Quando la valorizzazione dei precedenti penali dell’imputato per la negazione delle attenuanti generiche non implica il riconoscimento della recidiva

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(Annullamento senza rinvio)

(Riferimenti normativi: C.p. artt. 62 bis, 99)

Il fatto

F. e D. A. erano stati giudicati dal Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Napoli responsabili, il primo, della detenzione di tabacco lavorato estero e, il secondo, della detenzione e del trasporto di tabacco lavorato estero, per entrambi aggravati dalla recidiva specifica reiterata ed infraquinquennale ex art. 99 cod. pen. e pertanto condannati, all’esito del rito abbreviato, lo S. alla pena di due anni e dieci mesi di reclusione ed euro 3.433.334,00 di multa ed il D. alla pena di due anni e dieci mesi di reclusione ed euro 1.500,00 di multa.

Con sentenza emessa il 9 febbraio 2017 la Corte d’appello di Napoli aveva confermato siffatta pronuncia, in particolare condividendo il diniego di riconoscimento delle attenuanti generiche, in ragione dei plurimi, specifici e prossimi precedenti penali degli imputati, giudicati espressione di una più elevata capacità criminale.

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I motivi addotti nel ricorso per Cassazione

Gli imputati avevano proposto congiunto ricorso per cassazione, a mezzo del comune difensore di fiducia, articolando un unico motivo con il quale vengono dedotti la violazione di legge ed il vizio di motivazione in relazione all’art. 157 cod. pen. per non aver la Corte d’appello rilevato l’intervenuta estinzione del reato per prescrizione.

I ricorrenti osservavano come le condanne fossero intervenute per il reato di cui all’art. 291-bis, comma 1, d.P.R. n. 43/1973, punito con la pena da 1 a 5 anni di reclusione e con la multa di 5 euro per ogni grammo convenzionale di prodotto; avuto riguardo alla data di consumazione (19.1.2008), i reati si sarebbero quindi estinti per prescrizione alla data del 19.6.2016 (anni 7 e mesi 6), e dunque in data antecedente non solo alla sentenza di appello ma allo stesso decreto di citazione per il giudizio di secondo grado, emesso in data 9.1.2017.

Ai fini del computo del termine di prescrizione, secondo quanto stabilito dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 35738 del 2010, non rileverebbe la circostanza che sia stata loro contestata la recidiva specifica, reiterata ed infraquinquennale poiché la stessa non era stata applicata dal primo giudice, con scelta condivisa dai giudici di appello.

La questione prospettata nell’ordinanza di rimessione

 La Seconda Sezione della Cassazione, assegnataria del procedimento, ritenuto il ricorso non inammissibile, aveva ravvisato la sussistenza di un contrasto giurisprudenziale sul tema della rilevanza della valorizzazione dei precedenti penali per motivare il diniego di riconoscimento delle attenuanti generiche ai fini del calcolo del tempo necessario alla prescrizione del reato quando la recidiva contestata ed implicitamente riconosciuta non abbia determinato un aumento della pena, e aveva rimesso la questione alle Sezioni Unite ai sensi dell’art. 618, comma 1, cod. proc. pen.

Il quesito sottoposto alle Sezioni Unite era stato formulato nei seguenti termini: «se la recidiva contestata e accertata nei confronti dell’imputato e solo implicitamente riconosciuta dal giudice di merito che, pur non ritenendo di aumentare la pena a tale titolo, abbia specificamente valorizzato, per negare il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, i precedenti penali dell’imputato, rileva o meno ai fini del calcolo del tempo necessario ai fini della prescrizione del reato».

La Sezione remittente aveva osservato in proposito che, a fronte di decisioni secondo cui, quando il giudice abbia escluso, anche implicitamente, la circostanza aggravante della recidiva, non ritenendola in concreto espressione di una maggiore colpevolezza o pericolosità sociale dell’imputato, la predetta circostanza deve ritenersi ininfluente anche ai fini del computo del tempo necessario a prescrivere il reato (da ultimo: Sez. 6, n. 54043 del 16/11/2017, S., Rv. 271714; in senso conforme: Sez. 3, n. 9834 del 17/11/2015 – dep. 2016, omissis, Rv. 266459; Sez. 2, n. 48293 del 26/11/2015, omissis, Rv. 265382; Sez. 2, n. 2090 del 10/01/2012, omissis, Rv. 251776; Sez. 6, n. 43771 del 07/10/2010, omissis, Rv. 248714), vi era una posizione difforme in seno alla giurisprudenza di legittimità la quale ritiene che la recidiva, contestata e accertata nei confronti dell’imputato e solo implicitamente riconosciuta dal giudice di merito, che, pur non ritenendo di aumentare la pena a tale titolo, abbia specificamente valorizzato, per negare il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, i precedenti penali dell’imputato, rileva ai fini del calcolo dei tempo necessario ai fini della prescrizione del reato (così, Sez. 5, n. 34137 del 11/05/2017, omissis, Rv. 270678; Sez. 5, n. 38287 del 06/04/2016, omissis, Rv. 267862; Sez. 2, n. 35805 del 18/06/2013, omissis, Rv. 257298; Sez. 1, n. 26786 del 18/06/2009, omissis, Rv. 244656; Sez. 5, n. 37550 del 26/06/2008, omissis, Rv. 241945).

Con decreto del 6 luglio 2018 il Primo Presidente aveva a sua volta disposto, ai sensi dell’art. 610, co. 2, cod. proc. pen., l’assegnazione del ricorso alle Sezioni Unite, da trattarsi all’odierna udienza pubblica.

Le valutazioni giuridiche formulate dalle Sezioni Unite

Le Sezioni Unite, prima di entrare nel merito della questione proposta, osservavano in via preliminare come dovesse ritenersi l’ammissibilità dei ricorsi, ancorché incentrati su unico motivo, con il quale si lamentava che la Corte di Appello non avesse rilevato l’intervenuta prescrizione del reato, pur in assenza di denuncia dell’appellante nel corso del giudizio di secondo grado posto che, come è noto, le Sezioni Unite hanno statuito che, ove il ricorso per cassazione sia inammissibile, è preclusa la possibilità di rilevare d’ufficio, ai sensi degli artt. 129 e 609, comma 2, cod. proc. pen., l’estinzione del reato per prescrizione, e ciò in quanto l’art. 129 cod. proc. pen. non riveste una valenza prioritaria rispetto alla disciplina della inammissibilità e non attribuisce al giudice dell’impugnazione un autonomo spazio decisorio svincolato dalle forme e dalle regole che presidiano i diversi segmenti processuali; piuttosto esso enuncia una regola di giudizio che deve essere adattata alla struttura del processo e che presuppone la proposizione di una valida impugnazione (Sez. U, n. 12602 del 17/12/2015 – dep. 2016, omissis, Rv. 266818).

Premesso ciò, gli ermellini rilevavano come il quesito sottoposto alle Sezioni Unite, risultando scandito attraverso proposizioni subordinate apparentemente di pari rilevanza, richiedesse un preliminare chiarimento visto che, nonostante si fosse rimarcato che la recidiva è “solo implicitamente riconosciuta” e si fosse posta l’enfasi sulla mancata esplicazione dell’effetto diretto di essa, il denunciato contrasto non atteneva agli effetti connessi al mancato aumento di pena, che pure sarebbe imposto da una recidiva riconosciuta, e neppure all’ammissibilità di una motivazione implicita, quale giustificazione del riconoscimento della recidiva, o alla derivabilità dell’effetto estintivo da una recidiva implicitamente riconosciuta.

L’analisi delle motivazioni, che avevano animato il contrasto interpretativo, al contrario, ad avviso delle Sezioni Unite, evidenzia che la controversia verte sulla ammissibilità di un riconoscimento della recidiva che pretenda di emergere dalla mera evocazione dei precedenti penali come ragione del diniego delle attenuanti generiche, e quindi sulla rilevanza che legittimamente può assumere il giudizio di (dis) valore che, incentrato sui precedenti penali dell’imputato, è elaborato con riferimento alla richiesta di riconoscimento delle attenuanti generiche stante il fatto che, nel caso di specie, non si pone in discussione la necessità che, per poter incidere sui termini di prescrizione, la recidiva debba essere ritenuta, ma si argomenta in ordine ai segni che ne attestano l’avvenuto riconoscimento, rintracciandoli nell’aver tenuto conto dei precedenti penali per escludere la concessione delle attenuanti generiche, giungendo poi a derubricare in mero errore il mancato aumento della pena (cfr. Sez. 2, n. 35805 del 18/06/2013, omissis, Rv. 257298; Sez. 5, n. 38287 del 06/04/2016, omissis, Rv. 267862); in altri termini, si sostiene in sede nomofilattica che, «nella fattispecie, la recidiva non solo era stata contestata ma era stata anche positivamente ed esplicitamente accertata e il giudice del merito aveva solamente ritenuto, discrezionalmente, di non infliggere alcun aumento di pena a tale titolo, peraltro valorizzando specificamente i precedenti penali dell’imputato per negare il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche» (Sez. 5, n. 34137 del 11/05/2017, omissis, Rv. 270678).

Pertanto, alla luce di ciò, veniva ribadito, anche in questa occasione, che le diverse tesi si confrontavano sulla possibilità di ritenere riconosciuta la recidiva per il fatto che il giudice aveva tenuto conto dei precedenti penali dell’imputato per negare le attenuanti generiche, valendo ciò come implicita affermazione di sussistenza dei costrutti della circostanza aggravante e risultando quindi consequenziale la inserzione del mancato aumento della pena nella categoria dell’errore o invece del coerente corollario.

