Raccordo dei principi in tema di responsabilita’ medica con la posizione del paramedico

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A) L’ipotesi della responsabilità della struttura sanitaria è stata notoriamente inserita di recente dagli operatori giudiziari nel cd. “contratto atipico di spedalità”, concluso, a seguito del ricovero, tra il paziente e la struttura medesima; trattasi di un vero e proprio contratto a prestazioni corrispettive “… poiché l’ente, obbligandosi ad eseguire le prestazioni, ha concluso col paziente un contratto d’opera intellettuale.” (Cass. Civ. 21.12.1978 n. 6141; 23.02.2000 n. 2044).
Il detto contratto ha ad oggetto, da parte dell’ente, l’obbligo di porre in essere un’attività sanitaria polivalente, ciò dietro corresponsione di un apposito corrispettivo da parte del paziente; ne consegue che, in caso di lesione della salute di quest’ultimo, la responsabilità contrattuale della struttura non viene mai meno.
 Difatti la “responsabilità sanitaria” è espressione che bene sintetizza l’evoluzione di una disciplina giuridica non più circoscritta alla relazione personale intercorrente tra il medico – paramedico ed il paziente, bensì estesa ad una molteplicità di rapporti che legano il malato ad una struttura sanitaria, all’interno della quale operano una pluralità di professionisti, dell’operato dei quali essa risponde in conformità dei principi generali in tema di obbligazioni e contratti.
 Infatti, il rapporto atipico che lega il paziente all’ente sanitario, non si esaurisce nella mera fornitura di prestazioni di natura “alberghiera”, ma consiste nella messa a disposizione del personale medico e paramedico, nonché nella disponibilità dei medicinali e di tutte le attrezzature necessarie.
Ne consegue che è configurabile in primis una responsabilità autonoma e diretta dell’ente sanitario ove il danno subito dal paziente risulta casualmente riconducibile ad una inadempienza alle obbligazioni ad esso facenti carico.
Così la S.C., in un noto pronunciato: “L’ente ospedaliero risponde a titolo contrattuale per i danni subiti da un privato a causa della non diligente esecuzione della prestazione medica da parte di un proprio dipendente; tale responsabilità discende dall’art. 1228 c.c., secondo cui il debitore che nell’adempimento dell’obbligazione si avvale dell’opera di terzi risponde dei fatti dolosi e colposi di questi” (Cass, civ. 28.5.04 n. 10297; conformi, ex plurimis, Cass. 21 dicembre 1978, n. 6141; Cass. 8 marzo 1979, n. 1716; Cass. 1 marzo 1988, n. 2144; Cass. 4 agosto 1988, n. 6707; Cass. 27 maggio 1993, n. 5939; Cass. 11.4.1995, n. 4152; Cass. 27 luglio 1998, n. 7336; 2 dicembre 1998, n. 12233; Cass. 22 gennaio 1999, n. 589, in motiv.; Cass. 1 settembre 1999, n. 9198; Cass. 11 marzo 2002, n. 3492; Cass. Civ. Sez. Unite n. 9556/2002; Cass., 14 luglio 2003, n. 11001; 21 luglio 2003, n. 11316). 
 
B) A qualificare un inadempimento come quello in parola possono essere d’ausilio le fattispecie di cui agli artt. 1175, 1176, comma 2, e 2236 c.c. (Cass. 10.5.2000 n. 5945; T. Nocera Inferiore, 31-10-2002; App. Catanzaro, sentenza 7.5.2004 n. 298).
Le citate norme civilistiche, negli indirizzi giurisprudenziali prevalenti, assurgono a veri e propri “obblighi di protezione e sicurezza”, disattesi i quali, la responsabilità dell’ente è di palmare evidenza.
 
C) A tutto quanto sopra detto, si aggiunga che la responsabilità dell’Ente sanitario, che finora si è configurata contrattuale, può concorrere con quella di natura extracontrattuale.
 Infatti, secondo l’art. 2049 c.c., la responsabilità ex delicto, essendo fondata sul presupposto della sussistenza di un rapporto di subordinazione tra l’autore dell’illecito ed il proprio datore di lavoro e sul collegamento dell’illecito stesso con le mansioni svolte dal dipendente, prescinde del tutto da una culpa in vigilando del datore di lavoro, ed è quindi insensibile all’eventuale dimostrazione dell’assenza di colpa, con la conseguenza che l’accertamento della non colpevolezza del datore di lavoro non vale ad escluderla (Cass. Civ. 20.06.2001 n. 8381; in particolare, sulla responsabilità medica si vedano C. App. Perugia, 18.3.89; Trib. Latina 4 dicembre 1990; Trib. Genova 12.04.1996,Trib. Spoleto 18.03.1999; Trib. Milano 20.10.1997).
 A tale ultimo proposito, è noto, infatti, che per la dottrina e giurisprudenza costanti, è certamente ammissibile il concorso di pretese, e cioè la deduzione di un fatto che integri al contempo un’ipotesi di responsabilità contrattuale ed aquiliana; ben può, quindi, il Giudice ritenere la responsabilità del convenuto sotto entrambi i profili (Cass. Civ. n. 9705/1997; n. 418/1996).
 Ancora di recente, sulla possibilità del concorso, la S.C., nella sentenza 21-06-1999, n. 6233: “È del tutto legittima, rientrando nel potere dispositivo della parte, la proposizione cumulativa dell’azione contrattuale e di quella extracontrattuale, qualora si assuma che, con un unico comportamento, sono stati violati sia gli obblighi derivanti dal contratto, sia il generale dovere del neminem laedere”.
Come è stato autorevolmente affermato, infatti, nel nostro ordinamento è configurabile il concorso tra la responsabilità contrattuale ed extracontrattuale proprio nei casi, come quello che ci occupa, di un comportamento colposo che importi lesione non soltanto di diritti derivanti da un contratto, ma anche di quelli assoluti o primari quali il diritto alla vita, alla integrità ed incolumità personale (Cass. Civ. 05.02.1999 n. 1158).
 
