a conoscenza che il denaro asseritamente riciclato provenisse dalla S. s.r.l. e, nonostante la deduzione effettuata sul punto, il Tribunale aveva omesso completamente di confrontarsi con essa e con i relativi documenti dimostrativi della tesi difensiva; b) violazione dell’art. 43 cod. pen. in quanto il Tribunale, nonostante il motivo di censura dedotto, aveva omesso di motivare sulla carenza dell’elemento psicologico (dolo) in capo a B. N. che, sulla base degli elementi indicati dalla difesa, non poteva avere avuto alcuna consapevolezza della provenienza delittuosa del denaro; c) violazione dell’art. 648 ter 1 cod. pen. per non avere il tribunale motivato sulla censura in ordine alla clausola di non punibilità delle condotte “di mera utilizzazione o godimento personale” dei beni che siano provento di delitto posto che B. E. aveva utilizzato il denaro asseritamente provento di delitto, per estinguere un finanziamento e, quindi, per adempiere ad una propria obbligazione.

Le valutazioni giuridiche formulate dalla Corte di Cassazione

La Cassazione reputava le censure proposte dagli indagati infondate per le seguenti ragioni.

In ordine al primo motivo, gli ermellini reputavano sufficiente il rinvio alla lettura delle pagg. 8 ss dell’ordinanza impugnata in cui il Tribunale, disattendendo la medesima censura dedotta in questa sede, spiega, in modo ampio in punto di fatto e, quindi, incensurabile, le ragioni per cui le complesse e molteplici operazioni poste in essere dai ricorrenti resero “più difficoltosa la tracciabilità“, essendosi trattato «di un insieme fittissimo di attività ed operazioni che hanno avuto ad oggetto somme distratte dai conti della società S. s.r.l. confluite poi su conti esteri personali riconducibili a B. E.» e ciò pertanto bastava ai giudici di legittimità ordinaria per ritenere manifestamente infondata la censura dedotta.

Per quel che riguarda il secondo motivo, la censura – relativa alla sola posizione di B. N.- era stimata anch’essa manifestamente infondata in quanto, contrariamente a quanto dedotto dalla difesa, il tribunale aveva puntualmente disatteso la tesi difensiva (pag. 10 ss) con ampia motivazione che, alla stregua degli elementi fattuali evidenziati, non poteva dirsi apparente e, quindi, censurabile in sede di legittimità.

Anche il terzo motivo, ossia quello relativo alla violazione dell’art. 648 ter 1 cod. pen., veniva considerato infondato alla luce delle seguenti ragioni.

La Cassazione rilevava prima di tutto come la problematica dedotta dalla difesa del ricorrente B. E. afferisse l’interpretazione del comma quarto dell’art. 648 ter 1 cod. pen. a norma del quale «Fuori dei casi di cui ai commi precedenti, non sono punibili le condotte per cui il denaro, i beni o le altre utilità vengono destinate alla mera utilizzazione o al godimento personale» essendo sostenuto dal ricorrente, poichè il denaro proveniente dal delitto presupposto era stato utilizzato per estinguere un finanziamento e, quindi, per adempiere ad una propria obbligazione, che egli non sarebbe punibile a norma del cit. comma quarto.

A fronte di tale considerazione difensiva, i giudici di Piazza Cavour osservavano come il Tribunale avesse disatteso la suddetta censura adducendo la seguente testuale motivazione: «Né può invocarsi, con precipuo riferimento alla condotta di autoriciclaggio contestata a B. E., la disciplina di cui all’art. 648 ter. 1, co. 4, c.p., che esclude la punibilità delle condotte di “mera utilizzazione o godimento personale” dei beni che siano provento del delitto, ostandovi il chiaro incipit della disposizione menzionata. laddove richiede – contrariamente al caso che ci occupa – che non si verta in una tipica ipotesi di autoriciclaggio. L’aver destinato – B. E.- una parte delle somme distratte dalla S. Srl – pervenute da un conto corrente monegasco aperto presso B. C. d. N. – all’estinzione di un debito nei confronti della società R. S. Srl. per procedere alla cancellazione dell’ipoteca su un complesso immobiliare poi ceduto per l’importo dichiarato di C 2.350.000,00, mediante denaro proveniente da società panamense N. I. C., società anonima, non appare integrare l’ipotesi contemplata dall’invocato comma 4 dell’art. 648 ter.1 cp.».

