Non è truffatore che si è fidato erroneamente della “Dea Bendata”

Redazione 23/01/12
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Biancamaria Consales

È la decisione della Corte di cassazione che, con sentenza n. 2065 depositata il 19 gennaio 2012, si è pronunciata su di un ricorso proposto avverso la sentenza della Corte di appello di Palermo, di conferma della sentenza del Tribunale di Palermo, con cui il ricorrente veniva condannato ad un anno e cinque mesi di reclusione per ricettazione e truffa. Particolare la fattispecie: un uomo, camminando per le strade di Palermo, raccoglie per terra un biglietto del “Gratta e Vinci” con combinazione vincente. Di conseguenza, in preda all’euforia, si reca in banca al fine di incassare la somma non prima di aver formalizzato la vincita previa esibizione di tutti i documenti richiesti. Ma purtroppo la Dea Bendata gli ha tirato un brutto scherzo: il biglietto “Gratta e Vinci” è falso e, invece della vincita, l’uomo si ritrova una condanna per ricettazione ad un anno e cinque mesi di reclusione, oltre a 700 euro di multa.  Se i primi due gradi di giudizio lo hanno condannato, la Suprema Corte ha dato ragione allo “sfortunato” ricorrente.

Secondo la Suprema Corte, infatti, l’elemento psicologico del reato di ricettazione va rinvenuto in degli elementi di fatto e non può fondarsi su di una “mera petizione di principio” e cioè nell’asserita inverosimiglianza della storia raccontata dall’imputato. Così aveva fatto la Corte d’Appello di Palermo sostenendo che giacché la combinazione vincente non era visibile all’istante, il gesto di raccogliere il biglietto non sarebbe stato credibile, aggiungendo che, non essendo la macchia sul biglietto riconducibile al passaggio delle gomme di un’auto, come ritenuto dall’imputato, ciò ne proverebbero la malafede. I giudici di Piazza Cavour, invece, hanno ritenuto che non è affatto inverosimile che una persona raccolga da terra un biglietto della lotteria per la curiosità di verificarne la combinazione. Per quanto riguarda l’impronta del pneumatico, poi, la superficie sarebbe talmente ridotta da non consentire giudizi in un senso o nell’altro.

Di conseguenza, per gli Ermellini gli elementi raccolti – soprattutto se letti in connessione con il comportamento successivo: l’essersi recato in banca di persona, l’aver presentato il biglietto e fornito copia dei propri documenti personali – non sono sufficiente ad escludere la buona fede del soggetto. Del resto, il tipo di contraffazione era tale per cui in casi analoghi più volte era sfuggita agli stessi addetti ai lavori che avevano pagato il premio, e dunque ben poteva indurre in errore l’uomo comune. Mancava, dunque, nella sentenza di condanna una adeguata motivazione che legasse la ipotizzata consapevolezza della provenienza illecita del biglietto con l’assenza di un successivo comportamento tale da integrare, con artifizi e raggiri, i presupposti della truffa (Biancamaria Consales).

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