D) In via ulteriore, non va dimenticato che, come si rammenta che da quasi un trentennio (si veda l’importantissima sentenza della Cass. 21.12.1978 n. 6141), in tema di ripartizione degli oneri probatori nella malpractice, l’accertamento del nesso di causalità rimane assorbito in una vera e propria presunzione di colpa nelle prestazioni mediche e paramediche di facile esecuzione (cd. principio anglosassone della “res ipsa loquitur”, cioè dell’”evidenza circostanziale che crea una deduzione di negligenza”).
 
E) Sempre in via ulteriore, non va trascurato che è sempre invocabile, sul piano probatorio, la presunzione legale di colpa ex art. 1218 c.c., e ciò giusta l’orientamento inaugurato da Cass., sez. un., 30 ottobre 2001, n. 13533, di cui si riporta la massima:
In tema di prova dell’inadempimento di una obbligazione, il creditore che agisca per la risoluzione contrattuale, per il risarcimento del danno, ovvero per l’adempimento deve soltanto provare la fonte (negoziale o legale) del suo diritto ed il relativo termine di scadenza, limitandosi alla mera allegazione della circostanza dell’inadempimento della controparte, mentre il debitore convenuto è gravato dell’onere della prova del fatto estintivo dell’altrui pretesa, costituito dall’avvenuto adempimento, ed eguale criterio di riparto dell’onere della prova deve ritenersi applicabile al caso in cui il debitore convenuto per l’adempimento, la risoluzione o il risarcimento del danno si avvalga dell’eccezione di inadempimento ex art. 1460 (risultando, in tal caso, invertiti i ruoli delle parti in lite, poiché il debitore eccipiente si limiterà ad allegare l’altrui inadempimento, ed il creditore agente dovrà dimostrare il proprio adempimento, ovvero la non ancora intervenuta scadenza dell’obbligazione). Anche nel caso in cui sia dedotto non l’inadempimento dell’obbligazione, ma il suo inesatto adempimento, al creditore istante sarà sufficiente la mera allegazione dell’inesattezza dell’adempimento (per violazione di doveri accessori, come quello di informazione, ovvero per mancata osservanza dell’obbligo di diligenza, o per difformità quantitative o qualitative dei beni), gravando ancora una volta sul debitore l’onere di dimostrare l’avvenuto, esatto adempimento” (conf., Cass., sez. un., 10 gennaio 2006, n. 141; in termini, Cass. 10 maggio 2002, n. 6735, idd., 21 giugno 2004, n. 11488, 28 maggio 2004, n. 10297, 4 marzo 2004, n. 4400; tra la giurisprudenza di merito, Trib. Venezia 20 settembre 2005, Trib. Foggia, 7 aprile 2003).
A mente dell’orientamento in parola, in sostanza, chi agisce per l’inadempimento deve solo limitarsi ad allegarlo in giudizio, dovendo invece il convenuto dimostrare, positivamente e concretamente, di aver adempiuto.
A riprova, si leggano i recenti pronunciati della S.C., che adattano alla materia della responsabilità della struttura sanitaria l’orientamento di Cass., s.u. 13533/2001:
“In base al principio di riferibilità o vicinanza della prova compete al medico, che è in possesso degli elementi utili per paralizzare la pretesa del creditore, provare l’incolpevolezza dell’inadempimento (ossia della impossibilità della prestazione per causa non imputabile al debitore) e la diligenza dell’adempimento” … (Cass. civ. sentenza 11488/2004);
“In applicazione del principio di vicinanza della prova l’ente ospedaliero, che risponde contrattualmente dei fatti illeciti e dolosi dei propri dipendenti, ai sensi dell’art. 1228 c.c., è tenuto a fornire la prova dell’assenza di colpa nell’operato del medico, intesa questa non come ‘prova negativa’, bensì come dimostrazione del fatto che la prestazione è stata eseguita in maniera diligente in conformità delle regole dell’arte” (Cass. sent. 10297/2004).
 