Delineata la vicenda giudiziaria, così come si era venuta a determinare nella fase di merito, la Cassazione, per risolvere questa specifica problematica giuridica sottoposta al suo scrutinio giudiziale, evidenziava in via preliminare come fosse ben noto il dibattito che era sorto in dottrina sulla suddetta clausola all’indomani dell’introduzione nel nostro ordinamento del delitto di autoriciclaggio atteso che la questione, sostanzialmente, era sorta sul significato da attribuire alla locuzione «Fuori dei casi di cui ai commi precedenti».

A questo proposito si evidenziava come fossero state elaborate due tesi interpretative.

Secondo una prima tesi, la norma va interpretata secondo il senso fatto palese dal significato proprio delle suddette parole e cioè nel senso che la suddetta clausola non si applica alle condotte descritte nei commi precedenti: “fuori dei casi [….]” a livello semantico, null’altro significa che la fattispecie prevista è diversa ed autonoma rispetto a quelle previste nei “commi precedenti” e quindi

la norma (vale a dire l’art. 648 ter.1, c. 4, c.p.) – avendo una sua autonomia e ponendosi all’esterno delle fattispecie previste nei commi precedenti – avrebbe una mera funzione, per così dire, “interpretativa” o di puntualizzazione del primo comma, proprio perché alla medesime conclusioni si sarebbe potuti pervenire anche senza di essa sulla base di una semplice interpretazione a contrario.

Infatti, posto che il primo comma sanziona l’impiego, la sostituzione, il trasferimento in attività economiche, finanziarie, imprenditoriali o speculative del denaro, dei beni o delle altre utilità provenienti dal commissione del delitto presupposto, si sarebbe potuto ugualmente pervenire a ritenere non punibile «le condotte per cui il denaro, i beni o le altre utilità vengono destinate alla mera utilizzazione o al godimento personale», proprio perché si tratta di condotte estranee all’area della condotta tipica, e, quindi, non punibili in ossequio al principio di legalità.

A fronte di tale approdo ermeneutico, si contrappone una seconda tesi con cui, contestandosi l’altra nel senso che l’interpretazione appena enunciata renderebbe del tutto superfluo il quarto comma e questo sul presupposto di un evidente lapsus calami in cui il legislatore, per sciatteria, sarebbe incorso, si proponeva di “riscrivere” e leggere la norma, in tale senso: «nei casi di cui ai commi precedenti [….]» in modo tale che, attraverso questa opera di riscrittura ermeneutica, la suddetta clausola fungerebbe come un limite alla condotta descritta e sanzionata nel primo comma, ossia come una causa di non punibilità da applicare tutte le volte in cui la condotta “autoriciclatoria“, di per sé punibile, sia stata finalizzata alla utilizzazione o godimento personale del denaro, dei beni o delle altre attività provento del delitto presupposto.

Chiarito in cosa consistono queste due tesi ermeneutiche, la Cassazione si soffermava sulle conseguenze pratiche che sarebbero discese dall’aderire all’una, piuttosto che all’altra.

In particolare, si metteva in risalto che se la prima tesi – chiaramente restrittiva e di stretta interpretazione – pone il suo baricentro sulla condotta descritta nel primo comma e di conseguenza, una volta che la fattispecie criminosa sia integra in tutti i suoi requisiti, l’agente è sanzionabile penalmente essendo del tutto indifferente che, alla fine delle operazioni di autoriciclaggio, egli abbia “meramente” utilizzato o goduto personalmente dei suddetti beni a titolo personale, invece, la seconda – avente natura estensiva – tende a ricondurre nell’alveo delle condotte non punibili tutte quelle che, seppure rientranti in quelle descritte nel primo comma, abbiano come risultato finale quello della mera utilizzazione o godimento personale dei proventi del reato presupposto.

Ebbene, la Cassazione riteneva di aderire alla prima tesi per le seguenti ragioni.

Innanzitutto, per un verso, non si riteneva percorribile la via interpretativa per effetto della quale il dato letterale (“fuori dei casi […]”) dovrebbe essere sostituito con un’altra ed antitetica locuzione (“nei casi“) perchè il significato della norma finirebbe per essere stravolto sia dal punto di vista semantico-giuridico che di quello dogmatico in modo tale che la suddetta interpretazione violerebbe il canone interpretativo dell’art. 12 delle preleggi, per altro verso, si contestava l’ulteriore assunto (visto anche prima) secondo il quale il quarto comma, ove interpretato nella sua letteralità, sarebbe del tutto inutile posto che la norma in questione, ove attentamente letta, prevede un peculiare caso di non punibilità che, limitando in negativo la fattispecie criminosa di cui al primo comma, ad essa si affianca contribuendo a definirne, in modo più chiaro, l’ambito di operatività.

