Rivelazione di segreti scientifici o industriali e responsabilità degli enti

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La Quinta Sezione penale ha affermato che il delitto di rivelazione di segreti scientifici o industriali è configurabile ogniqualvolta sia indebitamente rivelato un segreto riguardante anche una sola parte del processo produttivo, non essendo necessario che la rivelazione stessa attenga a tutte le componenti del prodotto.
Inoltre, in tema di responsabilità da reati degli enti, ha affermato che la nozione di controllo di cui all’art. 5 d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, non coincide con quella di controllo della società delineata dall’art. 2359 cod. civ., ma ricomprende anche l’attività di vigilanza o, comunque, di verifica e incidenza nella realtà economico-patrimoniale della società, sovrapponibile a quella svolta dai sindaci o dagli altri soggetti a ciò formalmente deputati.


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Corte di Cassazione – Sez. V Pen. – Sent. n. 3211 del 26/01/2024

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Indice

1. I fatti

La Corte di Appello di Trieste ha emesso sentenza con la quale ha dichiarato non doversi procedere nei confronti degli imputati per intervenuta prescrizione, rimodulando di conseguenza il trattamento sanzionatorio, e ha confermato nella restante parte la pronuncia di condanna di primo grado, che aveva ritenuto la loro condotta riconducibile al delitto di accesso abusivo ad un sistema informatico, nonché ai delitti di rivelazione del segreto professionale e di segreti scientifici o industriali.
I ricorrenti hanno impugnato la detta sentenza, denunciando svariate doglianze di natura sia processuale che sostanziale.
Andiamo a vedere, per ciò che in questa trattazione rileva, le questioni affrontate dalla Suprema Corte in relazione al ricorso presentato.

2. Rivelazione di segreti scientifici o industriali: l’analisi della Cassazione

La Corte di Cassazione, nell’analizzare il ricorso, osserva, per ciò che concerne il delitto di cui all’art. 623 cod. pen. (rivelazione di segreti scientifici o industriali) che la nozione di segreti commercialinon è assimilabile a quella, pur avente medesima denominazione, di cui all’art. 98 d.lgs. 10 febbraio 2005 n. 30 (codice della proprietà industriale) che richiede, ai fini della tutela, che le informazioni aziendali e commerciali ed esperienze sulle applicazioni tecnico industriali debbano avere i requisiti di segretezza e rilevanza economica ed essere soggette, da parte del legittimo detentore, a misure di protezione ragionevolmente adeguate, ma comprende, estendendo l’ambito di tutela penale, anche tutte quelle ulteriori informazioni su produzioni industriali e programmi commerciali, pur non rispondenti ai suddetti requisiti normativi, per le quali sia individuabile un interesse giuridicamente apprezzabile al mantenimento del segreto“.
Ancora, la Suprema Corte osserva che il concetto di notizia destinata al segreto va elaborato, sotto l’aspetto soggettivo, con riferimento all’avente diritto al mantenimento del segreto stesso (il titolare dell’azienda) e, sotto l’aspetto oggettivo, all’interesse a che non vengano divulgate notizie attinenti ai metodi (di progettazione, produzione e messa a punto dei beni prodotti) che caratterizzano la struttura industriale e, pertanto, il così detto know-how, vale a dire quel patrimonio cognitivo ed organizzativo necessario per la costruzione, l’esercizio, la manutenzione di un apparato industriale.
Oggetto della tutela penale del reato in questione deve ritenersi, pertanto, il segreto industriale in senso lato, intendendosi per tale quell’insieme di conoscenze riservate e di particolari modus operandi in grado di garantire la riduzione al minimo degli errori di progettazione e realizzazione e dunque la compressione dei tempi di produzione.
Ad avviso della Corte, il delitto di cui all’art. 623 cod. pen. deve ritenersi configurato tutte le volte che venga rivelato indebitamente un segreto che riguardi anche una sola parte del relativo processo produttivo, senza che sia dunque necessario che detta rivelazione attenga a tutte le componenti del prodotto medesimo.
Ciò che assume rilevo nella delimitazione del concetto di notizia destinata al segreto è che vi siano comprese le operazioni fondamentali per la realizzazione dei prototipi di un determinato impianto, operazioni che costituiscano il cuore degli stessi e che siano il frutto della cognizione e della organizzazione della impresa.
La Corte di sofferma anche sulla nozione di “reverse engineering” (ingegneria inversa), cioè un processo che trasforma oggetti reali in modelli informatici per mezzo di sistemi di acquisizione di forme che sono in grado di riprodurre la geometria di un oggetto complesso con grande precisione. Questo comporta che, partendo dai rilievi e dalla digitalizzazione del prototipo fisico di un prodotto si possa risalire alle singole componenti per la realizzazione dello stesso.
Ebbene, ad avviso della Cassazione, questa tecnica è un’attività rientrante nel novero dell’impiego di segreti industriali penalmente sanzionato dall’art. 623 cod. pen., in quanto sarebbe altrimenti facilmente elusa la tutela del segreto industriale riproducendo, anche ripetutamente, il prodotto di un’impresa che ha sviluppato per l’ideazione dello stesso complessi progetti di ricerca.
In pratica, la Corte sottolinea che la tecnica in questione “non è che una sofisticata modalità di copia di un prodotto“.
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3. Nozione di controllo e responsabilità degli enti

