La Corte costituzionale ritiene non illegittimo costituzionalmente l’art. 59 della legge n. 689 del 1981 su pene sostitutive e reati ostativi: vediamo in che termini. Per supporto ai professionisti, abbiamo preparato uno strumento di agile consultazione, il “Formulario annotato del processo penale 2025”, giunto alla sua V edizione, acquistabile sullo Shop Maggioli e su Amazon.
Indice
1. Le vicende giudiziarie
Il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale ordinario di Firenze procedeva, nelle forme del giudizio abbreviato. nei confronti di un imputato, condannandolo alla pena di quattro anni di reclusione, oltre alle pene accessorie, per il delitto di violenza sessuale aggravata di cui agli artt. 609-bis e 609-ter, comma 1, numeri 2) e 5), cod. pen..
Ciò posto, a seguito della condanna, l’imputato aveva chiesto l’applicazione di una pena sostitutiva. Il processo, quindi, era stato sospeso, ai sensi dell’art. 545-bis del codice di procedura penale, per consentire la predisposizione di un programma di trattamento da parte dell’Ufficio di esecuzione penale esterna (UEPE).
Orbene, per siffatto giudice, se tale programma (che prevede la detenzione domiciliare, lo svolgimento di attività lavorativa e il mantenimento di contatti con lo stesso UEPE), integrato con la prescrizione della partecipazione a un percorso di recupero presso uno degli enti indicati nell’art. 165, quinto comma, cod. pen., sarebbe stato «idoneo a fornire una risposta sanzionatoria adeguata alla gravità del reato commesso e […], rispetto alla esecuzione della pena detentiva carceraria, più idoneo alla rieducazione dell’imputato consentendo l’applicazione di misure e prescrizioni prive di effetti desocializzanti», pur tuttavia il dato normativo non consentiva la sostituzione della pena la quale, invece, sempre tale organo giudicante, avrebbe comportato effetti desocializzanti gravi separando l’imputato da un contesto di relazioni instaurate con gli operatori della Onlus e comportando la perdita del lavoro.
Dal canto suo, la Corte di Appello di Firenze, seconda sezione penale, era investito di un appello proposto dall’imputato contro una sentenza con la quale il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Firenze lo aveva condannato, all’esito del giudizio abbreviato, alla pena di tre anni e due mesi di reclusione, previo riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche e di quella di cui all’art. 62, numero 6), cod. pen., per i reati di pornografia minorile (art. 600-ter cod. pen.) e violenza sessuale di gruppo aggravata (artt. 609-octies e 609-ter, numero 5, cod. pen.).
Orbene, per siffatta Corte territoriale, a fronte del fatto che, non essendo stata accolta la richiesta principale di concordato con rinuncia ai motivi di appello, né le altre richieste di merito di «assoluzione, riduzione della pena e sospensione condizionale della stessa, accesso a percorso di giustizia riparativa», si sarebbe dovuta confermare la responsabilità penale dell’imputato, per la quale si riteneva non congrua una pena pari o inferiore a quella di due anni e sei mesi di reclusione, tale Corte era quindi chiamata a decidere «sulla quantificazione della pena che, per la sua entità, non potrà essere condizionalmente sospesa, e [sul]la valutazione della richiesta di applicazione di pene sostitutive ai sensi dell’art. 58, comma 1, legge n. 689/1981»: pene che sarebbero apparse «idonee alla rieducazione dell’imputato, incensurato e di giovane età, in tal modo assicurando la prevenzione del pericolo di reiterazione di condotte criminose».
Pur tuttavia, considerato, inoltre, che non vi sarebbero stati elementi ostativi alla formulazione di una prognosi positiva circa l’adempimento delle prescrizioni connesse alla pena sostitutiva («avendo [costui] già positivamente intrapreso un percorso di responsabilizzazione per uomini maltrattanti»), per questi giudici di seconde cure, sarebbero sussistiti tutti i presupposti normativamente previsti ai fini dell’applicazione delle pene sostitutive, se non fosse per il «chiaro dettato normativo» di cui all’art. 59, primo comma, lettera d), della legge n. 689 del 1981, nella parte in cui non consente di sostituire la pena detentiva breve nei confronti di un condannato (quale quello del giudizio a quo) per uno dei reati di cui all’art. 4-bis ordin. penit.. Per supporto ai professionisti, abbiamo preparato uno strumento di agile consultazione, il “Formulario annotato del processo penale 2025”, giunto alla sua V edizione, acquistabile sullo Shop Maggioli e su Amazon.
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2. Le questioni prospettate nelle ordinanze di rimessione: illegittimità costituzionale dell’art. 59 della legge 24 novembre 1981, n. 689
In relazione alle vicende giudiziarie suesposte, ambedue i suddetti giudici sollevavano talune questioni di legittimità costituzionale (nei termini che vedremo da qui a breve).
In particolare, incominciando da quanto disposto dal Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale ordinario di Firenze, siffatto organo giudicante sollevava questioni di legittimità costituzionale dell’art. 59 della legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale), in riferimento agli artt. 3 e 27, terzo comma, della Costituzione, «laddove la norma prevede, in via assoluta, che la pena detentiva non possa essere sostituita nei confronti di imputati infraventunenni di reati di cui all’art. 609 bis c.p. anche quando il giudice ritenga che il rischio di recidiva possa essere salvaguardato dall’applicazione d[i] una sanzione sostitutiva».
Più nel dettaglio, in punto di rilevanza della questione sollevata, la rimettente esponeva che l’art. 59 della legge n. 689 del 1981, come sostituito dall’art. 71, comma 1, lettera g), del decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 150 (Attuazione della legge 27 settembre 2021, n. 134, recante delega al Governo per l’efficienza del processo penale, nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari), prevede che la pena detentiva non possa essere sostituita «nei confronti dell’imputato di uno dei reati di cui all’art. 4-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354» (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), fra i quali il delitto per cui l’imputato era stato condannato.
La questione, quindi, per il giudice a quo, sarebbe stata rilevante «atteso che, ove fosse esclusa la preclusione assoluta all’applicazione della misura sostitutiva, questa potrebbe in concreto essere applicata all’imputato».
Quanto invece alla non manifesta infondatezza, la preclusione «assoluta» prevista dalla norma censurata, ad avviso di questo giudice, presenterebbe «caratteri di irrazionalità» e si porrebbe in contrasto con gli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost., evidenziandosi a tal riguardo che «[d]al sistema complessivo della disciplina relativa alle misure sostitutive» risulterebbe il «favor» del legislatore per le pene sostitutive, tanto che le stesse sarebbero applicabili «anche nei confronti di soggetti per i quali sussiste pericolo di recidiva e […] di soggetti nei cui confronti tale rischio sia stato valutato concreto ed attuale tanto da comportare l’applicazione ed il mantenimento di una misura cautelare» fermo restando che, a conferma di ciò, si trarrebbe, oltre che dal tenore letterale della norma censurata, anche dall’art. 300, comma 4-bis, cod. proc. pen. e dall’art. 58 della legge n. 689 del 1981 tenuto conto altresì del fatto che la preclusione «più importante» all’accesso alle pene sostitutive riguarderebbe esclusivamente il titolo di reato per cui si procede, risultando «le altre preclusioni […] del tutto razionali e riconnesse alla pericolosità sociale dell’imputato o a suoi comportamenti».
