Risponde di maltrattamenti in famiglia chi sottopone il coniuge a violenze psicologiche

Redazione 15/05/14
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Lucia Nacciarone

Non è necessario, quindi, ai fini della integrazione del reato, che la vittima venga sottoposta a violenze fisiche; infatti, anche la sola sofferenza morale è idonea a lederne l’integrità.

Con queste motivazioni la Cassazione (sent. n. 19674 del 13 maggio 2014) ha confermato la condanna a carico di uomo, reo di aver fatto vivere la consorte (clandestina in Italia) in una condizione di quasi schiavitù, rendendola oggetto di violenze e minacce psicologiche.

La donna, che viveva in un piccolo appartamento col marito ed i suoceri, era trattata come una domestica; per la difesa, ciò avveniva in virtù del fatto che elle fosse originaria di un Paese con tradizioni e cultura diversi dal nostro, che in un certo senso consentono tali abitudini in un contesto famigliare.

Ad avviso della Suprema Corte, «il reato di maltrattamenti in famiglia è integrato dalla condotta dell’agente che sottopone la moglie ad atti di vessazione reiterata e tali da cagionarle sofferenza, prevaricazione ed umiliazioni, in quanto costituenti fonti di disagio continuo ed incompatibile con normali condizioni di esistenza. Rilevano, entro tale prospettiva, non soltanto le percosse, lesioni, ingiurie, minacce, privazioni ed umiliazioni imposte alla vittima, ma anche gli atti di disprezzo e di offesa arrecati alla sua dignità, che si risolvano nell’inflizione di vere e proprie sofferenze morali (…). Non rileva, invece, il connotato culturale estraneo a quello europeo, ossia non assumono alcuna incidenza in senso scriminante eventuali pretese o rivendicazioni legate all’esercizio di particolari forme di potestà in ordine alla gestione del proprio nucleo familiare».

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