Quando la disciplina dettata dall’art. 624 bis cod. pen. può essere estesa ai luoghi di lavoro nei casi in cui essi presentino le caratteristiche proprie dell’abitazione

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Il fatto

La Corte d’Appello di Bari confermava la pronunzia di condanna in primo grado alla pena di giustizia nei confronti dell’imputato per il delitto di cui all’art 624 bis cp..

I motivi addotti nel ricorso per Cassazione

Avverso la sentenza proponeva ricorso il difensore che aveva dedotto: 1) violazione dell’art 624 bis c.p. e la manifesta illogicità della motivazione avendo omesso i Giudici del merito la spiegazione delle ragioni per cui lo studio legale potesse essere luogo di privata dimora; 2) vizio di motivazione per la mancata considerazione dei motivi di appello; 2) mancata erronea concessione delle attenuanti generiche.

Le valutazioni giuridiche formulate dalla Cassazione

Il ricorso veniva ritenuto infondato alla stregua delle seguenti considerazioni.

Si osservava prima di tutto come la doglianza espressa nel primo motivo non fosse condivisibile, pur rilevandosi al contempo come la motivazione adottata dalla Corte territoriale circa la qualifica dello studio legale come luogo di privata dimora nelle ore di pausa dell’attività professionale non fosse perfettamente coerente con la più recente elaborazione interpretativa della Corte di Cassazione secondo la quale anche i luoghi destinati allo svolgimento di attività lavorativa e/o professionale sono qualificabili, nel ricorrere di determinati presupposti di fatto, come luoghi di privata dimora ai sensi della norma incriminatrice in parola.

In proposito si faceva presente come la pronunzia delle Sezioni Unite n. 31345 del 23/03/2017 avesse chiarito che, ai fini della configurabilità del reato previsto dall’art. 624 bis cod. pen., rientrano nella nozione di privata dimora esclusivamente i luoghi nei quali si svolgono non occasionalmente atti della vita privata, e che non siano aperti al pubblico, né accessibili a terzi senza il consenso del titolare, compresi quelli destinati ad attività lavorativa o professionale.

Tal che, operando in tal guisa, si era, così, precisato che l’interpretazione letterale e sistematica della norma, confortata dai principi enucleabili dalle sentenze della Corte costituzionale in tema di privata dimora, nonché dalla sentenza delle Sezioni Unite, n. 26795 del 28/03/2006, «consente di delineare la nozione di privata dimora sulla base dei seguenti, indefettibili elementi: a) utilizzazione del luogo per lo svolgimento di manifestazioni della vita privata – come riposo, svago, alimentazione, studio, attività professionale e di lavoro in genere – in modo riservato ed al riparo da intrusioni esterne; b) durata apprezzabile del rapporto tra il luogo e la persona, in modo che tale rapporto sia caratterizzato da una certa stabilità e non da mera occasionalità; c) non accessibilità del luogo, da parte di terzi, senza il consenso del titolare».

Posto ciò, gli ermellini evidenziavano come, quanto ai luoghi ove si svolge l’attività lavorativa, fosse stato specificato che «i luoghi di lavoro sono, generalmente, accessibili ad una pluralità di soggetti, anche senza il preventivo consenso dell’avente diritto e ad essi è, quindi, estraneo ogni carattere di riservatezza, essendo esposti, per definizione alla intrusione altrui» e, ferma tale affermazione di principio, le Sezioni Unite avevano comunque precisato come la disciplina dettata dall’art. 624 bis cod. pen. possa essere estesa ai luoghi di lavoro nei casi in cui essi presentino le caratteristiche proprie dell’abitazione non potendosi, dunque, revocarsi in dubbio la possibilità che la privata dimora possa essere costituita anche dal luogo ove solitamente si svolge attività lavorativa, a condizione che in esso la persona esplichi, altresì, attività “di vita e dimora privata” e ricorrendo gli altri requisiti menzionati in precedenza.