Per di più, sempre per tale organo giudicante, la disposizione censurata, mediante un «richiamo generalizzato a tutti i reati previsti dall’art. 4 bis L. 26 luglio 1975 n. 354 che, come noto, prevede un regime penitenziario molto diverso a seconda delle diverse categorie di reati ricomprese nell’elenco», comporterebbe che, ai fini dell’applicazione delle pene sostitutive, tali diverse categorie di reato ricevano invece un trattamento «unitario», oltre alla considerazione secondo la quale sarebbe, per giunta, irragionevole che «pur al momento dell’applicazione di una sanzione di natura penale che deve avere carattere retributivo, specialpreventivo e rieducativo non si consenta al giudice di valutare le condizioni soggettive dell’autore del reato soprattutto ove queste, unite alle circostanze concrete in cui è stato commesso il fatto, consentano di escludere un rischio attuale di recidiva ovvero la possibilità di contenerlo con una efficace misura diversa dalla detenzione».
Altrettanto irragionevole sarebbe, per il giudice a quo, la conseguenza discriminatoria che la preclusione «per titolo astratto di reato» comporterebbe tra «persone che hanno riportato condanna alla stessa pena, cosicché una persona condannata alla pena di 4 anni di reclusione per un reato non ostativo […] potrà vedersi applicata una misura sostitutiva anche se vi sia un rischio di recidiva e sia sottoposta a misura cautelare, mentre una persona condannata per un reato ostativo non potrà vedersi applicata una sanzione sostitutiva anche se condannata a pena inferiore e anche ove non sussista nessun pericolo di recidiva ovvero se il rischio possa essere contenuto con una misura non carceraria».
La rimettente evidenziava, infine, che «l’imputato, minore di anni 21, avrebbe lo stesso trattamento riservato a soggetti pienamente adulti» e «per effetto della doppia ostatività prevista per i reati di cui all’art. 4-bis ordinamento penitenziario non potrebbe che essere inserito, per almeno un anno, in un sistema carcerario con gravi effetti desocializzanti pur se potrebbero essere applicate misure sanzionatorie valutate dal giudice della cognizione sicure ed efficaci, e ciò sulla base di una opzione normativa del tutto astratta».
Chiarito ciò, venendo ad esaminare la posizione assunta dalla Corte di Appello fiorentina, siffatta Corte territoriale sollevava questioni di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3, 27, terzo comma, e 76 Cost., dell’art. 59, primo comma, lettera d), della legge n. 689 del 1981, come sostituito dall’art. 71, comma 1, lettera g), del d.lgs. n. 150 del 2022, nella parte in cui «non consente la sostituzione della pena detentiva nei confronti dell’imputato di uno dei reati di cui all’art. 4 bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, salvo che sia stata riconosciuta la circostanza attenuante di cui all’art. 323 bis, secondo comma, c.p.».
Ebbene, se in punto di rilevanza, tali giudici di secondo grado la facevano risalire dal fatto che, solo «previa declaratoria di illegittimità costituzionale della norma anzidetta» «nell’irrogare una pena superiore ad anni due e mesi sei di reclusione», si sarebbe potuta applicare una pena sostitutiva alla detenzione, in riferimento invece alla non manifesta infondatezza della suddetta questione, codesti giudici osservavano prima di tutto, una volta esclusa la possibilità di una interpretazione costituzionalmente conforme della disposizione censurata, stante il carattere chiaro e univoco del dato normativo, come si dovesse dubitare della sua compatibilità con gli artt. 3, 27, terzo comma, e 76 Cost..
Nel dettaglio, in riferimento all’art. 76 Cost., secondo questo giudice a quo, il legislatore delegato avrebbe tradito le rationes sottese alla legge n. 134 del 2021; in particolare, costui avrebbe disatteso il principio e criterio direttivo rinvenibile nell’art. 1, comma 17, lettera c), della legge delega, che richiedeva al Governo di «prevedere che le sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi possano essere applicate solo quando il giudice ritenga che contribuiscano alla rieducazione del condannato e assicurino, anche attraverso opportune prescrizioni, la prevenzione del pericolo che egli commetta altri reati; disciplinare conseguentemente il potere discrezionale del giudice nella scelta tra le pene sostitutive», tenuto conto altresì del fatto che le finalità della riforma delle pene sostitutive perseguite dal legislatore delegante emergerebbero «dalla relazione finale della Commissione di studio istituita con d.m. 16 marzo 2021 per elaborare proposte di riforma in materia di processo e sistema sanzionatorio penale, nonché in materia di prescrizione del reato»; sulla base dei lavori di tale Commissione, infatti, sarebbe stato formulato l’emendamento 1.502 del 14 luglio 2021, di iniziativa governativa, al disegno di legge A.C. 2435, all’origine della delega conferita dall’art. 1, comma 17, della legge n. 134 del 2021.
Per la Corte territoriale, del resto, rivitalizzando l’istituto delle pene sostitutive, scarsamente utilizzato nella prassi, il legislatore delegante, da un lato, avrebbe inteso mettere a disposizione del giudice di cognizione, già nella fase di commisurazione della pena, risposte sanzionatorie alternative alle pene detentive brevi o comunque di durata contenuta, «in coerenza sia con il principio del minimo sacrificio necessario della libertà personale, sia con la necessaria finalità rieducativa della pena di cui all’art. 27, terzo comma, Cost.», dall’altro lato, avrebbe perseguito lo scopo di incentivare definizioni alternative del processo, con conseguente alleggerimento complessivo dei carichi del sistema penale.
La ratio sottesa alla legge delega sarebbe d’altronde, a sua volta, espressa dall’art. 58 della legge n. 689 del 1981, secondo cui «le sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi posso[no] essere applicate dal giudice solo allorché egli ritenga le stesse funzionali alla rieducazione del condannato e idonee a prevenire il pericolo di recidiva».