F) Ferme tutte queste premesse, è opportuno raccordare il dibattito sulla malpractice con la responsabilità del personale paramedico, che Cass. Civ. 9638/2000 assimila a quella del medico: ”Infermieri e paramedici, allo stesso livello dei medici, sono “portatori di una posizione di garanzia nei confronti dei pazienti loro affidati” ed hanno il preciso dovere di eseguire prontamente tutte le disposizioni necessarie alla tutela della salute dei malati”
Infatti, l’infermiere ha l’obbligo, si sottolinea nella predetta sentenza, di esercitare la propria attività professionale con prudenza, diligenza, perizia; cioè con l’osservanza di tutte le norme giuridiche, deontologiche e tecniche che sintetizzano la responsabilità professionale.
A riprova, si rammenti che da un punto di vista generale del diritto civile, la colpa è legata a comportamenti che non rispettino i principi della diligenza, della prudenza, della perizia e dell’osservanza di leggi, regolamenti, ordini e discipline. La diligenza e la prudenza vanno valutate in rapporto alla natura delle attività svolte che si è chiamati ad esercitare (art. 1176 c.c.); è chiaro, pertanto, che le attività sanitarie le richiedono entrambe in alto grado. Quanto alla perizia, quella che si richiede al professionista è la perizia media prevista per i professionisti di pari qualificazione ed esperienza. L’art. 2236 c.c. stabilisce che solo nel caso di una prestazione che comporti problemi tecnici di particolare difficoltà, si risponde per la mancanza di perizia, e ciò solo se la colpa è grave.
Ancora, altra giurisprudenza di legittimità aveva ritenuto sussistente la responsabilità diretta contrattuale ex art. 1218 c.c. dell’infermiere, e la responsabilità dell’istituto sanitario ex art. 2049 c.c. (Cass. civ. sez. III, 11 marzo 1998 n. 2698), atteso che tra l’Ente e l’utente si instaura un rapporto contrattuale,   e che le prestazioni dedotte in contratto hanno natura professionale.
In più, ai sensi e per gli effetti del Regolamento concernente l’individuazione della figura e relativo profilo professionale dell’infermiere (Ministero della Sanità – G.U. n. 6 del 09.01.1995), è possibile qualificare lo stesso come operatore sanitario che è responsabile dell’assistenza generale infermieristica. L’infermiere, infatti, partecipa alla identificazione dei bisogni di salute della persona e della collettività, gestisce e valuta l’intervento assistenziale infermieristico, garantisce la corretta applicazione delle prescrizioni diagnostico-terapeutiche.
A conferma di tutto quanto sopra, il codice deontologico approvato dal Comitato Centrale nel febbraio del 1999, dispone che “l’infermiere è tenuto a svolgere la propria attività al servizio della persona e della collettività e nel prendersi cura della persona nel rispetto della vita, della salute, della libertà e della dignità dell’individuo”.
Il predetto codice deontologico guida l’infermiere nello sviluppo dell’identità professionale e nell’assunzione di un comportamento eticamente responsabile ed è, inoltre, uno strumento che informa il cittadino sui comportamenti che può attendersi dallo stesso. Pertanto, quando il mancato adempimento di un dovere comporti per l’utente un danno che obblighi al risarcimento, il coordinatore infermieristico è chiamato a rispondere a titolo di responsabilità civile. L’infermiere, infatti, così come gli altri esercenti le professioni sanitarie, specie se dipendente da strutture pubbliche o private, ha una responsabilità civile di tipo contrattuale ex art. 1218 c.c., che si fonda sul rapporto che viene stabilito fra utente e struttura sanitaria, la quale si serve del proprio personale per l’erogazione dell’assistenza. Infatti l’art. 1218 c.c. che addossa al soggetto causante il fatto incriminato le conseguenze dell’inadempimento in mancanza della prova dell’impossibilità di adempimento dovuta a causa a lui non imputabile, esige sul piano psicologico la sussistenza almeno della colpa del soggetto stesso.
Da ultimo, non si dimentichi, che secondo la l. 10 agosto 2000, n. 251 – Disciplina delle professioni sanitarie infermieristiche, tecniche, della riabilita-zione, della prevenzione – all’art 1 “gli operatori delle professioni sanitarie dell’area delle scienze infermieristiche svolgono con autonomia professionale attività dirette alla prevenzione, alla cura e salvaguardia della salute individuale e collettiva, espletando le funzioni individuate dalle norme istitutive dei relativi profili professionali nonché dagli spe-cifici codici deontologici ed utilizzando metodologie di pianificazione per obiettivi dell’assistenza”.
 
Giorgio Vanacore
avvocato in Napoli
giorgiovanacoreavv@libero.it
 

Vanacore Giorgio

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