Alla luce del suindicato principio, si denotava come la giurisprudenza della Suprema Corte avesse modulato le sue linee interpretative rispetto ai casi concreti, nei quali andava accertato, di volta in volta, se il luogo in cui il soggetto svolge la propria attività costituisca, o meno, privata dimora  trattandosi di un accertamento rimesso, naturalmente, al giudice di merito, il quale, sulla base degli elementi raccolti, deve valutare se nel luogo in cui è stata posta in essere l’azione furtiva, in sostanza destinato ad attività lavorativa in modo tendenzialmente stabile, il soggetto compia atti della vita privata in modo riservato potendo precludere l’accesso a terzi, con la conseguente riconducibilità dello stesso nella categoria dei luoghi di privata dimora.

Di tal chè se ne faceva discendere come il principio enucleato dalle Sezioni Unite non trovasse applicazione indiscriminata in ordine a tutti i luoghi di lavoro essendo, invece, necessario condurre, caso per caso, una valutazione di fatto: un’indagine volta ad accertare la sussistenza contestuale di tutte le caratteristiche, richiamate dalle predette Sezioni Unite, proprie della privata dimora.

Orbene, una volta fatto presente che i suindicati criteri fossero stati posti a fondamento della pronunzia che aveva ritenuto corretta la qualificazione ex art. 624-bis cod. pen. del furto commesso di notte all’interno di uno studio legale ricorrendo i presupposti dello “ius excludendi alios“, dell’accesso non indiscriminato del pubblico e della presenza potenzialmente costante di persone che con esso hanno una relazione qualificata, anche eventualmente in orario notturno, essendo il titolare libero di accedervi in qualunque momento della giornata (Sez. 5, Sentenza n. 34475 del 21/06/2018), i giudici di piazza Cavour rilevavano come, nel caso di specie, pertanto, il tentativo di furto perpetrato ai danni di uno studio legale fosse stato correttamente qualificato ai sensi dell’art. 624 bis cp, pur se la precisazione secondo la quale la predetta qualificazione era stata fatta in funzione delle possibili ore di pausa dall’attività lavorativa appare, ad avviso della Corte, alla luce del sistema di principi innanzi ricordato, al contrario, ininfluente ed in una certa misura fuorviante.

Infine, veniva denotato come il secondo motivo di ricorso avesse lamentato in modo del tutto generico la mancata risposta ai motivi di appello senza precisarne i contenuti e senza specificare le ragioni per cui l’ipotizzata omessa considerazione e confutazione dei motivi di gravame avrebbe avuto un riflesso determinante nella pronunzia confermativa della prima sentenza mentre la censura circa il mancato riconoscimento delle attenuanti generiche, di cui al terzo motivo, veniva stimata inammissibile non avendo relazione col provvedimento impugnato che, secondo il Supremo Consesso, aveva legittimamente giustificato la decisione tramite la constatazione dei plurimi e specifici precedenti penali a carico del giudicabile.

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Conclusioni

La sentenza in questione è sicuramente condivisibile in quanto si allinea lungo il solco di un arresto giurisprudenziale che aveva postulato come la disciplina dettata dall’art. 624 bis cod. pen. possa essere estesa ai luoghi di lavoro nei casi in cui essi presentino le caratteristiche proprie dell’abitazione.

Altrettanto condivisibile è quel passaggio motivazionale di questa decisione nella parte in cui specifica come debba essere accertata una situazione di questo genere, e segnatamente nella parte in cui si postula che si deve valutare se nel luogo in cui è stata posta in essere l’azione furtiva, in sostanza destinato ad attività lavorativa in modo tendenzialmente stabile, il soggetto compia atti della vita privata in modo riservato potendo precludere l’accesso a terzi, con la conseguente riconducibilità dello stesso nella categoria dei luoghi di privata dimora.

Difatti, solo in questo modo è possibile verificare se si tratti per davvero di un luogo di privata dimora o invece sostanzialmente un luogo destinato allo svolgimento di attività lavorativa e/o professionale.

Il giudizio in ordine a quanto enunciato in tale pronuncia, dunque, non può che essere positivo.

 

 

Sentenza collegata

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Avv. Di Tullio D’Elisiis Antonio

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