Così definito il tema del contrasto giurisprudenziale, il Supremo Consesso reputava necessario innanzitutto svolgere qualche considerazione sul rilievo che deve riconoscersi alla contestazione della recidiva posto che, in talune decisioni, seppur non delle più recenti, il rilievo accordato alla contestazione condizionava le conclusioni cui si era pervenuti rilevandosi al contempo come ciò fosse accaduto quando si affermava che la recidiva contestata e non esclusa deve ritenersi sussistente e quindi produttiva di effetto (ad esempio, quello ostativo di cui all’art. 172, settimo comma cod. pen.: Sez. 5, n. 37550 del 26/06/2008, omissis, Rv. 241945).

Detto questo, prescindendosi dalla relazione corrente tra contestazione della recidiva e diritto di difesa dell’imputato, la Corte reputava di dover porre a fuoco la circostanza che l’attribuzione di una valenza decisiva alla contestazione, tale da far ritenere consolidato il suo avallo da parte del giudice solo che questi non abbia preso esplicitamente una posizione negatoria, mette radici nella temperie normativa e culturale che attribuiva alla recidiva il valore di status personale – ‘indicato‘ dal certificato del casellario giudiziale e non bisognevole della mediazione valutativa del giudice -, dal quale conseguiva con automatismo indefettibile l’aumento della pena (salvo le ipotesi di cui all’art. 100 cod. pen.) e, in ragione di tale presupposto, veniva affermato, ad esempio, che non è violato il divieto della reformatio in peius quando il giudice di appello, in mancanza del gravame del Pubblico Ministero, si limiti a rettificare la motivazione e non già il dispositivo della sentenza di primo grado, rilevando l’omesso calcolo della recidiva contestata e mai esclusa (cfr. Sez. 5, n. 1095 del 07/07/1967, omissis, Rv. 105546) o che i precedenti penali costituiscono un elemento cui necessariamente consegue un aumento di pena a titolo di recidiva (cfr. Sez. 2, n. 15 del 12/01/1968, omissis, Rv. 107812) fermo restando che, sul piano degli oneri motivazionali, l’impostazione si traduceva nel riconoscimento della necessità che il giudice motivasse le proprie determinazioni sul trattamento sanzionatorio solo in caso di recidiva facoltativa ex art. 100 cod. pen. (abrogato dal dl. 11 aprile 1974, n. 99) e neppure in ogni caso ma solo quando avesse ritenuto di escludere l’aumento della pena (ex multis, Sez. 4, n. 1841 del 15/11/1968 – dep. 1969, omissis, Rv. 110319).

Preso atto di ciò, una volta fatto presente che, con la novella del 1974, la recidiva divenne facoltativa in ogni sua specie, si osservava come tuttavia la giurisprudenza di legittimità avesse elaborato posizioni non coincidenti quanto al campo di esercizio del potere discrezionale connesso al carattere facoltativo della circostanza.

Difatti, secondo l’orientamento prevalente (contrastato ad esempio da Sez. 5, n. 79 del 21/08/1975 – dep. 1976, omissis, Rv. 131754; Sez. 1, n. 4975 del 13/01/1976, omissis, Rv. 136903; Sez. 1, n. 6127 del 31/01/1979, omissis, Rv. 142451), la nuova disciplina dava facoltà al giudice non di escludere la recidiva, bensì di non apportare gli aumenti di pena che da essa dovrebbero conseguire (Sez. 2, n. 10248 del 12/04/1983, omissis, Rv. 161468; Sez. 3, n. 435 del 29/09/1978 – dep. 1979, omissis, Rv. 140816; Sez. U, n. 9148 del 17/04/1996, omissis, Rv. 205543, in motivazione) così come in tempi più recenti era stato affermato che «… la nuova disciplina della recidiva, di cui alla legge 7 giugno 1974, n. 220, ha sancito soltanto la facoltatività dell’aumento di pena e non anche degli altri effetti penali connessi alla recidiva (…).

Tal che se ne faceva conseguire come fosse ormai ius receptum che il giudice è vincolato ad applicare la recidiva, una volta accertato che sia stata correttamente contestata mentre la discrezionalità riguarda solo la scelta di aumento o meno di pena, fermo restando che, in ogni caso, la recidiva ha gli altri effetti penali per essa stabiliti dalla legge, vale a dire quegli effetti che vanno dal divieto di misure previste dal diritto sostanziale a quelle previste dall’ordinamento giudiziario – quali la sospensione condizionale della pena, l’oblazione speciale, la liberazione condizionale, la riabilitazione, la prescrizione – e, infine, a quelle processuali, quale quella della preclusione della richiesta di pena ex art. 444 cod. proc. pen., comma 1 bis.

Si denotava oltretutto come fosse altrettanto diritto vivente quello secondo cui la recidiva rileva agli effetti penali solo in quanto sia stata ritenuta dal giudice del processo di cognizione dopo essere stata regolarmente contestata, attesa la sua natura di “aggravante”» (Sez. 6, n. 18302 del 27/02/2007, omissis, Rv. 236426).

La conseguenza della sussistenza di un simile approdo ermeneutico, rilevava la Corte nella decisione in commento, è che, una volta contestata la recidiva, ove non motivatamente esclusa, non poteva considerarsi indice di un giudizio di insussistenza della stessa il mancato aumento della pena.

Da ciò si deduceva come un consistente filone giurisprudenziale avesse per lungo tempo inteso la recidiva come uno status personale, da ricavare dalla lettura del certificato giudiziale, e pertanto l’aveva ritenuta obbligatoria quanto all’an, ove ricorrenti i necessari precedenti penali, e facoltativa nell’effetto diretto (ma non in quelli indiretti).

Gli ermellini però evidenziavano come si fosse trattato, tuttavia, di un orientamento ormai abbandonato poiché la riforma della recidiva recata dalla legge 5 dicembre 2005, n. 251 aveva oggettivamente fatto da volano ad un’evoluzione della disciplina verso tutt’altra direzione, e ciò a partire dalla sentenza n. 192/2007 emessa dalla Corte costituzionale (che dichiarò inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 69, quarto comma, del codice penale, come sostituito dall’art. 3 della legge 5 dicembre 2005, n. 251), in cui, tra le cui righe, poteva leggersi anche il rimprovero mosso ai giudici remittenti, per aver interpretato l’art. 99, quarto comma, cod. pen., e quindi il divieto di prevalenza delle circostanze attenuanti concorrenti con la recidiva qualificata, muovendo da un riflesso antico, quello che conduceva a ritenere obbligato il riconoscimento della recidiva (reiterata, ma non solo) ove presenti pertinenti precedenti penali.

Pertanto, alla stregua di tale rilievo, la Corte costituzionale sollecitava i giudici a valutare la diversa interpretazione emersa all’indomani della riforma la quale segnalava come in forza del nuovo regime la recidiva reiterata fosse divenuta obbligatoria unicamente ove concernente uno dei delitti indicati dal citato art. 407, comma 2, lett. a) cod. proc. pen., ogni altra specie risultando ancora esito di un giudizio discrezionale.

Proseguendo questa disamina di ordine giurisprudenziale, si sottolineava come i successivi interventi fossero stati ricalcati su questa prima pronuncia (Corte cost. n. 198 e n. 409 del 2007; n. 33, n. 90, n. 91, n. 193 e n. 257 del 2008; n. 171 del 2009), motrice del convergente indirizzo del giudice di legittimità, infine prevalso su quello di segno opposto, emerso anche a fronte della nuova disciplina.

Sempre in ordine a questo excursus ermeneutico, si osservava come nel 2010 le Sezioni Unite avessero qualificato la recidiva come circostanza aggravante inerente alla persona del colpevole, ribadendo che essa va obbligatoriamente contestata dal pubblico ministero perché ciò è imposto dal principio del contraddittorio ma rimarcando al contempo che essa può non essere ritenuta configurabile dal giudice (a meno che non si tratti dell’ipotesi di recidiva reiterata prevista dall’art. 99, comma quinto, cod. pen.: previsione attinta dalla successiva dichiarazione di illegittimità costituzionale pronunciata con sentenza n. 185/2015) e puntualizzando che al giudice spetta di verificare in concreto se la reiterazione dell’illecito sia sintomo effettivo di riprovevolezza della condotta e di pericolosità del suo autore, avuto riguardo alla natura dei reati, al tipo di devianza di cui essi sono il segno, alla qualità e al grado di offensività dei comportamenti, alla distanza temporale tra i fatti e al livello di omogeneità esistente tra loro, all’eventuale occasionalità della ricaduta e a ogni altro parametro individualizzante significativo della personalità del reo e del grado di colpevolezza, al di là del mero e indifferenziato riscontro formale dell’esistenza di precedenti penali (così Sez. U, n. 35738 del 27/05/2010, omissis, Rv. 247839).

Si evidenziava oltre a ciò che, con un successivo intervento, il massimo organo di nomofilachia avesse descritto definitivamente la totalità dello spazio coperto dall’onere motivazionale, puntualizzando che esso ricorre sia nell’ipotesi che la recidiva venga riconosciuta, sia nel caso che essa venga esclusa (Sez. U, n. 5859 del 27/10/2011, omissis, Rv. 251690) risultando tale dovere insito nei principi affermati nella sentenza n. 192/2007 della Corte costituzionale e in quella n. 35738/2010 delle Sezioni Unite.

Inoltre, si faceva altresì presente come uno specifico riferimento all’esigenza che il giudice offra comunque una adeguata motivazione a supporto della propria valutazione discrezionale fosse rinvenibile anche in Sez. U, n. 20798 del 24/02/2011, omissis, Rv. 249664 e nella più recente pronuncia Sez. U, n. 31669 del 23/06/2016 omissis, Rv. 267044, là dove era stato asserito che proprio a tale tipo di valutazione discrezionale si correla uno specifico obbligo motivazionale del giudice.

