Rifiuto o ritardo di obbedienza di un militare o agente della forza pubblica

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Il delitto di rifiuto o ritardo di obbedienza commesso da un militare o da un agente della forza pubblica (art. 329 c.p.)

     Indice

  1. Inquadramento generale della fattispecie delittuosa
  2. Il delitto di rifiuto o ritardo di obbedienza commesso da un militare o da un agente della forza pubblica (art. 329 c.p.)

1. Inquadramento generale della fattispecie delittuosa

La fattispecie delittuosa di rifiuto o ritardo di obbedienza commesso da un militare o da un agente della forza pubblica (art. 329 c.p.) è disciplinata dal libro secondo del codice penale – dei delitti in particolare – titolo II – dei delitti contro la pubblica amministrazione – capo I – dei delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione. Si tratta di un delitto procedibile d’ufficio – art. 50 c.p.p. – di competenza del tribunale monocratico – art. 33 ter c.p.p. -. Non sono consentiti né l’arresto, né il fermo di indiziato delitto. Per quanto riguarda le misure cautelari personali è consentita la sospensione dall’esercizio di un pubblico ufficio o servizio – art. 289 c.p.p. -.

La norma è posta a presidio del corretto funzionamento della Pubblica Amministrazione. Invero, sono censurati quei comportamenti che non garantiscono il tempestivo intervento  determinano della forza pubblica.

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2. Il delitto di rifiuto o ritardo di obbedienza commesso da un militare o da un agente della forza pubblica (art. 329 c.p.)

L’art. 329 c.p., testualmente, dispone che: “Il militare (2 c.p.m.p.) o l’agente della forza pubblica, il quale rifiuta o ritarda indebitamente di eseguire una richiesta fattagli dall’Autorità competente nelle forme stabilite dalla legge, è punito con la reclusione fino a due anni”.

La norma in scrutinio disciplina una variante del delitto di rifiuto di atti d’ufficio. Omissione (art. 328 c.p.) scostandosi da quest’ultima, soltanto, per il soggetto agente, militare o da un agente della forza pubblica.

Sul punto leggi: Abuso d’ufficio (art. 323 c.p.) e Rifiuto di atti d’ufficio. Omissione (art. 328 c.p.)

L’art. 329 c.p. è legato, inscindibilmente, alla disposizione di cui all’art. 51 c.p. – esercizio di un diritto o adempimento di un dovere –, che testualmente statuisce: “L’esercizio di un diritto o l’adempimento di un dovere imposto da una norma giuridica o da un ordine legittimo della pubblica Autorità, esclude la punibilità.

Se un fatto costituente reato è commesso per ordine dell’Autorità, del reato risponde sempre il pubblico ufficiale (357) che ha dato l’ordine.

Risponde del reato altresì chi ha eseguito l’ordine, salvo che, per errore di fatto (47, 59, co. 3), abbia ritenuto di obbedire ad un ordine legittimo.

Non è punibile chi esegue l’ordine illegittimo, quando la legge non gli consente alcun sindacato sulla legittimità dell’ordine (55)”.

La causa di giustificazione, se per un verso provvede a scriminare possibili comportamenti attivi della parte agente, dall’altro verso, in merito al rifiuto o all’omissione, scrimina il rifiuto o il ritardo nell’esecuzione di richieste illegittime.

“Integra il reato di cui all’art. 329 c.p. la condotta dell’agente di polizia municipale che, contravvenendo all’ordine del superiore, rifiuta di effettuare un posto di controllo della circolazione stradale e di eseguire sopralluoghi per la verifica di regolarità presso negozi. Ai fini della configurabilità del reato in esame, infatti, tra i poteri coercitivi – intesi come caratterizzati dal legittimo uso della forza in funzione del conseguimento di finalità di natura pubblica precisamente determinate – rientrano quelli connessi con i settori della p.a. riservati per legge alla competenza dei vigili urbani ed inerenti alla funzione istituzionale loro propria” (Cass. Pen., 25 giugno 2009, n. 38119).