Per la Corte di Appello di Firenze, se al giudice della cognizione, quindi, sarebbe rimesso, di regola, un apprezzamento discrezionale in relazione alle circostanze del caso concreto, sì da consentirgli di individuare la pena sostitutiva più adatta a perseguire tale duplice finalità, la modifica apportata dal legislatore delegato all’art. 59 della stessa legge, tuttavia, avrebbe sottratto al giudice della cognizione il predetto apprezzamento, introducendo una presunzione legale di inidoneità della sanzione sostitutiva «a perseguire i fini cui è preposta», destinata a venire meno solo quando sia stata riconosciuta l’attenuante di cui all’art. 323-bis, secondo comma, cod. pen.
La preclusione di cui all’art. 59 della legge n. 689 del 1981 si porrebbe, inoltre, sempre ad avviso di questo giudice a quo, in contrasto pure con gli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost. dato che sarebbe «del tutto irragionevole ancorare una presunzione legale di inidoneità della pena sostitutiva a perseguire i fini di legge al mero titolo di reato addebitato all’imputato, a prescindere da una valutazione delle peculiarità del caso concreto», tale da «aprire al rischio di trattare in maniera diversa situazioni differenziate dal titolo di reato ma connotate, in concreto, da eguale gravità», così come sarebbe parimenti irragionevole che, «al momento dell’applicazione di una sanzione di natura penale che deve avere carattere retributivo, specialpreventivo e rieducativo, non si consenta al giudice della cognizione di valutare le condizioni soggettive dell’autore del reato soprattutto ove queste, unite alle circostanze concrete in cui è stato commesso il fatto, consentano di escludere un rischio attuale di recidiva ovvero la possibilità di contenerlo con una misura efficace diversa dalla detenzione».
Infine, la preclusione impedirebbe al giudice della cognizione di «individualizzare il trattamento sanzionatorio attraverso l’applicazione di una pena sostitutiva a quella detentiva che, alla luce delle specificità del caso concreto», appaia idonea a «perseguire la funzione rieducativa del condannato più e meglio dell’esperienza detentiva in carcere, che, come noto, produce sovente un effetto desocializzante e di involuzione della persona, anche alla luce della situazione critica in cui versano le carceri italiane».
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3. La soluzione adottata dalla Consulta
La Corte costituzionale – dopo avere rilevato che le ordinanze summenzionate prospettavano questioni in larga parte analoghe afferenti alla stessa disposizione, sicché i relativi giudizi erano riuniti per essere definiti con unica decisione, stimato le eccezioni proposte dall’Avvocatura generale dello Stato infondate – procedeva prima di tutto all’esame della questione sollevata dalla Corte d’appello di Firenze in riferimento all’art. 76 Cost., reputandola infondata.
In particolare, ad avviso del Giudice delle leggi, la Corte rimettente ometteva di considerare il criterio, immediatamente successivo a quello da essa invocato, di cui alla lettera d) dell’art. 1, comma 17, della legge delega, che impegnava il Governo a «ridisciplinare opportunamente le condizioni soggettive per la sostituzione della pena detentiva, assicurando il coordinamento con le preclusioni previste dall’ordinamento penitenziario per l’accesso alla semilibertà e alla detenzione domiciliare» [corsivo aggiunto], in guisa tale che l’obiettivo del legislatore delegante era, dunque, quello di assicurare un coordinamento, quanto alle possibilità di accesso, tra le pene sostitutive della semilibertà e della detenzione domiciliare e le corrispondenti misure alternative alla detenzione della semilibertà e della detenzione domiciliare, previste dall’ordinamento penitenziario: misure, queste ultime, che condividono il medesimo nomen iuris delle prime, pur senza mutuarne necessariamente i contenuti (sentenze n. 176 del 2024, punto 3 del Considerato in diritto, e n. 84 del 2024, punti 3 e 3.3.1. del Considerato in diritto), e ciò all’evidente fine di evitare che, in sede di giudizio di cognizione, fossero garantite più ampie possibilità di accesso a tali pene sostitutive rispetto alle possibilità del condannato di beneficiare, in sede di esecuzione, delle corrispondenti misure alternative.
Del resto, evidenziavano sempre i giudici di legittimità costituzionale nella pronuncia qui in commento, come evidenziato nella relazione illustrativa al d.lgs. n. 150 del 2022, la previsione dell’art. 59, primo comma, lettera d), della legge n. 689 del 1981 è stata introdotta dal legislatore delegato in specifica attuazione del criterio di cui alla lettera d) dell’art. 1, comma 17, della legge delega n. 134 del 2021 posto che nella relazione si osserva, quanto alla riscrittura dell’art. 59 della legge n. 689 del 1981 operata dal decreto legislativo, che «[l]e prime tre condizioni soggettive (lett. a-c) si sostituiscono alle quattro previste oggi dal primo e dal secondo comma dell’art. 59. La quarta condizione (lett. d) assicura il coordinamento con le preclusioni previste dall’ordinamento penitenziario, conformemente alla legge delega», fermo restando che siffatta relazione prosegue sottolineando che «pene detentive di breve durata, non superiori a quattro anni, possono essere inflitte anche agli autori di reati inclusi nel catalogo dell’art. 4 bis ord. penit.», come del resto dimostra «la previsione dell’art. 656, co. 9 c.p.p., che esclude la sospensione dell’ordine di esecuzione ex art. 656, co. 5 c.p.p. nei confronti dei condannati per reati di cui all’art. 4 bis ord. penit.».
Nella necessità di dare attuazione al criterio di delega, il Governo ha dunque ritenuto che «un ragionevole e opportuno coordinamento con le preclusioni all’accesso alle misure alternative, previste dalla l. n. 354/1975, debba essere realizzato escludendo la sostituzione della pena detentiva in caso di condanna per uno dei reati di cui all’art. 4 bis ord. penit.» poiché, «[s]e non si prevedesse una simile preclusione, […] la disciplina dell’art. 4 bis ord. penit. (e dell’art. 656, co. 9 c.p.p.) risulterebbe sostanzialmente elusa: sarebbe irragionevole limitare la concessione della semilibertà e della detenzione domiciliare, quali misure alternative alla detenzione, subordinandole alla collaborazione e alle ulteriori stringenti condizioni sostanziali e procedurali previste dall’art. 4 bis, oltre che consentire al giudice all’esito del giudizio di cognizione di applicare la semilibertà sostitutiva o la detenzione domiciliare sostitutiva o, addirittura, il lavoro di pubblica utilità sostitutivo».
La relazione precisa, ulteriormente, che «[c]onsentire tout court l’applicazione delle pene sostitutive in ordine ai reati di cui all’art. 4 bis ord. penit. non realizzerebbe alcun coordinamento con l’ordinamento penitenziario e contrasterebbe con l’indicazione della legge delega. Detto ciò, si ritiene che l’unica ipotesi in cui sia possibile e ragionevole sostituire la pena detentiva in caso di condanna per uno dei reati di cui all’articolo 4 bis sia quella in cui il giudice di cognizione ritiene applicabile la circostanza attenuante della collaborazione di cui all’art. 323 bis, co. 2 c.p., richiamata dall’art. 4 bis per individuare la condotta collaborativa che funge da presupposto per la concessione delle misure alternative alla detenzione nei confronti dei condannati per alcuni delitti contro la pubblica amministrazione. Se il giudice di cognizione ha già accertato la collaborazione rilevante ai fini dell’art. 4 bis, non vi è ragione per precludere l’applicazione delle pene sostitutive, anticipando la concessione delle misure alternative da parte del tribunale di sorveglianza».