L’orientamento così espresso, poi, aveva trovato piena adesione anche nella giurisprudenza delle Sezioni semplici proprio sulla considerazione per cui l’applicazione dell’aumento di pena per effetto della recidiva contestata attiene all’esercizio di un potere discrezionale del giudice che deve essere motivato (tra le altre, Sez. 6, n. 14550 del 15/03/2011, omissis, Rv. 250039; Sez. Fer., n. 35526 del 19/08/2013, omissis, Rv. 25671; Sez. 6, n. 16244 del 27/2/2013, omissis, Rv. 256183; Sez. 3, n. 19170 del 17/12/2014 – dep. 2015, omissis, Rv. 263464; Sez. 3, n. 33299 del 16/11/2016 – dep. 2017, omissis, Rv. 270419; e già in precedenza Sez. 2, n. 19557 del 19/03/2008, omissis, Rv. 240404; Sez. 5, n. 46452 del 21/10/2008, omissis, Rv. 242601; Sez. 4, n. 21523 del 23/04/2009, omissis, Rv. 244010; Sez. 6, n. 42363 del 25/09/2009, omissis, Rv. 244855) sicché il superamento di ogni dubbio interpretativo, circa il carattere e gli esatti termini della facoltatività della recidiva sortita dalla riforma del 2005, conseguito in virtù dei ripetuti interventi della Corte costituzionale e dei consonanti arresti delle Sezioni Unite, consentiva di affermare, ad avviso della Corte, che, nel vigente quadro normativo, la recidiva è sempre facoltativa, e che tale facoltatività investe il piano del suo riconoscimento mentre risulta estranea al piano degli effetti, che si dispiegano o rimangono inespressi a seconda che l’aggravante sia ritenuta o esclusa, salvo riemergere allorquando essi devono essere modulati fermo restando che, dal canto suo, il giudice di merito, proprio perché investito di un potere discrezionale, ha l’obbligo di spiegare la sua scelta fornendo adeguata motivazione in ordine ai due profili evidenziati di una “maggiore pericolosità del reo” e di una “più accentuata colpevolezza per il fatto“, secondo la precisazione operata da S.U. Calibè, essendo cosui chiamato a rendere motivazione in ordine non già all’an dell’effetto diretto, che consegue indefettibile in caso di riconoscimento della circostanza, ma in ordine alla sua entità, ovvero alla misura dell’aumento di pena e infine in ordine alla relazione con concorrenti circostanze eterogenee, quando non soggetta a vincolo normativo.

Da ciò, ossia da tale diritto vivente, se ne faceva conseguire che la contestazione della recidiva, onere dell’organo dell’accusa che intenda farne oggetto di decisione giurisdizionale, non consolida alcunché dovendosi fare riferimento alle statuizioni adottate dal giudice mentre, se la facoltatività della recidiva si traduce in un obbligo motivazionale che, ove inadempiuto, apre all’ipotesi di una violazione di legge o di un vizio di motivazione, di certo l’avvenuta contestazione non può prendere il posto di una statuizione mancante.

Chiarito ciò, si reputava altresì utile rimarcare quale fosse la funzione assolta nel vigente sistema dalla facoltatività della recidiva dato che essa si inscrive nel processo di conformazione del diritto penale nazionale alle funzioni che la Carta costituzionale assegna alla pena, tra le quali assume preminenza la finalità rieducativa, che implica «un costante “principio di proporzione” tra qualità e quantità della sanzione, da una parte, e offesa, dall’altra» (Corte cost. n. 341/1994).

Orbene, si osservava a tale riguardo che, con la sentenza n. 183 del 2011, che aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 62-bis cod. pen. come modificato dalla legge “ex Cirielli” nella parte in cui non consentiva la concessione delle attenuanti generiche al recidivo reiterato, autore di delitti di cui all’art. 407, comma 2, lett, a), cod. proc. pen., puniti con la pena della reclusione non inferiore nel minimo a cinque anni, in considerazione della condotta susseguente al reato, si era affermato che siffatta preclusione si ponesse in insanabile contrasto con i principi fissati dagli artt. 3 e 27, terzo comma Cost. sancendo una presunzione del tutto irragionevole e discriminatoria, nonché contraria alla fondamentale finalità rieducativa della pena, in quanto ciecamente livellatrice delle diverse situazioni personali e dei diversi indici di risocializzazione inerenti i singoli condannati.

Del resto, anche in occasione della dichiarazione di illegittimità costituzionale per violazione del principio di proporzionalità della pena ex art. 27, terzo comma, Cost., del quarto comma dell’art. 69 cod. pen., nella parte in cui prevedeva il divieto di prevalenza dell’attenuante prevista (all’epoca) dal comma 5 del citato art. 73 del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, in materia di stupefacenti (sent. n. 251 del 2012 C. Cost.); della dichiarazione di illegittimità costituzionale dello stesso quarto comma dell’art. 69 cod. pen. nella parte in cui prevedeva il divieto di prevalenza della circostanza di cui all’art. 648, secondo comma, cod. pen. (sent. 105 del 2014) e del divieto di prevalenza dell’attenuante di cui all’art. 609-bis, terzo comma, cod. pen. sulla recidiva reiterata (sent. n. 106 del 2014); della dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’automatismo relativo all’attenuante della collaborazione nell’ambito dei procedimenti per fatti di narcotraffico (sentenza n. 74 del 2016), i motivi di incostituzionalità erano stati individuati dalla Consulta nel contrasto della presunzione assoluta di cui all’art. 69, quarto comma cod. pen. con i principi di uguaglianza e parità di trattamento potendosi giungere a pene identiche, per situazioni di rilevo penale diverso, con il principio della finalità rieducativa della pena, introducendosi un trattamento punitivo non individualizzato, nonché con il principio di proporzionalità ed offensività, precludendo al giudice di rapportare la risposta sanzionatoria alla specifica gravità del fatto concreto.

Di particolare interesse, sotto il profilo in considerazione, a parere delle Sezioni Unite, è la sentenza n. 185 del 201 in cui i giudici costituzionali, nel dichiarare l’illegittimità del comma 5 dell’art. 99 cod. pen. limitatamente alle parole “è obbligatorio e“, con riferimento ai principi di uguaglianza e ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost., e ai principi di proporzionalità e finalità rieducativa della pena, sanciti dall’art. 27 Cost., avevano sottolineato come il rigido automatismo sanzionatorio, cui dava luogo la norma censurata collegando l’automatico e obbligatorio aumento di pena esclusivamente al dato formale del titolo di reato commesso, fosse del tutto privo di ragionevolezza perché «inadeguato a neutralizzare gli elementi eventualmente desumibili dalla natura e dal tempo di commissione dei precedenti reati e dagli altri parametri che dovrebbero formare oggetto della valutazione del giudice prima di riconoscere che i precedenti penali sono indicativi di una più accentuata colpevolezza e di una maggiore pericolosità del reo».

Invece, quanto alla finalità rieducativa della pena, i giudici della Consulta, richiamando le prime pronunce sul tema (sent. n. 192 del 2007 e n. 183 del 2011), avevano affermato che la previsione di un obbligatorio aumento di pena, legato solamente al dato formale del titolo di reato, senza alcun accertamento della concreta significatività del nuovo episodio delittuoso – in rapporto alla natura e al tempo di commissione dei precedenti e avuto riguardo ai parametri indicati dall’art. 133 cod. pen. – sotto il profilo della più accentuata colpevolezza e della maggiore pericolosità del reo, violasse anche l’art. 27, terzo comma, Cost. che implica “un costante principio di proporzione tra qualità e quantità della sanzione, da una parte, e offesa, dall’altra” (sentenze n. 341 del 1994 e n. 251 del 2012).

Da ultimo, nel dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 69, quarto comma, cod. pen. nella parte in cui prevede il divieto di prevalenza della circostanza attenuante di cui all’art. 219, terzo comma, R.D. 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell’amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa) sulla recidiva di cui all’art. 99, quarto comma, cod. pen., la Corte costituzionale aveva esplicitato la relazione, che corre tra la necessità di individualizzazione della pena in funzione della rieducazione del condannato e il principio di offensività del fatto, in sostanza escludendo che i due aspetti della colpevolezza e della pericolosità possano assumere, nel processo di individualizzazione della pena, una rilevanza tale da renderli comparativamente prevalenti rispetto al fatto oggettivo (sent. n. 205/2017).

Da ciò se ne inferiva come un uso non adeguatamente sorvegliato della recidiva minacciasse la funzione rieducativa della pena proprio per il rischio di eccedere la pena proporzionata e, per questa ragione, la motivazione deve restituire la valutazione che il giudice ha compiuto in termini che comunichino il difficile e peculiare itinerario percorso attraverso l’evidenziazione tanto degli elementi assunti ad indicatori quanto del traguardo dell’accertamento.

Se ne faceva da ciò conseguire, come logico corollario, l’assoluta centralità della motivazione la quale, ad avviso della Corte, può consistere anche in una motivazione implicita.

Si rilevava a tal riguardo come la giurisprudenza di legittimità e la dottrina non dubitassero, in generale, della legittimità del ricorso alla motivazione implicita che si configura non già come idealtipo strutturalmente diverso e ‘scalare‘, fronteggiante quello della motivazione ‘esplicita‘, ma piuttosto come una particolare tecnica espositiva caratterizzata dal proporre un’argomentazione, espressa a giustificazione di una determinata statuizione, in funzione di giustificazione anche di altra statuizione, sul presupposto di una stretta conseguenzialità logica o giuridica tra quanto affermato a riguardo della prima e quanto valevole per la seconda in quanto mancando nella motivazione implicita il testo grafico ma non il discorso argomentativo, ove ricorra una motivazione di questo genere, non può mai parlarsi di omessa motivazione mentre semmai può emergere un vizio di motivazione nel senso che, solo ove manchi il menzionato nesso di consequenzialità logica e giuridica, si determina una violazione di legge per l’inesistenza della motivazione (cfr. Sez. 6, n. 33705 del 15/06/2016, omissis, Rv. 270080).