Posto ciò, gli ermellini facevano presente come, allo scopo di chiarire quanto appena affermato, occorresse in primo luogo procedere all’analisi della struttura normativa della clausola in esame.

Si sottolineava a questo riguardo, una volta evidenziato che il soggetto agente è sempre solo e soltanto chi – a norma del primo comma – abbia commesso o concorso a commettere un delitto non colposo e cioè chi abbia commesso il delitto presupposto mentre il comma quarto dispone la non punibilità delle condotte “per cui il denaro, i beni o le altre utilità vengono destinate alla mera utilizzazione o al godimento personale“, come fosse evidente la differenza tra questi due commi dato che se la condotta del primo comma sanziona la reimmissione nel circuito economico legale dei proventi illeciti, il comma quarto, viceversa, a differenza del primo comma, prevede la “destinazione” alla “mera utilizzazione o al godimento personale“.

Inoltre, circoscrivendo la propria analisi giuridica proprio su questo quarto comma, si chiariva in come potesse ricorrere questa causa di non punibilità nei seguenti termini: a) dal momento che detta causa di non punibilità richiede un uso diretto – da parte dell’agente – dei beni provento del delitto presupposto, come può agevolmente desumersi dall’aggettivazione (“mera“: rectius: semplice; “personale“) dei due sostantivi (“utilizzazione“; “godimento“) che non lascia spazio ad alternative, si giunge a stimare come non possa rientrare nella fattispecie in esame una condotta a seguito della quale l’agente utilizzi i beni in modo indiretto, come, ad esempio, il godimento personale di un bene provento del delitto presupposto che, anzichè essere goduto o utilizzato personalmente (quindi, direttamente), sia stato, prima di essere utilizzato, sottoposto ad operazioni di riciclaggio che ne abbiano concretamente ostacolato l’identificazione della provenienza delittuosa; b) non deve emergere qualsivoglia attività concretamente ostacolativa dell’identificazione della provenienza delittuosa del bene e ciò perché, sulla scorta di quanto stabilito dal testo legislativo: se l’agente – per non essere punibile – deve limitarsi a “destinare” direttamente i beni provento del delitto presupposto a sue esigenze “personali“, ne consegue che tale condotta, conseguente a quella del delitto presupposto, non può e non dev’essere caratterizzata da comportamenti decettivi proprio perché l’agente non avrebbe alcuna necessità “giuridica” di ostacolare l’identificazione della provenienza delittuosa del bene che utilizza, e ciò anche in ragione del fatto che, una volta superato il dogma della non punibilità, ed introdotto il nuovo reato, il legislatore ha ritenuto di conservare per l’autoriciclatore una ristretta area di “privilegio” limitandola, appunto, ai due tassativi casi di cui al quarto comma: mera utilizzazione e godimento personale dei beni provento dal delitto presupposto.

Veniva altresì avvalorata la tesi più restrittiva, anche sotto un profilo teleologico, essendo postulato nella decisione in questione come detta soluzione fosse quella più coerente con la ratio legis giacchè, con l’introduzione del reato di autoriciclaggio, il legislatore ha avuto come obiettivo quello di sterilizzare il profitto conseguito con il reato presupposto e, quindi, di impedire all’agente sia di reinvestirlo nell’economia legale, sia di inquinare il libero mercato ledendo l’ordine economico con l’utilizzo di risorse economiche provenienti da reati: fu proprio questa, infatti, la ragione principale per cui venne messo in discussione e superato il cd. privilegio dell’autoriciclatore e dunque, se l’ubi consistam del reato di autoriciclaggio (e di riciclaggio) consiste nel divieto di condotte decettive finalizzate a rendere non tracciabili i proventi del delitto presupposto, proprio perché, solo ove i medesimi siano reperibili, si può impedire che l’economia sana venga infettata da proventi illeciti che ne distorcano le corrette dinamiche, sarebbe, quindi, paradossale, ad avviso della Corte, consentire all’agente del reato presupposto di effettuare una tipica condotta di autoriciclaggio (rendere non tracciabile i proventi del reato) e, al contempo, consentirgli di usufruire della clausola di non punibilità.