Orbene, pur a fronte del fatto che i difensori degli imputati e l’amicus curiae sostenevano, tuttavia, che l’esigenza – imposta dal criterio di delega di cui alla lettera d) dell’art. 1, comma 17, della legge n. 134 del 2021 – di assicurare la compatibilità della disciplina rispetto alla normativa penitenziaria non comportasse affatto la necessità, per il legislatore delegato, di dettare per le pene sostitutive una disciplina pressoché identica a quella prevista per le misure alternative alla detenzione, e aggiungevano che, comunque, tale esigenza sarebbe stata perseguita «su un piano contraddittoriamente peggiorativo» rispetto alla precedente formulazione dell’art. 59 della legge n. 689 del 1981, che non prevedeva alcuna preclusione per l’applicazione delle sanzioni sostitutive con riferimento ai reati inclusi nel catalogo dell’art. 4-bis ordin. penit., oltre a ritenere costoro che, anche ove si volesse giustificare la preclusione introdotta per i reati di cui all’art. 4-bis ordin. penit. quale riflesso di una presunzione di pericolosità sociale, ne sarebbero irragionevoli i tratti di assolutezza, a fronte della relatività della corrispondente presunzione di pericolosità sociale stabilita nell’ordinamento penitenziario per le varie categorie di reati ostativi, che oggi prevede precise condizioni per il suo superamento in ciascun caso concreto, si rammentava però al riguardo che, secondo la costante giurisprudenza costituzionale in materia di delegazione legislativa, il Governo gode in via generale di ampi poteri di «“riempimento” normativo» dei criteri indicati dalla legge delega, entro i limiti fissati dal suo oggetto e dalla sua ratio, e all’interno comunque delle scelte di fondo da essa fissati (sentenza n. 22 del 2024, punti 7 e 8 del Considerato in diritto, e ivi ampi riferimenti alla giurisprudenza precedente), tenuto conto altresì del fatto che, recentemente, proprio a proposito dell’incisiva riforma compiuta mediante il d.lgs. n. 150 del 2022, in attuazione della legge delega n. 134 del 2021, si precisava altresì che il «fisiologico margine di discrezionalità connaturato all’istituto stesso della delegazione» è «specialmente ampio – fatte salve eventuali puntuali indicazioni su singoli profili che la legge delega abbia comunque fornito – nel caso in cui il Governo sia chiamato a riforme normative di ampio respiro […], le quali richiedono interventi su distinti corpora normativi e complesse operazioni di coordinamento sistematico tra le molteplici discipline su cui la riforma deve necessariamente incidere» (sentenza n. 84 del 2024, punto 3.5. del Considerato in diritto).
Ebbene, alla luce di tali indicazioni, per il Giudice delle leggi, deve escludersi che il legislatore delegato abbia, mediante la censurata riformulazione dell’art. 59 della legge n. 689 del 1981, ecceduto i margini di discrezionalità conferitigli dalla legge delega nel prevedere una preclusione generale alla sostituzione della pena per gli imputati dei reati di cui all’art. 4-bis ordin. penit., per i quali l’accesso alle misure alternative è previsto solo in seguito a complessi accertamenti, da compiersi in fase esecutiva.
Tal che se ne faceva discendere come il legislatore delegato abbia, evidentemente, ritenuto che l’anticipazione di tali accertamenti nel giudizio di cognizione fosse incompatibile con l’obiettivo – coerente con la finalità generale della riforma di assicurare la «semplificazione, speditezza e razionalizzazione del processo penale» (art. 1, comma, 1, della legge delega) – di consentire già al giudice della cognizione, nel quadro di un procedimento il più possibile celere, la valutazione sull’ammissione del condannato a una pena da scontarsi del tutto al di fuori del carcere; optando poi per sottrarre a tale preclusione soltanto l’ipotesi dell’imputato di reati contro la pubblica amministrazione cui sia (già) stata riconosciuta, in esito al processo di cognizione, la circostanza attenuante della collaborazione di cui all’art. 323-bis cod. pen., proprio perché in tale ipotesi l’interessato, una volta passata in giudicato la sentenza di condanna, non sarebbe più incorso in alcuna preclusione alla concessione delle corrispondenti misure alternative, senza necessità di ulteriori accertamenti, dal momento che tali scelte appaiono del tutto compatibili con la (invero generica) indicazione della legge delega di assicurare il «coordinamento» della disciplina delle riformate pene sostitutive con le preclusioni stabilite dall’ordinamento penitenziario, e in particolare dal suo art. 4-bis, che è all’evidenza la disposizione centrale a questo proposito, fermo restando che, né la violazione della legge delega potrebbe dedursi, come sostenuto dai difensori delle parti e dall’amicus curiae, dalla scelta del legislatore delegato di introdurre ex novo nel testo dell’art. 59 della legge n. 689 del 1981 una preclusione assoluta per gli imputati dei reati di cui all’art. 4-bis ordin. penit., dal momento che l’esigenza di coordinamento tra le due discipline (pene sostitutive e ordinamento penitenziario) nasceva proprio dalla decisione – prefigurata dalla legge delega, e attuata dal legislatore delegato – di allargare incisivamente la platea dei possibili destinatari della sostituzione: platea che oggi comprende i condannati a pene detentive non superiori a quattro anni, mentre in precedenza era applicabile ai condannati a pene detentive non superiori, secondo i casi, a sei mesi, un anno e due anni (art. 53 della legge n. 689 del 1981, nella formulazione anteriore alla riforma del 2022).
Orbene, per la Corte, una tale estensione della sostituzione della pena detentiva a condannati per reati anche notevolmente più gravi (e le cui pene eccedessero il limite di ammissibilità della sospensione condizionale) poneva necessariamente il problema del suo coordinamento con le preclusioni stabilite dall’ordinamento penitenziario: problema, come si è detto, che la legge delega ha puntualmente sottoposto all’attenzione del Governo, conferendogli ampio margine discrezionale con riguardo alla sua soluzione, sia pure entro i limiti segnati dalla ratio complessiva della delega, ispirata anche a criteri di semplificazione e speditezza della disciplina processuale.