Precisato ciò, gli ermellini evidenziavano altresì come il ricorso da parte del giudice alla motivazione implicita trovasse riscontro nella disciplina processuale là dove essa impone che la sentenza contenga “una concisa esposizione dei motivi di fatto e di diritto” su cui è fondata (art. 544, primo comma e 546, primo comma, lett. e, cod. proc. pen.) così come si prestasse a tale scopo la stessa previsione della regola della redazione della sentenza ‘subito‘ dopo la sua deliberazione depone per la legittimità del ricorso a modalità di argomentazione funzionali al rispetto della regola della subitaneità.

Si chiariva oltre tutto come la motivazione implicita fosse altresì compatibile con il diritto ad un equo processo, come previsto dall’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, secondo la interpretazione datane dalla Corte europea dei diritti dell’uomo (cfr. Corte Edu, Quarta Sezione, 24.07.2015, Chipani ed altri c. Italia, nella quale si è ritenuto violato l’art. 6 della Convenzione per non essere stata resa motivazione del rigetto della questione pregiudiziale posta dai ricorrenti, ma solo per uno dei due profili segnalati, l’altro essendo stato oggetto di motivazione implicita) mentre, in ragione dell’ammissibilità della motivazione implicita, è stato ritenuto in sede nomofilattica come non sia censurabile in sede di legittimità una sentenza per il suo silenzio su una specifica deduzione prospettata con il gravame, quando risulti che la stessa sia stata disattesa dalla motivazione della sentenza complessivamente considerata (Sez. 1, n. 27825 del 22/05/2013, omissis, Rv. 256340).

Oltre a quanto sin qui esposto, veniva messo in risalto il fatto che, in caso di diniego delle circostanze attenuanti generiche, la motivazione può implicitamente ricavarsi anche mediante il raffronto con le considerazioni poste a fondamento del loro avvenuto riconoscimento, riguardo ad altre posizioni esaminate nella stessa sentenza, quando gli elementi oggetto di apprezzamento siano gli stessi la cui mancanza ha assunto efficacia determinante nell’ambito di una valutazione generalmente negativa (Sez. 6, n. 14556 del 25/03/2011, omissis, Rv. 249731) e, con precipuo riguardo alla recidiva, è stato postulato, sempre in sede di legittimità ordinaria, che il giudice può adempiere all’onere motivazionale anche implicitamente ove la sentenza dia conto della ricorrenza di quei requisiti di riprovevolezza della condotta e di pericolosità del suo autore che sono a loro volta alla base dell’aggravamento di pena disposto dal legislatore per effetto della circostanza di cui all’art. 99 cod. pen. (così, Sez. 6, n. 20271 del 27/04/2016, omissis, Rv. 267130) fermo restando che l’esclusione della recidiva facoltativa contestata richiede uno specifico onere motivazionale da parte del giudice che, tuttavia, può essere adempiuto anche implicitamente ove si sia in concreto apprezzata l’insussistenza dei requisiti di riprovevolezza della condotta e di pericolosità del suo autore (Sez. 3, n. 4135 del 12/12/2017 – dep. 2018, omissis, Rv. 272040; così anche, Sez. 2, n. 39743 del 17/09/2015, omissis, Rv. 264533; Sez. 2, n. 40218 del 19/06/2012, omissis, Rv. 254341).

Tal che se ne faceva conseguire come l’esame della giurisprudenza di legittimità rendesse evidente che non fosse in dubbio che il giudice possa argomentare secondo la tecnica della motivazione implicita così come un simile principio trova riconoscimento pure con riferimento al giudizio in merito alla sussistenza o insussistenza della recidiva fermo restando però che, anche ove si faccia ricorso a tale particolare modalità argomentativa, deve risultare che sia stata compiuta la specifica indagine imposta dalla contestazione della recidiva.

Posto ciò, il Supremo riteneva necessario, a questo punto della disamina, verificare se il menzionato nesso di consequenzialità ricorra tra la valorizzazione dei precedenti penali utilizzati quali fattori ostativi alle attenuanti generiche ed il giudizio che riconosce la recidiva.

Si evidenziava a tal riguardo come il consolidato insegnamento della giurisprudenza di legittimità avesse chiarito che, ai fini dell’applicabilità delle circostanze attenuanti generiche di cui all’art. 62-bis cod. pen., il giudice deve riferirsi ai parametri di cui all’art. 133 cod. pen. fermo restando che non è necessario, a tale fine, che li esamini tutti, essendo sufficiente che specifichi a quale di esso ha inteso fare riferimento (Sez. 2, n. 2285 del 11/10/2004 – dep. 2005, omissis, Rv. 230691; Sez. 5, n. 43952 del 13/04/2017, omissis, Rv. 271269).

Nell’analizzare quest’orientamento nomofilattico, gli ermellini osservavano come si trattasse di una interpretazione che, attraverso l’argomento a contrario, aveva un preciso ancoraggio nel secondo comma dell’art. 62-bis cod. pen. poiché la disposizione esclude che nei casi previsti dall’articolo 99, quarto comma, in relazione ai delitti previsti dall’articolo 407, comma 2, lettera a) cod. proc. pen., ove puniti con la pena della reclusione non inferiore nel minimo a cinque anni, assumano rilevanza i criteri previsti dall’art. 133, primo comma, n. 3 e secondo comma fuori da tali casi valgono tutti i criteri di cui all’art. 133 cod. pen. fermo restando che, a seguito di Corte costituzionale, sent. del 10.6.2011, n. 183, può tenersi conto pure della condotta del reo susseguente al reato.

Si faceva però presente come la prevalente giurisprudenza della Cassazione (consonante con parte della dottrina) avesse ritenuto che le attenuanti generiche hanno la funzione di adeguare la pena al caso concreto permettendo la valorizzazione di connotati oggettivi o soggettivi non tipizzati ma che appaiono in grado di diminuire la meritevolezza e/o il bisogno di pena e dunque esse presuppongono l’esistenza di elementi ‘positivi‘ intendendosi per tali quelli che militano per una diminuzione della pena che risulterebbe dall’applicazione dell’art. 133 cod. pen. stante il fatto che, come è stato precisato, la ragion d’essere della previsione normativa recata dall’art. 62-bis cod. pen. è quella di consentire al giudice un adeguamento, in senso più favorevole all’imputato, della sanzione prevista dalla legge, in considerazione di peculiari e non codificabili connotazioni tanto del fatto quanto del soggetto che di esso si è reso responsabile e dunque, in ragione di ciò, la meritevolezza di detto adeguamento non può mai essere data per scontata o per presunta sì da dar luogo all’obbligo, per il giudice, ove ritenga di escluderla, di giustificarne sotto ogni possibile profilo, l’affermata insussistenza (cfr. Sez. 3, n. 35570 del 30/05/2017, omissis, Rv. 270694) mentre al contrario è la suindicata meritevolezza che necessita essa stessa, quando se ne affermi l’esistenza, di apposita motivazione dalla quale emergano, in positivo, gli elementi che sono stati ritenuti atti a giustificare la mitigazione del trattamento sanzionatorio la cui esclusione risulta, per converso, adeguatamente motivata alla sola condizione che il giudice, a fronte di specifica richiesta dell’imputato volta all’ottenimento delle attenuanti in questione, indichi delle plausibili ragioni a sostegno del rigetto di detta richiesta, e senza che ciò comporti tuttavia la stretta necessità della contestazione o della invalidazione degli elementi sui quali la richiesta stessa si fonda (in tali termini già Sez. 1, n. 11361 del 19/10/1992, omissis, Rv. 192381; Sez. 2, n. 38383 del 10/07/2009, omissis, Rv. 245241 e più di recente Sez. 1, n. 46568 del 18/05/2017, omissis, Rv. 271315; Sez. 3, n. 35570 del 30/05/2017, omissis, Rv. 270694).

Esaminati questi principi di diritto, si evidenziava come la conciliazione tra affermazioni apparentemente così diverse si cogliesse sul piano applicativo il quale conferma quel carattere pressoché onnicomprensivo dell’art. 133 cod. pen. da sempre segnalato dalla dottrina così come nel medesimo orizzonte si registra il ricorso alle attenuanti generiche per la mitigazione di trattamenti sanzionatori che diversamente risulterebbero sproporzionati, sia pure valorizzando profili avvertiti (non sempre a ragione) come estranei al catalogo dell’art. 133 cod. pen. ma anche la cura nel filtrare eventuali spinte irrazionalistiche attraverso l’ancoraggio ai parametri legali della dosimetria sanzionatoria.

Posto ciò, si denotava come i precedenti penali, dei quali fa menzione l’art. 133 cod. pen., non siano del tutto coincidenti con quelli che contribuiscono a costituire la recidiva dato che, ad esempio, si può considerare che nei primi rientrano anche le sentenze che concedono il perdono giudiziale, che invece non rilevano ai fini della recidiva (Sez. 5, n. 2655 del 16/10/2015 – dep. 2016, omissis, Rv. 265709); quelle che escludono la punibilità per la particolare tenuità del fatto, ai sensi dell’art. 131-bis cod. pen. (soggette ad iscrizione nel casellario giudiziale ai sensi dell’art. 3, lett. f, d.P.R. n. 313 del 2002 ma non valevoli ai fini della recidiva); le sentenze di condanna per reati colposi e per le contravvenzioni, che non possono concorrere a concretare la recidiva, pur quando formatesi prima dell’entrata in vigore della legge n. 251/2005, ma che possono essere prese in considerazione nella valutazione della gravità del fatto ostativa all’ammissione all’oblazione di cui all’art. 162-bis cod. pen. (Sez. 3, n. 29238 del 17/02/2017, omissis, Rv. 270147, in motivazione, ove si rammenta che quella gravità va apprezzata alla luce degli indici di cui all’art. 133 cod. pen.); le condanne per le quali si è prodotta l’estinzione di ogni effetto penale determinata dall’esito positivo dell’affidamento in prova al servizio sociale, che invece non possono essere considerate agli effetti della recidiva (Sez. 3, n. 39550 del 04/07/2017, omissis, Rv. 271342).