La non punibilità che rileva nel caso di specie trova, infatti, sempre a detta della Cassazione, una sua logica e coerente spiegazione nel divieto del ne bis in idem sostanziale (punizione di due volte per lo stesso fatto) ma solo e solamente a condizione che l’agente si limiti al mero utilizzo o godimento dei beni provento del delitto presupposto senza che ponga in essere alcuna attività decettiva al fine di ostacolarne l’identificazione quand’anche la suddetta condotta fosse finalizzata ad utilizzare o meglio godere dei suddetti beni, e di conseguenza l’art. 648 ter.1 c.p., quindi, è chiaro nella sua ratio: limitare la non punibilità ai soli casi in cui i beni proventi del delitto restino cristallizzati – attraverso la mera utilizzazione o il godimento personale – nella disponibilità dell’agente del reato presupposto, perché solo in tale modo si può realizzare quell’effetto di “sterilizzazione” che impedisce – pena la sanzione penale – la reimmissione nel legale circuito economico; ma, anche sicuramente opportuna propria poichè, con la tassativa indicazione dei casi di non punibilità, si contribuisce a delimitare, in negativo, l’area di operatività di cui al primo comma che, invece, descrive, in positivo, la condotta punibile.

Tal che, alla stregua delle considerazioni sin qui esposte, la Cassazione giungeva a formulare il seguente principio di diritto: “la clausola di non punibilità prevista nel comma quarto dell’art. 648 ter 1 cod. pen. a norma della quale “Fuori dei casi di cui ai commi precedenti [….]” va intesa ed interpretata nel senso fatto palese dal significato proprio delle suddette parole e cioè che la fattispecie ivi prevista non si applica alle condotte descritte nei commi precedenti. Di conseguenza, l’agente può andare esente da responsabilità penale solo e soltanto se utilizzi o goda dei beni proventi del delitto presupposto in modo diretto e senza che compia su di essi alcuna operazione atta ad ostacolare concretamente l’identificazione della loro provenienza delittuosa”.

Posto ciò, declinando tale principio al caso in questione, la Cassazione reputava di disattendere la censura proposta atteso che era pacifico come il denaro derivante dal reato presupposto (bancarotta) fosse stato sottoposto a numerose e complesse operazioni dirette concretamente ad ostacolare l’identificazione della provenienza delittuosa mentre la clausola di non punibilità non poteva essere invocata proprio perché l’utilizzo del denaro, da parte del ricorrente, era indiretto e solo dopo che erano state effettuate condotte decettive finalizzate a concretamente ostacolare l’identificazione della provenienza delittuosa.

La Corte, pertanto, addiveniva a rigettare i ricorsi e condannare i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

Conclusioni

La sentenza si palesa condivisibile in quanto la scelta dell’indirizzo ermeneutico ivi compiuto è il frutto di un ragionamento giuridico ben ponderato e argomentato.

La tesi recepita in questa pronuncia, come tra l’altro evidenziato nella stessa pronuncia qui in commento, è difatti preferibile rispetto all’altra sia perché più aderente al dato testuale dell’art. 648 ter.1, c. 4, c.p., sia perché maggiormente corrispondente alla ratio che connota questa disposizione legislativa ossia, come visto anche prima, rendere non punibili i soli casi di autoriciclaggio in cui i beni proventi del delitto restino cristallizzati – attraverso la mera utilizzazione o il godimento personale – nella disponibilità dell’agente del reato presupposto.

Infatti, non avrebbe senso estendere la portata applicativa di questa causa di non punibilità alle ipotesi in cui l’utilizzazione o il godimento di beni auto riciclati rappresentino l’occasione per continuare a riciclare mentre lo scopo di questa norma è all’opposto quello di sterilizzare il profitto conseguito con il reato presupposto e, quindi, di impedire all’agente sia di reinvestirlo nell’economia legale, sia di inquinare il libero mercato ledendo l’ordine economico con l’utilizzo di risorse economiche provenienti da reati.

Sarebbe tuttavia opportuno che sulla questione intervenissero le Sezioni Unite al fine di evitare  nel futuro l’insorgere di orientamenti nomofilattici contrastanti, e ciò a detrimento della certezza del diritto su un tema così rilevante sotto il profilo penale, e non solo.

Sentenza collegata

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Avv. Di Tullio D’Elisiis Antonio

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