Né, infine, si stimava eccedente i margini di discrezionalità conferiti dalla delega la decisione del Governo di configurare tale preclusione come assoluta, a fronte della relatività della presunzione di pericolosità stabilita nell’ordinamento penitenziario, ove la presunzione può – peraltro – essere superata solo all’esito di accertamenti di regola compiuti una volta che l’esecuzione della pena abbia avuto inizio, tanto più se si considera che, se poi l’assolutezza della previsione sia anche conforme ai principi di eguaglianza e finalità rieducativa della pena evocati dai rimettenti è questione diversa, che non attiene al rispetto dei criteri della legge delega ai sensi dell’art. 76 Cost. bensì – appunto – al piano della verifica della compatibilità della nuova disciplina con gli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost..
Ciò posto, per quanto invece concerne le questioni, sollevate da ambedue le ordinanze succitate, in riferimento all’art. 3 Cost., si riteneva necessario esaminare in via preliminare i singoli profili di censura formulati dai rimettenti, anche alla luce delle ulteriori argomentazioni sviluppate dalle parti e dall’amicus curiae, una considerazione di carattere generale.
Orbene, si evidenziava prima di tutto come la riforma del 2022 abbia, con nettezza, inteso configurare le pene sostitutive come autentiche pene, destinate come tali ad arricchire gli strumenti sanzionatori a disposizione del giudice della cognizione per realizzare le funzioni proprie della sanzione penale, desumendosi ciò dall’introduzione, nel Libro I del codice penale, del nuovo art. 20-bis cod. pen., che espressamente le elenca, così completando il novero delle pene principali e accessorie già indicate negli articoli precedenti del Capo I del Titolo II (dedicato, appunto, alle pene) del Libro I del codice penale, notandosi al contempo che una simile scelta è del resto esplicitata dalla relazione illustrativa del d.lgs. n. 150 del 2022, in cui si chiarisce che le pene sostitutive riformate debbono intendersi, appunto, come «vere e proprie pene […] diverse da quelle edittali (detentive e pecuniarie), irrogabili dal giudice penale in sostituzione di pene detentive, funzionali alla rieducazione del condannato, così come a obiettivi di prevenzione generale e speciale».
Tutto ciò viene quindi reputato dalla Corte in coerenza con la preziosa indicazione dello stesso art. 27, terzo comma, Cost., che ragiona di «pene» al plurale: stimolando così il legislatore a sperimentare forme di reazione sanzionatoria diverse – e in ipotesi più conformi tanto al senso di umanità, quanto alla funzione rieducativa – rispetto alla tradizionale pena carceraria.
Se, però, le pene sostitutive sono a tutti gli effetti delle pene, per il Giudice delle leggi, non pare potersi negare che, in linea di principio, il legislatore debba poter decidere a quali tipologie di reato esse debbano o possano trovare applicazione, esattamente come accade rispetto alle pene detentive, a quelle pecuniarie, a quelle accessorie, alla confisca, e così via.
Più in particolare, non può disconoscersi al legislatore un’ampia discrezionalità nella determinazione dei limiti oggettivi entro i quali l’applicazione di tali pene sia possibile per il giudice; limiti oggettivi che, a loro volta, ben possono essere individuati tramite la fissazione di una soglia massima di pena detentiva entro la quale la sua sostituzione è ammissibile, così come mediante l’indicazione di reati per i quali la sostituzione può essere o, viceversa, non può essere operata – e sempre che, rispetto alle esclusioni obiettive previste per taluni reati, la scelta del legislatore non risulti manifestamente irragionevole, creando insostenibili disparità di trattamento, né conduca, comunque, a risultati manifestamente sproporzionati.
Il riferimento tanto a limiti di pena (fissati rispetto al minimo o al massimo edittale ovvero, come nel caso ora all’esame, alla concreta determinazione della pena da parte del giudice), quanto a specifici titoli di reato (individuati nominativamente o, come in questo caso, attraverso il richiamo a una categoria definita da altra disposizione), sempre per la Consulta, costituisce del resto una tecnica comune nell’ordito del codice penale, a disposizione del legislatore ogniqualvolta intenda definire l’ambito applicativo di misure che prefigurino un esito sanzionatorio alternativo a quello carcerario, ovvero di non punibilità tout court (le cosiddette misure di “diversion”) fermo restando che, della tecnica dell’individuazione (nominativa, o tramite richiamo ad altre disposizioni) di reati inclusi nella, ovvero sottratti alla, misura il legislatore fa, ad esempio, ampio uso nello stabilire i presupposti della causa di non punibilità della particolare tenuità del fatto di cui all’art. 131-bis cod. pen., così come quelli della sospensione del procedimento con messa alla prova di cui all’art. 168-bis cod. pen. (in quest’ultimo caso sia mediante il riferimento a un limite di pena, sia mediante il rinvio mobile a tutti i reati indicati dal comma 2 dell’art. 550 cod. proc. pen.).
Orbene, i giudici di legittimità costituzionale, a questo punto della disamina – prendendo atto che il GUP di Firenze avesse tuttavia assunto che il richiamo “in blocco” di tutti reati di cui all’art. 4-bis ordin. penit. operato dalla disposizione censurata fosse irragionevole, dal momento che la disposizione richiamata assoggetterebbe le persone condannate per tali reati a discipline eterogenee, pur ritenendo il rilievo – non ulteriormente sviluppato nell’ordinanza di rimessione – in sé, corretto dal momento che l’art. 4-bis ordin. penit. prevede, come è noto, distinti regimi applicabili ai condannati per tre grandi “fasce” di reati, identificati rispettivamente dal comma 1 (prima fascia), dal comma 1-ter (seconda fascia) e dal comma 1-quater (terza fascia), per taluni reati (come nel caso della pornografia minorile e della violenza sessuale di gruppo, di cui si controverte in uno dei giudizi a quibus) applicandosi peraltro un regime “misto”, che comprende elementi della prima e della terza fascia – facevano però al contempo presente che, se è vero che diversi sono i requisiti che l’ordinamento penitenziario pone oggi per il superamento dell’ostatività rispetto a benefici e misure alternative, il dato comune a tutte queste ipotesi è rappresentato dalla necessità di specifici accertamenti, compiuti di regola durante l’esecuzione della pena, che riguardano la persistente pericolosità del condannato, presunta in via generale dall’ordinamento in relazione allo specifico titolo di reato posto a base della sentenza di condanna.
Nell’ottica del legislatore del 2022, è – dunque – proprio tale caratteristica comune a costituire la ratio dell’esclusione degli imputati per i reati di cui all’art. 4-bis ordin. penit. dal novero dei possibili beneficiari delle pene sostitutive, sostenendosi, da parte della Corte costituzionale, che, tuttavia, il superamento della presunzione di pericolosità degli autori di questi reati – presunzione che non era oggetto di discussione nel caso di specie, e che coinvolge comunque reati di significativa gravità e produttivi di particolare allarme sociale – esigerebbe accertamenti che il giudice della cognizione non è ordinariamente in grado di compiere, e che anzi il legislatore dell’ordinamento penitenziario riserva normalmente a una fase di osservazione intramuraria del condannato.