Allo stesso modo, mentre la riabilitazione non preclude la valutazione dei precedenti penali e giudiziari del riabilitato nell’apprezzamento del comportamento pregresso dell’imputato ai fini della determinazione della pena, ai sensi dell’art. 133 cod. pen. (cfr. Sez. 6, n. 16250 del 12/03/2013, omissis, Rv. 256186), l’estinzione delle pene accessorie e di ogni altro effetto penale della condanna

conseguente alla riabilitazione preclude che della condanna si possa tener conto ai fini della recidiva  sino a quando non sia intervenuto il provvedimento di revoca della sentenza di riabilitazione (Sez. 1, n. 55359 del 17/06/2016, omissis, Rv. 269042) tenuto conto altresì del fatto che l’art. 133, secondo comma, n. 2, cod. pen. considera anche i precedenti giudiziari, seppur certamente irrilevanti ai fini del giudizio sulla recidiva.

Quel che ulteriormente rileva in questa sede, ad avviso della Corte, inoltre, è che, ancorandosi le attenuanti generiche a specifici elementi positivi in grado di condurre ad una riduzione della pena quale risultante dall’applicazione dell’art. 133 cod. pen., quegli elementi possono risultare contrastati e depotenziati da fattori di segno opposto; tra i quali legittimamente si collocano anche i precedenti penali del reo (ex multis, Sez. 5, n. 43952 del 13/04/2017, omissis, Rv. 271269) visto che, allorquando il giudice fa ricorso ai precedenti penali per negare la meritevolezza dell’attenuazione della pena prevista dall’art. 62–bis cod. pen., egli opera una ricognizione che sfocia nel giudizio di insussistenza di elementi positivi o nel giudizio di dominanza di un fattore negativo sui concorrenti elementi positivi, e quindi, quando il fattore in parola è costituito dai precedenti penali del reo, la loro evocazione costituisce un espediente retorico che esalta l’assenza di elementi positivi o la ricorrenza di un concreto elemento in grado di depotenziare quelli favorevoli pur accertati.

Del tutto diverso, ad avviso delle Sezioni Unite, invece, è il giudizio in materia di recidiva.

Si osservava in primo luogo come fosse ben più limitato il senso della locuzione ‘precedenti penali‘ valevole per essa dato che costituiscono precedenti penali, valutabili ai fini della recidiva, unicamente le condanne definitive e solo quelle che siano divenute tali prima della commissione del nuovo reato; a seconda della specie di recidiva, la condanna deve avere connotazioni particolari, quanto all’oggetto, al tempo, al numero.

Da ciò se ne faceva discendere in concreto come ben possa accadere che i giudizi – quello concernente il (negato) riconoscimento delle attenuanti generiche e quello attinente al (positivo) riconoscimento della recidiva – non abbiano una base fattuale coincidente mentre, in caso diverso, quando la evocazione dei precedenti penali non si riduca alla già rammentata operazione retorica, l’uso del medesimo elemento, sia per escludere le attenuanti generiche che per ritenere la recidiva, dà luogo ad operazioni non sovrapponibili.

A sua volta la dottrina è incline a cogliere una diversità prospettica delle valutazioni dei precedenti penali cui chiamano, rispettivamente, l’art. 133 e l’art. 99 cod. pen. nel senso che, mentre la prima considera i precedenti penali per la loro attitudine a dare indicazioni in merito alla personalità del reo, quale ulteriore elemento di conoscenza che, in una considerazione globale (che quindi può vederlo recessivo), permette di apprezzare la gravità del reato, la seconda assume il precedente penale per l’accertamento della consapevolezza del disvalore dell’azione da parte del reo e della pericolosità sociale dello stesso avendo quindi rilievo la conoscenza e la conoscibilità della precedente condanna, dovendosi valutare la possibilità per il reo di trarre dal precedente vissuto giudiziario le motivazioni per determinarsi verso condotte lecite e la natura delle controspinte che lo hanno condotto a delinquere nuovamente (per una esemplificazione di tale giudizio Sez. 3, n. 30029

del 20.12.2017, dep. 2018, omissis; Sez. 4, n. 25564 del 09.05.2017, omissis).

Inoltre, se la giurisprudenza di legittimità, dal canto suo, ammette la polivalenza degli elementi indicati dall’art. 133 cod. pen. (cfr. Sez. 2, n. 24995 del 14/05/2015, omissis, Rv. 264378; Sez. 2, n. 933 del 11/10/2013 – dep. 2014, omissis, Rv. 258011), risulta poi evidente che il giudizio, che riconosce la recidiva, considera il precedente non come fattore ostativo bensì come fattore costitutivo, sia pure non esclusivo, essendo ancora necessario verificare la relazione che esso intrattiene con il nuovo reato.

Posto ciò, si deduceva altresì il fatto che la irriducibilità della recidiva alla titolarità di precedenti penali sia tra le premesse fondamentali della rammentata giurisprudenza costituzionale formatasi nel tempo successivo all’entrata in vigore della legge n. 251/2005 visto che essa importa la necessità che il giudice ne accerti i due requisiti costitutivi, verificando non solo l’esistenza del presupposto formale rappresentato dalla previa condanna, ma anche del presupposto sostanziale, costituito dalla maggiore colpevolezza e dalla più elevata capacità a delinquere del reo, da accertarsi discrezionalmente trattando di nozioni ormai acquisite al diritto vivente ma che meritano di essere ribadite, per la pratica difficoltà di farne corretta applicazione, atteso che la complessità del giudizio era stata più volte ribadita anche dalla giurisprudenza di legittimità; le Sezioni Unite Calibè, difatti, avevano rimarcato l’obbligo del giudice di svolgere una verifica in concreto sulla reiterazione dell’illecito quale indice sintomatico di riprovevolezza e pericolosità tenendo conto della natura dei reati, del tipo di devianza di cui sono il segno, della qualità dei comportamenti, del margine di offensività delle condotte, della distanza temporale e del livello di omogeneità esistente fra loro, dell’eventuale occasionalità della ricaduta e di ogni altro possibile parametro individualizzante significativo della personalità del reo e del grado di colpevolezza, al di là del mero ed indifferenziato riscontro formale dell’esistenza di precedenti penali così come le Sez. U, n. 20798 del 24/02/2011, omissis, Rv. 249664, nel ribadire il rifiuto di una recidiva intesa come status formale del soggetto, avevano nuovamente rimarcato che essa è produttiva di effetti unicamente se il giudice ne accerti i requisiti costitutivi, verificando non solo l’esistenza del presupposto formale rappresentato dalla previa condanna, ma anche procedendo al riscontro sostanziale della “più accentuata colpevolezza” per cui il soggetto risulta particolarmente riprovevole per essersi mostrato insensibile all’ammonimento derivante dalla precedente condanna e della “maggior pericolosità“, intesa come indice della sua inclinazione a delinquere, sicché la recidiva richiede un accertamento, nel caso concreto, della relazione qualificata tra lo “status” e il fatto che deve risultare sintomatico, in relazione alla tipologia dei reati pregressi e all’epoca della loro consumazione, sia sul piano della colpevolezza che su quello della pericolosità sociale (nel medesimo senso anche Sez. U, n. 31669 del 23/06/2016, omissis, Rv. 267044).

Si faceva oltre tutto presente come la complessità del giudizio fosse stata ulteriormente accentuata dal duplice fondamento della recidiva in quanto, se la maggiore colpevolezza per il fatto impegna a rintracciare i segni del processo motivazionale sottostante il nuovo reato e a verificarne i nessi con il pregresso giudiziario del reo, per la maggiore pericolosità sociale si pongono in primo luogo problemi ricostruttivi derivanti dalla contrarietà ai principi costituzionali di un’accezione che la faccia coincidere con una mera qualità della persona del reo e lasci prevalere esigenze di neutralizzazione; pertanto, pur così delimitato il campo delle possibili interpretazioni, la maggiore pericolosità può essere ricercata in connessione con il reato commesso (faticando a distinguersi, allora, dalla capacità a delinquere) oppure intesa come sinonimo di minore sensibilità al processo di rieducazione, e ciò perché gran parte degli effetti indiretti della recidiva vengono considerati espressione di una valutazione legislativa ispirata dalla ritenuta maggiore pericolosità sociale.

Il fattore di crisi, che ad avviso del Supremo Consesso emerge nel caso di specie, invece, è rappresentato dalla concentrazione in un solo giudizio, quello del giudice della cognizione, di valutazioni che guardano in direzioni diverse: la pena proporzionata alla gravità del fatto, la efficacia del concreto trattamento in una prospettiva special-preventiva.

A fronte di tale criticità, veniva evidenziato come le soluzioni praticabili non fossero nella disponibilità della giurisdizione ordinaria fermo restando che comunque a questa compete di tener presente, perché tal è il dato normativo, la circostanza che dalla recidiva conseguono tanto effetti diretti che effetti indiretti; in ciò una forte caratterizzazione di questa particolare circostanza del reato.

