È quanto stabilito dalla quinta sezione penale della Corte di cassazione con sentenza n. 38297 del 24 ottobre 2011. Risponde del reato di ingiuria ex art. 594 del codice penale, la maestra che apostrofa con il termine scioccarellino un proprio alunno, durante la lezione, in presenza degli altri studenti. E a nulla è valsa l’affermazione della ricorrente di “non aver avuto alcuna intenzione di ingiuriare il piccolo alunno, altrimenti avrebbe utilizzato termini più offensivi e avrebbe scelto il momento in cui la vittima era sola”.
La Suprema Corte, confermando quanto sostenuto dai gradi di giudizio precedenti (giudice di pace e tribunale), giunge alla configurazione del reato di ingiuria, partendo dalla potenzialità offensiva dell’espressione usata: essa, secondo gli ermellini, non può essere valutata in astratto, ma piuttosto deve essere contestualizzata ed apprezzata in concreto, in relazione alle modalità del fatto ed a tutte le circostanze che lo caratterizzano. Se l’epiteto in questione appare astrattamente di debole portata offensiva, deve rilevarsi come nel contesto dei fatti esso fu idoneo a manifestare un disprezzo lesivo del decoro della persona, tanto più in quanto diretto verso un minore di età e in presenza dei suoi coetanei (Biancamaria Consales).
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