Pertanto, sempre ad avviso del Giudice delle leggi, se la scelta del legislatore non appare, in via generale, manifestamente irragionevole o arbitraria, salva la verifica di una sua eventuale irragionevolezza o sproporzionalità rispetto a singole ipotesi criminose, tra quelle richiamate negli ormai foltissimi elenchi di cui ai vari commi dell’art. 4-bis ordin. penit., con riferimento, però, ai tre reati che vengono in considerazione nei giudizi a quibus (violenza sessuale, violenza sessuale di gruppo e pornografia minorile) – rispetto ai quali peraltro, secondo quanto esposto dai rimettenti, non viene nemmeno in considerazione la circostanza attenuante applicabile nei casi di minore gravità di violenza sessuale e (in forza della sentenza n. 91 del 2024 della Corte costituzionale) di pornografia minorile –, non può ritenersi manifestamente irragionevole una disciplina che preclude in radice la sostituzione della pena dato che, salvo che nel caso in cui sia stata riconosciuta l’attenuante del fatto di minore entità nella violenza sessuale, i condannati per questi stessi reati possono essere ammessi ai benefici penitenziari e alle misure alternative solo sulla base dei risultati dell’osservazione scientifica della loro personalità, condotta collegialmente in carcere per almeno un anno (art. 4-bis, comma 1-quater, ordin. penit.): condizione che, all’evidenza, non può sussistere allorché sia il giudice della cognizione a dover decidere sulla sostituzione della pena detentiva e ciò a prescindere, naturalmente, dalla sperimentabilità di soluzioni diverse da parte del legislatore, come quelle su cui ha posto l’accento il difensore dell’imputato nel giudizio instaurato dalla Corte di Appello di Firenze, nei propri scritti e nella discussione orale; soluzioni volte in sostanza a consentire un percorso di recupero efficace all’imputato che volontariamente vi si sottoponga prima della condanna, i cui risultati potrebbero essere vagliati già dal giudice della cognizione ai fini della sostituzione della pena detentiva.
Pur tuttavia, per la Corte, in ogni caso, non può essere considerata intrinsecamente contraddittoria o addirittura «paradossale» una disciplina che preveda una preclusione assoluta in relazione a questi titoli di reato per l’accesso alle pene sostitutive, a fronte di una disciplina penitenziaria in cui le preclusioni assolute per titolo di reato sono, ormai, scomparse o sono comunque in via di superamento, per l’assorbente ragione che i due termini posti a raffronto non sono omogenei poiché le alternative alle pene detentive previste dall’ordinamento penitenziario per i condannati per reati “ostativi” presuppongono di regola, giusta il disposto dell’art. 656, comma 9, lettera a), cod. proc. pen., l’avvio dell’esecuzione della pena con modalità intramuraria, mentre la sostituzione della pena opera evitando al condannato, sin dall’inizio, il contatto con il carcere.
D’altronde, per la Consulta, non coglieva nemmeno nel segno l’argomento, speso da entrambe le ordinanze di rimessione, secondo cui sarebbe irragionevole non consentire al giudice di valutare la concreta sussistenza di un rischio di recidiva in capo all’imputato, o comunque la possibilità di contenerlo con una misura diversa dalla detenzione posto che, se la valutazione da parte del giudice dell’assenza di pericolo di recidiva ai fini della sostituzione della pena detentiva non è, nell’ottica del legislatore, il contenuto di un diritto di cui sia titolare qualsiasi condannato, un tale diritto spetta, invece, ai soli condannati per i reati per i quali il legislatore – in base a una valutazione discrezionale non manifestamente irragionevole – ha previsto la possibilità per il giudice di irrogare, in luogo della pena detentiva già commisurata, una pena sostitutiva; quest’ultima, dunque, per la Corte, può essere legittimamente prevista e applicata per taluni reati e non per altri, così come accade per ogni altra pena prevista dall’ordinamento penale, in base a valutazioni politico-criminali che possono essere censurate in sede di giustizia costituzionale soltanto ove producano irragionevoli disparità di trattamento, o risultati comunque contrari ai principi di ragionevolezza e proporzionalità.
Sempre ad avviso del Giudice delle leggi, sostanzialmente per le medesime ragioni non era neanche condivisibile l’argomento, svolto da entrambi i rimettenti, secondo cui la disposizione censurata creerebbe irragionevoli disparità di trattamento tra imputati condannati alla medesima pena detentiva soltanto in base al diverso titolo di reato visto che il titolo di reato costituisce, in realtà, un idoneo criterio discretivo – del resto, ampiamente utilizzato dal legislatore – per stabilire quale sia il campo di applicazione di una pena anziché di un’altra.
Quanto poi all’osservazione secondo cui la disposizione censurata impedirebbe di sostituire la pena nei confronti di condannati non pericolosi, mentre altri condannati che presentino un rischio di recidiva potrebbero accedervi, per la Corte costituzionale, essa da un lato trascura di considerare – ancora una volta – che il diverso titolo di reato ben potrebbe giustificare un diverso trattamento in ordine alla pena applicabile e, dall’altro, assume erroneamente che un condannato non recidivo che presenti un rischio di recidiva possa essere ammesso a una pena sostitutiva, laddove invece l’art. 58, primo comma, della legge n. 689 del 1981 autorizza il giudice ad applicarla (soltanto) quando egli ritenga che la pena sostitutiva, «anche attraverso opportune prescrizioni, assicur[i] la prevenzione del pericolo di commissione di altri reati»; chiarendo anzi che «[l]a pena detentiva non può essere sostituita quando sussistono fondati motivi per ritenere che le prescrizioni non saranno adempiute dal condannato».