Di conseguenza, per quanto complesso il compito che incombe sul giudice chiamato ad accertare la fondatezza della contestazione della recidiva, una volta superata la vetusta concezione dello status – specie quando si consideri con realismo la struttura del processo penale – non sono ammissibili, secondo la Corte, motivazioni di puro stile che non espongano i dati fattuali presi in considerazione i criteri utilizzati per valutarli, un coerente giudizio circa la maggiore rimproverabilità del reo per non essersi fatto motivare dalle precedenti condanne, come pure avrebbe dovuto fare né può essere dimenticata la rilevantissima incidenza che la recidiva assume sul piano sanzionatorio e non solo. Tal che se ne fa discendere la conseguenza secondo la quale la consapevolezza di tali rigorosi effetti e del concorso della recidiva medesima nella necessaria opera di individualizzazione della pena deve responsabilizzare il giudice ed indurlo al massimo scrupolo nell’accertamento degli indici del presupposto sostanziale, sulla scorta di quanto le parti, assolvendo ai rispettivi oneri probatori, conferiscono al giudizio e, nell’accertamento della fondatezza della contestazione della recidiva, il giudice deve essere consapevole della necessità di sorvegliare che non si determini una indebita valorizzazione delle qualità della persona del reo atteso che l’ormai consueto richiamo all’accertamento della maggiore colpevolezza per il fatto e della maggiore pericolosità sociale del reo non può banalizzare il giudizio e far dimenticare che, in una prospettiva costituzionalmente orientata, esse non possono mai condurre a determinare una misura della pena che ecceda quella proporzionata alla gravità oggettiva e soggettiva del fatto posto che, come ribadito dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 205/2017, «la recidiva reiterata “riflette i due aspetti della colpevolezza e della pericolosità, ed è da ritenere che questi, pur essendo pertinenti al reato, non possano assumere, nel processo di individualizzazione della pena, una rilevanza tale da renderli comparativamente prevalenti rispetto al fatto oggettivo: il principio di offensività è chiamato ad operare non solo rispetto alla fattispecie base e alle circostanze, ma anche rispetto a tutti gli istituti che incidono sulla individualizzazione della pena e sulla sua determinazione finale. Se così non fosse, la rilevanza dell’offensività della fattispecie base potrebbe risultare “neutralizzata” da un processo di individualizzazione prevalentemente orientato sulla colpevolezza e sulla pericolosità” (sentenza n. 251 del 2012)».

Detto questo, riassumendo le fila del discorso sin qui sostenuto, le Sezioni Unite giungevano a postulare che la parziale diversità della nozione di ‘precedente penale‘, l’insufficienza della sola presenza di precedenti penali a sostenere il giudizio sulla recidiva, il diverso modo in cui essi vengono in considerazione nel giudizio che nega le attenuanti generiche e la differente proiezione teleologica delle due valutazioni in comparazione rendessero evidente come non possa ravvisarsi alcun nesso di conseguenzialità logica e giuridica tra il diniego di riconoscimento della attenuanti generiche giustificato dalla presenza di precedenti penali e una statuizione di riconoscimento della recidiva facendo da ciò conseguire come non fosse fondato attribuire ad un mero errore il mancato aumento della pena e dunque andasse respinta la diversa affermazione contenuta in Sez. 5, n. 34137 del 11/05/2017, omissis, Rv. 270678; Sez. 5, n. 38287 del 6/4/2016, omissis, Rv. 267862; Sez. 2, n. 35805 del 18/06/2013, omissis, Rv. 257298; Sez. 1, n. 26786 del 18/6/2009, omissis, Rv. 244656; Sez. 5, n. 37550 del 26/6/2008, omissis, Rv. 241945.

Ben diversamente, sempre secondo quanto sostenuto dalla Corte in questo arresto giurisprudenziale, deve ritenersi che il mancato aumento di pena a titolo di recidiva costituisce indizio ulteriore del fatto che la circostanza aggravante non è stata riconosciuta.

Posto ciò, a questo punto della disamina, si riteneva di doversi soffermare brevemente su quest’ulteriore aspetto della questione proposta dalla Sezione remittente che investiva il piano della relazione tra il riconoscimento della recidiva e i suoi effetti.

Si sottolineava a tal proposito come fosse stato già rammentato che le Sezioni Unite avevano statuito che, all’esito dell’accertamento al quale dà via la contestazione della recidiva, il giudice possa negare la rilevanza aggravatrice della recidiva ed escludere la circostanza non irrogando il relativo aumento della sanzione mentre, ove la verifica effettuata si concluda nel senso del concreto rilievo della ricaduta sotto il profilo sintomatico di una più accentuata colpevolezza e maggiore pericolosità del reo, la circostanza aggravante opera necessariamente e determina tutte le conseguenze di legge sul trattamento sanzionatorio e sugli ulteriori effetti commisurativi e pertanto, alla stregua di ciò, si dovranno trarre dal giudizio tutti gli effetti, diretti ed indiretti, che la legge assegna alla recidiva.

Nel fissare tale insegnamento, si faceva altresì presente come le Sezioni Unite Calibè avessero precisato che in tale ipotesi la recidiva deve intendersi, oltre che “accertata” nei suoi presupposti (sulla base dell’esame del certificato del casellario), “ritenuta” dal giudice ed “applicata“, determinando essa l’effetto tipico di aggravamento della pena: e ciò anche quando semplicemente svolga la funzione di paralizzare, con il giudizio di equivalenza, l’effetto alleviatore di una circostanza attenuante tenuto conto altresì del fatto che, con in tale arresto giurisprudenziale era stato definitivamente abbandonata la tesi della “facoltatività bifasica” della recidiva per la quale è consentito al giudice di elidere l’effetto primario dell’aggravamento della pena mentre sono obbligatori gli ulteriori effetti penali della circostanza attinenti al momento commisurativo della sanzione.

Anche in Sez. U, n. 20798 del 24/02/2011, omissis, Rv. 249664, considerando il tema dalla prospettiva del computo dei termini prescrizionali del reato, si osservava come fosse stato ivi affermato che, mentre prima della sentenza di merito la più severa disciplina dei tempi di estinzione (art. 157, secondo comma, cod. pen.) opera sulla base della mera contestazione della recidiva, da considerare circostanza aggravante ad effetto speciale (cfr. Sez. 5, n. 35852 del 07/06/2010, omissis, Rv. 248502), una volta intervenuta la decisione che non abbia ravvisato una relazione qualificata fra i precedenti dell’imputato e il fatto a lui addebitato, la circostanza perde il suo rilievo ai fini del computo del tempo necessario a prescrivere il reato (Sez. 6, n. 43771 del 07/10/2010, omissis, Rv. 248714; Sez. 2, n. 18595 dell’08/04/2009, omissis, Rv. 244158) rilevandosi al contempo che, con la sentenza Sez. U, n. 31669 del 23/06/2016, omissis, Rv. 267044, le Sezioni unite avevano esaminato la questione relativa alla individuazione del corretto significato del verbo “applicare” utilizzato dall’art. 81, quarto comma, cod. pen. verificando quando la recidiva possa dirsi “applicata” dal giudice osservandosi in quella occasione che la circostanza aggravante deve ritenersi, oltre che riconosciuta, anche applicata, non solo quando esplica il suo effetto tipico di aggravamento della pena ma anche quando produca, nel bilanciamento tra circostanze aggravanti e attenuanti di cui all’art. 69 cod. pen., un altro degli effetti che le sono propri, cioè quello di paralizzare un’attenuante, impedendo a questa di svolgere la sua funzione di concreto alleviamento della pena da irrogare; in particolare, ad avviso delle Sezioni Unite, all’atto del giudizio di comparazione, l’azione dell’applicare la recidiva deve ritenersi già esaurita perché altrimenti il bilanciamento non sarebbe stato necessario: la recidiva ha comunque esplicato i suoi effetti nel giudizio comparativo, sebbene gli stessi siano stati ritenuti dal giudice equivalenti rispetto alle circostanze attenuanti concorrenti, in assenza delle quali, però, la recidiva avrebbe comportato l’aumento di pena.

Si evidenziava inoltre come sempre in quell’arresto giurisprudenziale le ragioni fondanti la conclusione raggiunta fossero state altresì individuate dalle Sezioni Unite nella elaborazione giurisprudenziale sviluppatasi anche in relazione ai rapporti tra recidiva ed altri istituti là dove si era ritenuto che il giudizio di bilanciamento, con altre circostanze concorrenti, non determinasse conseguenze neutralizzanti degli ulteriori effetti della recidiva come già era stato fatto in tema di prescrizione dove era stato affermato che la recidiva reiterata, quale circostanza aggravante ad effetto speciale, rileva ai fini della determinazione del termine di prescrizione, anche qualora nel giudizio di comparazione con le circostanze attenuanti sia stata considerata equivalente (Sez. 6, n. 39849 del 16/09/2015, omissis, Rv. 264483; Sez. 2, n. 35805 del 18/06/2013 omissis, Rv. 257298; Sez. 1, n. 26786 del 18/06/2009, omissis, Rv. 244656; Sez. 5, n. 37550 del 26/06/2008, omissis, Rv. 241945).

Posto ciò, le Sezioni Unite, nella decisione qui in commento, ritenevano che la laboriosa evoluzione della riflessione giurisprudenziale in tema di recidiva conducesse ad acquisire che si tratta di una circostanza aggravante del reato, inerente alla persona del colpevole, che non differisce nei suoi meccanismi applicativi dalle ulteriori circostanze del reato, se non per quelli aspetti che risultano esplicitamente regolati in modo peculiare dal legislatore (tra i quali gli effetti indiretti).