Per ciò che concerne la responsabilità degli enti, la Corte di Cassazione osserva che, rispetto alla gestione di fatto della società, soccorrono gli indici presuntivi enucleati dall’art. 2639 cod. civ. ai fini della perimetrazione della categoria dell’amministratore di fatto, affermando in particolare che, ai fini dell’attribuzione di tale qualifica, può essere valorizzato l’esercizio, in modo continuativo e significativo, e non meramente episodico od occasionale, di tutti i poteri tipici inerenti alla qualifica o alla funzione o anche soltanto di alcuni di essi.
Più complessa, invece, risulta l’individuazione delle situazioni nelle quali si può affermare che un soggetto il quale pure non riveste una carica formale sull’ente societario eserciti sullo stesso un controllo in via di fatto.
Secondo una prima interpretazione, di tenore restrittivo, il controllo cui fa riferimento l’art. 5, primo comma, lett. a), ultimo periodo, d.lgs. 231/2001, non potrebbe essere quello del collegio sindacale, dovendo invece lo stesso essere inteso esclusivamente come dominio sulla società secondo il paradigma dell’art. 2359 cod. civ.
Nell’indicata prospettiva, “poiché deve trattarsi di un controllo esercitato di fatto a venire in rilevo sarebbero i reati commessi da soggetti che non abbiano la maggioranza dei voti esercitabili nell’assemblea ordinaria della società ma che possano, nondimeno, esercitarvi un’influenza dominante anche in virtù dei rapporti contrattuali. Talché, valorizzando la connessione richiesta dalla norma tra controllo e gestione, si ritiene che il riferimento è alla figura del c.d. socio tiranno il quale non solo condiziona in modo decisivo la volontà assembleare, ma gestisce anche di fatto in prima persona la società medesima“.
Di qui, ad avviso della Corte, si deve assumere che il riferimento letterale, contenuto nell’art. 5 d.lgs. 231/2001, ai soggetti che esercitano di fatto “la gestione e il controllo” degli enti, deve essere interpretato come riferito non alla funzione di vigilanza ma ad un ruolo di governo e di “penetrante dominio” sulla società.
Tuttavia, questa impostazione interpretativa non è condivisibile dal Collegio, in quanto “non chiarisce perché il termine ‘controllo’ di cui al richiamato art. 5 debba essere riferito in via esclusiva alla nozione di controllo della società di cui all’art. 2359 cod. civ. e non ricomprendere anche un’attività di controllo e di vigilanza o, comunque, di verifica ed incidenza nella realtà economico patrimoniale della società, sovrapponibile a quella dei sindaci o degli altri soggetti formalmente deputati a tali attività“.
L’obiettivo del legislatore, infatti, è stato quello di colpire con sanzioni amministrative di carattere economico ed interdittivo l’attività sempre più insidiosa anche dal punto di vista criminale posta in essere dalla società mediante soggetti che, a vario titolo, operano per raggiungere le finalità, talora illecite, che essa si propone.
La Corte, inoltre, precisa che, “a fronte della commissione di reati nell’interesse o a vantaggio dell’ente da parte di soggetti che rivestano all’interno di esso in via di fatto ruoli di gestione e controllo, non può operare, per elidere la responsabilità dell’ente medesimo, la previsione dettata dall’art. 6 d.lgs. 231/2001, poiché, se la società è gestita e controllata in modo occulto, ciò significa che la stessa non si è dotata, se non sul piano meramente formale, di assetti organizzativi per la prevenzione dei reati, che dunque non possono considerarsi adeguati, anche ove gli stessi siano conformi ai codici di comportamento approvati dal Ministero della giustizia“.

Riccardo Polito

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