Infine, non persuadeva neppure l’argomento – svolto dal solo GUP di Firenze – secondo cui la disposizione censurata produrrebbe una irragionevole equiparazione di trattamento tra imputati che abbiano commesso il fatto essendo minori di ventun anni e imputati che l’abbiano commesso a un’età superiore dato che, sebbene regole speciali applicabili ai cosiddetti “giovani adulti” sono previste tanto dal codice penale (in particolare in relazione al diverso limite di pena suscettibile di sospensione condizionale per gli infraventunenni: art. 163, terzo comma, cod. pen.), quanto in materia di esecuzione penale (ex aliis, l’art. 11 del decreto legislativo 2 ottobre 2018, n. 121, recante «Disciplina dell’esecuzione delle pene nei confronti dei condannati minorenni, in attuazione della delega di cui all’art. 1, commi 82, 83 e 85, lettera p, della legge 23 giugno 2017, n. 103»), in conformità alle fonti internazionali di soft law che raccomandano l’adozione di regole differenziate per questa categoria di rei (ad esempio, la rule 3.3. delle Regole minime delle Nazioni Unite sull’amministrazione della giustizia minorile, adottate dall’Assemblea generale con la risoluzione 40/33 del 29 novembre 1985 – le cosiddette “Regole di Pechino” –), ritenendosi che questi dati normativi, pur significativi, non possano essere considerati allo stato sufficienti a configurare, all’interno del sistema penale, un vero e proprio statuto differenziato per i “giovani adulti”, che vincoli in via generale il legislatore a prevedere per gli stessi regole differenti, e più favorevoli, quanto alla scelta della tipologia di sanzione e alla sua quantificazione, e ciò fatta salva, come correttamente rilevato dall’Avvocatura generale dello Stato, la necessità per il giudice di tenere conto anche della giovane età del condannato, nel quadro della valutazione delle sue condizioni personali ai sensi dell’art. 133, secondo comma, cod. pen.
Dal che se ne faceva discendere l’infondatezza anche di questo profilo di censura.
Ciò posto, anche in riferimento alla censura, sostenuta da entrami i giudici rimettenti, secondo cui la disposizione censurata violerebbe altresì l’art. 27, terzo comma, Cost., non consentendo al giudice di individualizzare il trattamento sanzionatorio, scegliendo quello più idoneo a conseguire la funzione rieducativa della pena ed evitando al condannato un ingresso non necessario in carcere, specie alla luce della situazione critica in cui notoriamente versano le carceri italiane, pure essa era stimata dalla Consulta infondata.
In particolare, il Giudice delle leggi notava prima di tutto come la Corte costituzionale abbia, ormai trentacinque anni fa, affermato che «la necessità costituzionale che la pena debba “tendere” a rieducare, lungi dal rappresentare una mera generica tendenza riferita al solo trattamento, indica invece proprio una delle qualità essenziali e generali che caratterizzano la pena nel suo contenuto ontologico, e l’accompagnano da quando nasce, nell’astratta previsione normativa, fino a quando in concreto si estingue» (sentenza n. 313 del 1990, punto 8 del Considerato in diritto).
La finalità rieducativa, per la Corte, è, dunque, coessenziale al volto costituzionale della pena, nell’ordinamento italiano; tanto da non poter essere sacrificata «sull’altare di ogni altra, pur legittima, funzione della pena (sentenze n. 78 del 2007, n. 257 del 2006, n. 68 del 1995, n. 306 del 1993 e n. 313 del 1990)», qualunque sia la gravità del reato commesso dal condannato (sentenza n. 149 del 2018, punto 7 del Considerato in diritto) in modo tale che, non solo le autorità preposte all’esecuzione della pena, ma – ancor prima – il legislatore nella fase di comminatoria edittale, e poi il giudice in sede di irrogazione della pena, sono costituzionalmente vincolati a orientare la propria discrezionalità in maniera tale da favorire – e certamente da non ostacolare – quel «cammino di recupero, riparazione, riconciliazione e reinserimento sociale», nel quale si declina la funzione rieducativa della pena (sentenza n. 179 del 2017, punto 4.4. del Considerato in diritto).
Oltre a ciò, era altresì fatto presente che il principio della finalità rieducativa della pena si integra, inoltre, con il principio del “minimo sacrificio necessario” della libertà personale, che la costante giurisprudenza costituzionale deduce dal particolare rilievo costituzionale della libertà personale, solennemente definita «inviolabile» dall’art. 13 Cost. (sentenza n. 95 del 2025, punto 5.2.3. del Considerato in diritto ed ivi ulteriori riferimenti): con conseguente dovere di puntuale verifica – da parte del legislatore, del giudice di cognizione e poi della magistratura di sorveglianza – dell’effettiva necessità, rispettivamente, della comminatoria, dell’imposizione e della perdurante esecuzione di pene restrittive della libertà personale, e in particolare della detenzione in carcere, trattandosi di una verifica puntuale che vieppiù si impone, in via generale, in una situazione in cui il sovraffollamento delle carceri italiane rende particolarmente arduo il perseguimento della finalità rieducativa, oltre che lo stesso mantenimento di standard minimi di umanità della pena, parimenti imposti dall’art. 27, terzo comma, Cost..
Di talché la Consulta osservava come, sebbene essa stessa non potesse non comprendere le preoccupazioni dei rimettenti (cui fanno eco quelle dell’Unione camere penali italiane, intervenuta in qualità di amicus curiae) con riguardo alla sorte di giovani imputati di condotte pur gravemente offensive dei diritti delle vittime, ma che si trovano attualmente in stato di libertà proprio perché ritenuti non (più) pericolosi, tuttavia, non si poteva non evidenziare che la giurisprudenza costituzionale non si è mai spinta ad affermare che la rieducazione debba essere considerata, per vincolo costituzionale, come l’unica finalità legittima della pena.
Di conseguenza, alla stregua di quanto appena esposto, per i giudici di legittimità costituzionale, il legislatore ben può, dunque, assegnare anche altre finalità alla pena – come il contenimento della pericolosità sociale del condannato e la deterrenza nei confronti della generalità dei consociati –, a condizione appunto di non sacrificare, in nome di queste pur legittime finalità, la sola funzione della pena espressamente indicata quale costituzionalmente necessaria, la rieducazione del reo; e a condizione di assicurare – assieme – il rispetto di tutti gli altri principi costituzionali che limitano la potestà punitiva statale, fermo restando però che lo stesso principio costituzionale del minimo sacrificio necessario della libertà personale non può che essere letto nel senso che il ricorso alla pena detentiva è legittimo solo in quanto sia, appunto, “necessario” (e dunque, non sostituibile mediante pene meno afflittive) e proporzionato rispetto al conseguimento delle legittime finalità della pena: tra le quali anche, e in primis, la funzione di tutela della collettività contro la residua pericolosità sociale del condannato; ad ogni modo, quest’ultima finalità non può, d’altra parte, essere considerata come l’unica a doversi contemperare con la funzione rieducativa della pena e il principio del minimo sacrificio necessario della libertà personale atteso che, se così fosse, al giudice della cognizione dovrebbe essere sempre consentito – per vincolo costituzionale – sostituire qualsiasi pena detentiva, ancorché inflitta per reati gravissimi, con una pena meno afflittiva, ogniqualvolta il condannato non risulti (più) socialmente pericoloso al momento della condanna: conseguenza, questa, che la giurisprudenza costituzionale non ha mai tratto, sinora, né dall’art. 27, terzo comma, Cost., né dall’art. 13 Cost..