Da ciò se ne faceva inferire come la recidiva risulti essere oggetto di un giudizio di riconoscimento che mette le radici nell’accertamento del presupposto formale e nella valutazione della relazione tra “precedente” e nuovo reato, e a tale giudizio consegue ex se l’esplicazione di ogni effetto, diretto ed indiretto, che ad essa riconduce l’ordinamento senza necessità di concettualizzare un particolare momento applicativo, così come non si dubita che una volta riconosciuta ad esempio una qualsiasi aggravante comune (ex art. 61 cod. pen.) questa produca i suoi effetti senza necessità di menzionarne l’applicazione come di una particolare operazione.

Infatti, se è pur vero che, nella trama del codice penale, si rivengono due disposizioni nelle quali si legge di recidiva applicata (art. 81, quarto comma, e 603-ter c.p.), è altrettanto vero che si tratta di terminologia che intende alludere al fatto che il reo sia stato riconosciuto come recidivo, come attestano le conclusioni cui sono pervenute le Sezioni Unite n. 31669/2016.

Ciò precisato, gli ermellini osservavano come andasse ritenuta erronea l’affermazione secondo la quale la recidiva risulta ‘applicata‘ «tenendone conto per escludere la concessione delle attenuanti generiche» (così Sez. 2, n. 35805 del 18/06/2013, omissis, Rv. 257298) risultando essere palese che, non avendo il legislatore attribuito alla recidiva anche l’effetto di interdire il riconoscimento delle attenuanti generiche, ad avviso della Corte, non può ipotizzarsi una sua applicazione che in ciò consista.

A riprova dell’assenza di una qualche relazione tra i due giudizi, si faceva presente che dalla giurisprudenza fosse stata esclusa la sussistenza di una contraddizione tra il riconoscimento della recidiva e quello contestuale delle attenuanti generiche; o tra il giudizio che escluda l’una e quello che escluda anche le altre (cfr. Sez. 6, n. 38780 del 17/06/2014, omissis, Rv. 260460); o, ancora, tra il diniego delle circostanze attenuanti generiche, giustificato dai precedenti penali dell’imputato, ed il contemporaneo giudizio di equivalenza tra una circostanza attenuante e la recidiva (Sez. 2, n. 106 del 04/11/2009 – dep. 2010, omissis, Rv. 246045).

Chiarito ciò, il discorso sin qui condotto conduceva la Corte di Cassazione a prendere in considerazione Sez. U, n. 17 del 18/06/1991, omissis, Rv. 187856 secondo cui «una norma va considerata applicata allorquando essa venga concretamente ed effettivamente utilizzata in senso funzionale ai suoi scopi, facendole esercitare uno qualsiasi degli effetti che le sono propri e da essa dipendano con nesso di causalità giuridica necessaria, in modo che senza di essa non possono derivare quegli effetti che il giudice riconosce nel farne uso. Salvo, quindi, i casi in cui vi sia specifica – pur se indiretta – esclusione di taluno di quegli effetti, una norma deve essere ritenuta come applicata non solo quando da essa si facciano conseguire gli effetti tipici o primari, ma anche allorquando ne derivi uno qualsiasi di tali effetti, pure se secondari o collaterali, ma che trovano comunque matrice nella norma. Non sul piano meramente teorico bensì effettivamente incidendo sulla specifica realtà giuridica. Ne consegue che una circostanza aggravante deve essere ritenuta, oltre che riconosciuta, anche come applicata, non solo allorquando nella realtà giuridica di un processo viene attivato il suo effetto tipico di aggravamento della pena, ma anche quando se ne tragga – ai sensi dell’art. 69 c.p. – un altro degli effetti che le sono propri e cioè quello di paralizzare un’attenuante, impedendo a questa di svolgere la sua funzione di concreto alleviamento della pena irroganda per il reato. Invece, non è da ritenere applicata solo allorquando, ancorchè riconosciuta la ricorrenza dei suoi estremi di fatto e di diritto, essa non manifesti concretamente alcuno degli effetti che le sono propri a cagione della prevalenza attribuita all’attenuante la quale non si limita a paralizzarla, ma la sopraffà in modo che sul piano dell’afflittività sanzionatoria l’aggravante risulta tamquam non esset».

Dopo aver citato parte della motivazione di tale pronuncia, si notava come questa decisione avesse lasciato irrisolto il nodo delle conseguenze da trarre in caso di recidiva che, in esito al giudizio di cui all’art. 69 cod. pen., sia valutata subvalente.

Si faceva a tal riguardo presente che, nella giurisprudenza più recente, fosse emersa un’oggettiva incertezza giacché all’interpretazione per la quale, ai fini del computo del termine di prescrizione, deve ritenersi “applicata” la recidiva anche se considerata subvalente nel giudizio di bilanciamento con le attenuanti concorrenti (Sez. 7, n. 15681 del 13/12/2016 – dep. 2017, omissis, Rv. 269669; Sez. 4, n. 8079 del 22/11/2016 – dep. 2017, omissis, Rv. 269129), si opponeva un diverso orientamento per il quale la recidiva contestata all’imputato, ritenuta e non applicata dal giudice di merito, perché considerata subvalente rispetto alla circostanza attenuante, non rileva nel calcolo del tempo necessario ai fini della prescrizione del reato (Sez. 2, n. 53133 del 04/11/2016, omissis, Rv. 269139; Sez. 5, n. 48891 del 20/09/2018, omissis, Rv. 274601).

Ad avviso delle Sezioni Unite, la disciplina della prescrizione offriva un nitido punto di ancoraggio per la tesi della rilevanza della recidiva anche quando il giudizio di bilanciamento l’abbia vista sub valente giacchè l’art. 157, terzo comma cod. pen. esclude espressamente che possa tenersi in considerazione il giudizio di cui all’art. 69 cod. pen. ai fini della determinazione della pena massima del reato di cui trattasi, fattore di riferimento per il computo del termine di prescrizione, e poiché l’art. 161 cod. pen. richiama talune ipotesi di recidiva coordinando la regola al tempo necessario a prescrivere, definito secondo quanto previsto dall’art. 157 cod. pen., restava confermato che, anche ai fini del computo del termine di prescrizione in caso di sospensione e di interruzione del corso dello stesso, la recidiva assume rilievo solo che sia stata riconosciuta.

Detto questo, la questione in analisi, ad avviso della Corte, aveva una portata più generale essendo emersa anche in tema di reato continuato giacché era stato affermato che il limite minimo per l’aumento stabilito dalla legge, nei confronti dei soggetti per i quali sia stata ritenuta la contestata recidiva reiterata, non opera quando il giudice abbia considerato la stessa subvalente alle riconosciute attenuanti in quanto, in tale ipotesi, la recidiva, pur considerata nel giudizio di bilanciamento, non ha però di fatto potuto paralizzare il loro effetto tipico di riduzione della pena (Sez. 6, n. 27784 del 05/04/2017, omissis, Rv. 270398) così come essa potrebbe ipotizzarsi anche in tema di cd. patteggiamento allargato ove risulta sinora affrontato solo il caso di recidiva ritenuta equivalente alle concorrenti attenuanti e risolto essendo stato sostenuto che, ai fini della preclusione al patteggiamento a pena detentiva superiore a due anni, è sufficiente che la recidiva, contestata ai sensi dell’art. 99, quarto comma, cod. pen., sia stata riconosciuta dal giudice, anche se in concreto non applicata per effetto del giudizio di equivalenza con circostanze attenuanti (cfr. Sez. 6, n. 23052 del 04/04/2017, omissis, Rv. 270489).

Orbene, posta tale problematica in questi termini, ad avviso delle Sezioni Unite, appariva prioritario muovere dalla considerazione che, tanto sul piano normativo che su quello logico, il fatto stesso di aver operato il giudizio di bilanciamento presuppone il riconoscimento della recidiva in quanto, diversamente, mancando addirittura uno dei termini da comparare, non sussisterebbe quel concorso di circostanze eterogenee che è all’origine delle regole poste dall’art. 69 cod. pen..

Si evidenziava però come la recidiva si caratterizzi, tra le circostanze del reato, per essere produttiva non solo dell’escursione sanzionatoria, ma anche di effetti ulteriori e decisivi per la concreta conformazione del trattamento del condannato recidivo e, nell’attuale quadro normativo, la recidiva costituisce circostanza del reato ma permane una sua specificità funzionale per il fatto che è produttiva dei cosiddetti effetti indiretti quali possono essere: la previsione del limite minimo dell’aumento di pena da applicare per i reati in concorso formale o in continuazione, ai sensi dell’art. 81, quarto comma cod. pen.; l’aumento del tempo necessario alla prescrizione ordinaria del reato e l’incidenza sul termine massimo; l’incidenza sul tempo che determina l’estinzione della pena (art. 172, settimo comma, cod. pen.) e sul tempo necessario per ottenere la riabilitazione (art. 179, secondo comma, cod. pen.); le preclusioni in tema di amnistia (art. 151, quinto comma cod. pen.) e di indulto (art. 174, terzo comma, cod. pen.).

Anche nella fase esecutiva la Corte di Cassazione prendeva atto come si fossero registrate previsioni derogatorie al regime ordinario che rinvenivano nella riconosciuta recidiva il proprio fondamento, quali: l’entità del periodo di espiazione che permette di fruire dei permessi premio previsti dall’art. 30-ter ord. pen., elevata per i recidivi ex art. 99, quarto comma cod. pen.; la non concedibilità oltre una volta dell’affidamento in prova al servizio sociale nei casi previsti dall’articolo 47, della detenzione domiciliare e della semilibertà al condannato al quale sia stata applicata la recidiva prevista dall’articolo 99, quarto comma cod. pen., ex art. 58-quater, comma 7-bis, ord. pen (nel testo scaturito da Corte cost. sent. n. 291/2010).