Elemento oggettivo

L’art. 329 c.p., per quanto concerne l’elemento materiale della fattispecie delittuosa de qua, considera come fatto punibile il rifiuto di obbedienza agli ordini emanati dalle competenti autorità e quindi si riferisce, quanto agli agenti della forza pubblica non militarizzata, sia dagli ordini impartiti da autorità civili non sovraordinate sia ai superiori gerarchici ai quali il relativo potere è riconosciuto dai singoli ordinamenti interni. “Tra i poteri coercitivi, intesi come caratterizzati dal legittimo uso della forza in funzione del conseguimento di finalità di natura pubblica precisamente determinate, rientrano quelli connessi con i settori della pubblica amministrazione riservati per legge alla competenza dei vigili urbani e inerenti alla funzione istituzionale loro propria, e, in particolare, quelli relativi alla disciplina della circolazione stradale ed al controllo della regolarità degli esercizi commerciali. Pertanto, si rende colpevole del reato di cui all’art. 329 c.p. il vigile urbano che si rifiuta di obbedire agli ordini impartitigli dal superiore gerarchico, comandante del corpo di appartenenza, di instaurare un posto di controllo della circolazione stradale e di eseguire sopralluoghi per la verifica di regolarità presso centri di attività artigiane” (Cass. Pen., 28 settembre 2009, n. 38119).

Per quanto concerne l’elemento soggettivo: “Sono da considerare soggetti attivi del reato di cui all’art. 329 c.p., da un lato, i militari, dall’altro lato, gli agenti della forza pubblica, comprendendo in tale categoria gli agenti di pubblica sicurezza, i carabinieri, le guardie di finanza, i vigili del fuoco, gli agenti di custodia e le persone ad essi equiparate, nonché tutti quegli organismi pubblici non militarizzanti i cui dipendenti sono investiti di potestà di coercizione diretta sulle persone e sulle cose ai fini dell’ordine e della pubblica sicurezza”. (Cass. Pen., 28 settembre 2009, n. 38119). “Tra i soggetti attivi del reato di cui all’art. 329 c.p. sono da ricomprendere, quali agenti della forza pubblica, anche appartenenti alla polizia municipale”. (Cass. Pen., 13 settembre 2006, n. 5393).

“L’art. 329 c.p., annovera distintamente tra i destinatari del precetto penale i militari (delle forze armate) e gli agenti della pubblica. In quest’ultima categoria sono da ricomprendere tutti quegli organismi pubblici non militarizzati i cui dipendenti sono investiti di potestà di coercizione diretta su persone e cose ai fini della tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica e quindi, vi rientrano, per la tipicità delle loro funzioni rivolte alla tutela diretta di quei beni, gli appartenenti al ruolo della polizia di Stato ai quali non spetta più la qualifica di militari” (Cass. Pen., 7 aprile 1997, n. 4259).

Infine, giunti alle conclusioni, in merito al rapporto con altre fattispecie delittuose: “Il reato di rivelazione di segreti inerenti a un procedimento penale (art. 379 bis c.p.) è un reato proprio, nel senso che può essere commesso solo da chi ha “partecipato o assistito”  a un atto del procedimento ovvero da chi ha rilasciato dichiarazioni sulle quali il p.m. ha esercitato il “potere di segregazione” di cui all’art. 391 quinquies c.p.p. Trattasi di reato che si differenzia da quello di cui all’art. 326 c.p. solo per un’estensione dell’ambito dei possibili soggetti attivi, ricomprendendovi anche soggetti sforniti di qualifiche pubbliche, mentre per quanto riguarda l’oggetto della tutela, cioè il segreto processuale, le due norme incriminatrici sono sostanzialmente coincidenti, facendo entrambe riferimento alla nozione di segreto desumibile dall’art. 329 c.p. e riguardando, quindi, solo gli atti di indagine coperti dal segreto, tali dovendosi considerare gli atti “fino a quando l’imputato non ne possa avere conoscenza e, comunque, non oltre la chiusura delle indagini preliminari” (Cass. Pen., 16 febbraio 2011, n. 20105).

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