Del resto, all’opposto, il diritto penale oggi vigente stabilisce – evidentemente in ottica anche generalpreventiva – che chi è stato condannato per un grave reato deve in ogni caso iniziare a scontare la propria pena in carcere, senza che sia richiesto al giudice di accertarne, caso per caso, la persistente pericolosità sociale dal momento che in quella sede dovrà dunque essere avviato il percorso del suo graduale reinserimento nella società, nel quadro di un trattamento orientato a quei principi di progressività e flessibilità che la risalente giurisprudenza costituzionale ha tratto dall’art. 27, terzo comma, Cost. (ancora, sentenza n. 149 del 2018, punto 5 del Considerato in diritto, e ivi ulteriori riferimenti).
Per la Corte, tutto ciò non esclude però che l’ampliamento del novero delle pene sostitutive e il deciso allargamento delle possibilità di accedervi realizzato con la riforma del 2022 costituisca un passo significativo nella direzione dell’inveramento, da parte dello stesso legislatore, dell’insieme dei principi costituzionali in materia di pena, trattandosi di principi che da sempre sono stati intesi non solo come canoni di legittimità costituzionale delle scelte legislative, ma anche – e ancor prima – come criteri orientativi della politica criminale destinati a essere attuati mediante la dialettica democratica e la costruzione graduale di un consenso nella società, senza il quale essi finirebbero per restare lettera morta, e ciò in quanto le pene sostitutive, applicabili di regola solo previo consenso del condannato, appaiono tendenzialmente più funzionali ad assicurare l’obiettivo della sua rieducazione: evitando gli effetti desocializzanti del carcere e, assieme, accompagnandolo in un percorso che valorizza lavoro, educazione, rafforzamento dei legami familiari e sociali, occasioni di ripensamento critico del proprio passato, ed eventualmente di riconciliazione con la vittima del reato.
Questa evoluzione non può, però, sempre ad avviso del Giudice delle leggi, che procedere gradualmente, anche attraverso sperimentazioni progressive (un analogo rilievo, sentenza n. 52 del 2025, punti 5.2.2., 5.2.3. e 5.2.4. del Considerato in diritto; parimenti sottolineano la prospettiva di un graduale inveramento dei principi costituzionali la sentenza n. 10 del 2024, punto 9 del Considerato in diritto, nonché – in materia tributaria – le sentenze n. 75 del 2025 e n. 162 del 2020, rispettivamente ai punti 5 e 4 del Considerato in diritto), facendosene conseguire da ciò che è allora inevitabile che la sperimentazione coinvolga anzitutto i reati meno gravi, lasciando al margine quelli che il legislatore – con valutazione non arbitraria né discriminatoria – reputi maggiormente offensivi, come indubbiamente sono quelli contestati agli imputati nei processi a quibus dato che ciò che resta essenziale, in questi ultimi casi, è – semmai – che la pena detentiva sia eseguita in condizioni e con modalità tali da incentivare o rendere comunque praticabile il percorso rieducativo, in condizioni rispettose della dignità della persona e del principio di umanità della pena, trattandosi di condizioni, queste, che è preciso dovere del legislatore e dell’amministrazione penitenziaria assicurare, con riguardo a tutti coloro che si trovano, oggi, nelle carceri italiane.
I giudici di legittimità costituzionale, di conseguenza, alla stregua delle considerazioni sin qui esposte, dichiaravano non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 59 della legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale), come sostituito dall’art. 71, comma 1, lettera g), del decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 150 (Attuazione della legge 27 settembre 2021, n. 134, recante delega al Governo per l’efficienza del processo penale, nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari), sollevate, complessivamente in riferimento agli artt. 3, 27, terzo comma, e 76 della Costituzione, dalla Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale ordinario di Firenze e dalla Corte d’appello di Firenze, seconda sezione penale, nelle ordinanze summenzionate.
4. Conclusioni: infondatezza delle questioni suesposte
Fermo restando che l’art. 59 della legge 24 novembre 1981, n. 689, come è noto, prevede al primo comma che la “pena detentiva non può essere sostituita: a) nei confronti di chi ha commesso il reato per cui si procede entro tre anni dalla revoca della semilibertà, della detenzione domiciliare o del lavoro di pubblica utilità ai sensi dell’articolo 66, ovvero nei confronti di chi ha commesso un delitto non colposo durante l’esecuzione delle medesime pene sostitutive; è fatta comunque salva la possibilità di applicare una pena sostitutiva di specie più grave di quella revocata; b) con la pena pecuniaria, nei confronti di chi, nei cinque anni precedenti, è stato condannato a pena pecuniaria, anche sostitutiva, e non l’ha pagata, salvi i casi di conversione per insolvibilità ai sensi degli articoli 71 e 103;c) nei confronti dell’imputato a cui deve essere applicata una misura di sicurezza personale, salvo i casi di parziale incapacità di intendere e di volere; d) nei confronti dell’imputato di uno dei reati di cui all’articolo 4-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, salvo che sia stata riconosciuta la circostanza attenuante di cui all’ articolo 323-bis, secondo comma, del codice penale”, con la decisione qui in esame, la Consulta ha ritenuto siffatto precetto normativo non illegittimo costituzionalmente nella parte in cui, da un lato, prevede, in via assoluta, che la pena detentiva non possa essere sostituita nei confronti di imputati infraventunenni di reati di cui all’art. 609 bis c.p. anche quando il giudice ritenga che il rischio di recidiva possa essere salvaguardato dall’applicazione di una sanzione sostitutiva, dall’altro, in relazione a quanto stabilito dalla lettera d) del primo comma di siffatta disposizione legislativa (in cui, come appena visto, è ivi disposto che la pena detentiva non può essere sostituita nei confronti dell’imputato di uno dei reati di cui all’articolo 4-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, salvo che sia stata riconosciuta la circostanza attenuante di cui all’ articolo 323-bis, secondo comma, del codice penale), nella parte in cui «non consente la sostituzione della pena detentiva nei confronti dell’imputato di uno dei reati di cui all’art. 4 bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, salvo che sia stata riconosciuta la circostanza attenuante di cui all’art. 323 bis, secondo comma, c.p..
Di conseguenza, alla luce di quanto statuito in tale provvedimento, continua a rimanere in essere siffatta impossibilità di sostituire la pena detentiva nei confronti degli imputati infraventunenni di reati di cui all’art. 609 bis c.p. anche quando il giudice ritenga che il rischio di recidiva possa essere salvaguardato dall’applicazione di una sanzione sostitutiva, così come lo stesso discorso rileva laddove non si permette la sostituzione della pena detentiva nei confronti dell’imputato di uno dei reati di cui all’art. 4 bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, salvo che sia stata riconosciuta la circostanza attenuante di cui all’art. 323 bis, secondo comma, c.p..
Queste sono dunque le novità che connotano la sentenza qui in commento.
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