Alla luce di questa disamina di ordine normativo, gli ermellini rilevavano come, in modo del tutto peculiare, quindi, quando è in gioco la recidiva, specie se qualificata, la funzione rieducatrice della pena risulta essere debitrice non tanto, e comunque non solo, della variazione quantitativa della sanzione, quanto anche dell’avvenuto riconoscimento della sussistenza della recidiva.

Orbene, ad avviso della Corte, il concreto farsi della risposta punitiva non può essere tenuto in non cale per il vincolo costituzionale a definire un trattamento sanzionatorio realmente idoneo a conseguire l’obiettivo della rieducazione del reo; difatti, ancorché la modulazione del trattamento sanzionatorio secondo l’evoluzione del percorso di rieducazione del condannato sia affidato agli organi della esecuzione penale, il giudice della cognizione non può ignorare che la sua statuizione costituisce il primo fattore di un complessivo programma tendente alla rieducazione del condannato; programma che si snoda in modo più rilevante nella fase dell’esecuzione della pena, ma che si forma sulle direttrici identificate dal giudice del merito.

Decisivo è allora considerare, sempre ad avviso delle Sezioni Unite, che, quando il giudice di merito valuta la recidiva subvalente rispetto alle concorrenti attenuanti, egli esprime una valutazione di disfunzionalità della recidiva rispetto al programma di trattamento che comincia a delinearsi con la fissazione della pena da infliggere e quindi risulterebbe in patente contraddizione con il giudizio che si cristallizza con la definitività della pronuncia attribuire in questi casi valore alla recidiva nel contesto di successive valutazioni che pure si riflettono sulla conformazione di quel programma.

Tal che se ne faceva conseguire che, quando la recidiva sia stata ritenuta subvalente, fuori dai casi in cui la rilevanza di tale giudizio sia espressamente esclusa dal legislatore, non si produce l’effetto diretto sulla pena, così non si producono gli effetti indiretti della recidiva.

Chiarito ciò, si prendeva atto come su simile caposaldo si fosse attestata la pertinente giurisprudenza di legittimità limitando il significato di ‘applicazione‘ della recidiva ai casi in cui questa abbia impedito l’attenuazione della pena derivante da concorrenti attenuanti (cfr. Sez. 1, n. 47903 del 25/10/2012, omissis, Rv. 253883, in tema di divieto di detenzione domiciliare nei confronti dei recidivi reiterati, venuto meno a seguito della modifica dell’art. 47-ter, comma 1-bis, ord. pen., operata dall’art. 2, comma 1, lett. b), n. 1, del D.L. 1 luglio 2013 n. 78, convertito nella legge 9 agosto 2013 n. 94; Sez. 1, n. 27814 del 22/06/2006, omissis, Rv. 234433, per la quale se con la condanna posta in esecuzione la recidiva reiterata è stata dichiarata subvalente rispetto alle circostanze attenuanti, l’art. 58-quater, comma 7-bis, ord. pen., introdotto con legge n. 251 del 2005, non è di ostacolo alla concessione della semilibertà, perché la recidiva può ritenersi “applicata“, a norma del menzionato art. 58-quater ord. pen., se realizza l’effetto tipico di aggravamento della pena e quindi se nel giudizio di comparazione ex art. 69 cod. pen. le circostanze attenuanti non sono state dichiarate prevalenti; così anche Sez. 1, n. 33923 del 22/09/2006, omissis, Rv. 235191).

Alla luce di quanto sin qui enunciato, si ribadiva anche in questa decisione che, ove il giudizio di bilanciamento di cui all’art. 69 cod. pen. si concluda con una valutazione di subvalenza della recidiva, di questa non può tenersi conto ad alcuno effetto salvo che nelle ipotesi in cui sia espressamente previsto che deve tenersi conto della recidiva senza avere riguardo al giudizio di bilanciamento ex art. 69 cod. pen..

Di conseguenza, alla luce delle considerazioni sin qui esposte, risultava sufficientemente evidente, ad opinione dei giudici di piazza Cavour, come fosse fondato su premesse non condivisibili l’orientamento secondo il quale la valorizzazione dei “precedenti penali“, operata per il diniego delle attenuanti generiche, sia indice di un giudizio che riconosce la ricorrenza della circostanza aggravante della recidiva risultando un mero errore il mancato aumento della pena a titolo di recidiva in quanto esso non coglie la profonda diversità che caratterizza l’uno e l’altro istituto con le conseguenti difformità impresse ai giudizi che li concernono e senza tener conto del fatto che, da un lato, depaupera il giudizio concernente la recidiva finendo con il ridurlo alla constatazione della presenza di pertinenti “precedenti penali” che accidentalmente, in forza del reclutamento di mere formule di stile, possono anche risultare correlati retoricamente ad una maggiore colpevolezza per il fatto e ad una maggiore pericolosità sociale del reo, ma senza che il linguaggio possa far velo all’assenza di una reale indagine al riguardo, dall’altro, qualifica del tutto arbitrariamente come errore il mancato aumento della pena facendo emergere con asettica noncuranza quel che costituirebbe, ove fosse effettiva, una patente violazione di legge, dall’altro lato ancora, apre ad effetti in malam partem sulla base di una mera interpretazione della decisione di merito.

Si formulava dunque, in virtù di quanto sin qui sostenuto, il seguente principio di diritto: “La valorizzazione dei precedenti penali dell’imputato per la negazione delle attenuanti generiche non implica il riconoscimento della recidiva in assenza di aumento della pena a tale titolo o di giudizio di comparazione tra le circostanze concorrenti eterogenee; in tal caso la recidiva non rileva ai fini del calcolo dei termini di prescrizione del reato“.

Declinando tale principio di diritto in relazione al caso di specie, il Supremo Consesso riteneva il ricorso fondato in quanto, ad avviso della Corte, il giudice di primo grado si era limitato a richiamare i precedenti penali dell’imputato per sostenere il diniego delle attenuanti generiche mentre non veniva compiuta nessuna valutazione della relazione tra tali precedenti e i fatti sottoposti al giudizio tenuto conto altresì del fatto che il computo della pena non mostrava alcun aumento da imputare alla circostanza in parola.

Inoltre, quanto alla mancata esplicitazione nel dispositivo del giudizio di insussistenza della recidiva, secondo le Sezioni Unite, essa non assumeva rilievo dirimente dovendo tale omissione essere apprezzata come mero errore materiale stante la univocità della motivazione alla luce di quanto sin qui esposto, e ciò in ragione di quell’orientamento per il quale la discrasia tra motivazione e dispositivo può risolversi a favore della prima a condizione che l’esame della motivazione consenta di ricostruire chiaramente ed inequivocabilmente il procedimento seguito dal giudice per determinare la pena (Sez. 6, n. 1397 del 15/09/2015 – dep. 2016, omissis, Rv. 266495; tra le molte altre, Sez. 4, n. 26172 del 19/05/2016, omissis, Rv. 267153; Sez. 2, n. 13904 del 09/03/2016, omissis, Rv. 266660, che indicano nella procedura di rettifica di cui all’art. 619 cod. proc. pen. lo strumento per la correzione dell’errore).

La Corte di Appello aveva offerto a tal proposito una motivazione più esplicativa atteso che, alla richiesta dello S. di rivedere il trattamento sanzionatorio in senso più favorevole, aveva replicato che egli «è gravato di numerosi precedenti penali, che, unitamente al nuovo delitto commesso, valgono a delinearne la negativa personalità e non consentono un trattamento più benevolo …»; aveva aggiunto che dalla gravità del fatto emerge la «evidente professionalità dello S. nella commissione di reati in materia di contrabbando e il suo certo inserimento in contesti criminali più ampi dediti a tale tipologia di commerci …» concludendo per la non meritevolezza delle attenuanti generiche così come più stringata, ma non concettualmente dissimile, la motivazione concernente il D..

Orbene, anche a concedere che quanto appena esposto potesse valere quale motivazione implicita di una riconosciuta maggiorata colpevolezza per il fatto e di più elevata pericolosità sociale degli imputati, la Cassazione stimava come non sarebbe possibile ovviare alla negativa statuizione del primo giudizio perché non investita dall’appello del Pubblico Ministero sicché, a ritenere che la Corte di Appello avesse riconosciuto la contestata recidiva, si sarebbe avallata, secondo la Corte, una indebita reformatio in peius.

Da ciò se ne faceva discendere come il termine di prescrizione avrebbe dovuto essere computato senza alcun riferimento ad una recidiva non riconosciuta; e pertanto in sette anni e sei mesi, decorsi alla data del 19.6.2016.

La sentenza impugnata veniva quindi annullata senza rinvio perché i reati erano estinti per prescrizione.

Conclusioni

Questo arresto giurisprudenziale è senz’altro condivisibile.

Il tracciato motivazionale, attraverso il quale la Cassazione è giunta ad affermare il principio di diritto secondo il quale la valorizzazione dei precedenti penali dell’imputato, per la negazione delle attenuanti generiche, non implica il riconoscimento della recidiva in assenza di aumento della pena a tale titolo o di giudizio di comparazione tra le circostanze concorrenti eterogenee posto che in tal caso la recidiva non rileva ai fini del calcolo dei termini di prescrizione del reato, difatti, è il frutto di un articolato e ben ponderato ragionamento giuridico basato su un’attenta lettura della normativa da doversi prendere in considerazione nel caso di specie e su un’altrettanta articolata disamina della giurisprudenza elaborata in subiecta materia.

Il giudizio in ordine a quanto statuito in questa pronuncia, dunque, si ribadisce, non può che essere positivo.

                             

 

 

Avv. Di Tullio D’Elisiis Antonio

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