Lo ius poenitendi nei contratti finanziari d’investimento . Cassazione civile SS.UU sentenza n. 13905 del 03 Giugno 2013

Jole Veltri 09/04/14
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MASSIMA Le Sezioni Unite della Cassazione hanno ribadito, con la sopracitata sentenza sulla base di un’interpretazione dell’art. 30, comma 6, del d. lgs n. 58/98 (di seguito “TUF”), che il diritto di recesso ivi contemplato e la conseguente previsione di nullità di cui al comma successivo trovano applicazione “non soltanto nel caso in cui la vendita fuori sede di strumenti finanziari da parte dall’intermediario sia intervenuta nell’ambito di un servizio di collocamento prestato dall’intermediario medesimo in favore dell’emittente o dell’offerente di tali strumenti, ma anche quando la medesima vendita fuori sede abbia avuto luogo in esecuzione di un servizio di investimento diverso, ove ricorra la stessa esigenza di tutela”.

Abbastanza chiara appare dunque  la ratio sottesa al principio di diritto enunciato e la conclusione in base alla quale il termine “collocamento” di cui all’art. 30 TUIF non vada inteso nel senso restrittivo del corrispondente servizio, bensì in quello lato di “qualsiasi atto negoziale mediante il quale lo strumento finanziario viene fatto acquisire al cliente a prescindere dalla tipologia del servizio di investimento che abbia dato luogo a tale operazione”, posto che l’aggressività e rischiosità di un’offerta fuori sede non sarà riscontrabile solo nei servizi di collocamento o di gestione di portafogli, bensì anche in quello di negoziazione. In tali casi il discrimine per l’applicazione della norma si sposta dall’individuazione del servizio offerto (collocamento – negoziazione) all’individuazione della fattispecie concreta bisognosa di tutela, posto che, non sarà il servizio ad essere più o meno aggressivo, bensì la circostanza che il servizio o prodotto venga chiesto dall’investitore oppure sollecitato/suggerito dall’intermediario.

 

Le motivazioni della soluzione adottata dalla Corte di Cassazione devono ritenersi in linea con l’interpretazione che, mira a ridurre la potenziale ingannevolezza della fiducia riposta dal consumatore nell’intermediario, e che sta prendendo piede nella dottrina e nella giurisprudenza di merito circa le norme del nuovo Regolamento Consob Intermediari (n. 16190/2007) sull’adeguatezza dell’investimento: una rigida applicazione degli artt. 39 e 40 del Regolamento dovrebbe portare all’osservanza degli obblighi informativi ivi previsti solo laddove il servizio prestato dall’intermediario sia quello di consulenza in materia di investimenti e di gestione di portafogli; invero, le sentenze di merito estendono l’applicazione delle richiamate norme a tutti i servizi di investimento in cui l’intermediario abbia prestato, sia pure in via meramente incidentale, un’attività di consulenza cd. strumentale, abbia cioè proposto il servizio o lo strumento finanziario poi scelto.

E difatti, a parere di supremi giudici di legittimità, laddove sia stato il promotore a proporre il servizio od il prodotto, il ius poenitendi si rende necessario per neutralizzare l’effetto sorpresa e le carenze informative di cui il cliente potrebbe risentire, a contrario laddove sia stato il cliente a prendere l’iniziativa di recarsi dal promotore e prospettargli la volontà di effettuare un determinato investimento, nessuna esigenza di rafforzamento del ius poenitendi può nascere, poiché si presume che la sua scelta sia stata preceduta da congrua riflessione;

L’autorevole dictum delle SS.UU. della Corte di Cassazione trae spunto dal giudizio incardinato dal Sig ****il quale cita in giudizio dinanzi al Tribunale di Palermo la Banca Mediolanum s.p.a., asserendo di aver sottoscritto, a seguito delle sollecitazioni di un promotore di detta banca, delle obbligazioni poi risultate di fatto inesigibili a causa del sopravvenuto fallimento dell’emittente, al fine di far dichiarare la nullità di detto acquisto per diverse ragioni, tra cui la mancata previsione nel contratto del diritto di recesso che il sesto comma dell’art. 30 del d. lgs. n. 58 del 1998 (TUF) attribuisce all’investitore in strumenti finanziari collocati dall’intermediario al di fuori della propria sede.

A fronte della domanda accolta sia in primo che in secondo grado la Mediolanum ha proposto ricorso per cassazione sottolineando, sotto diversi profili, la  non  applicabilità al caso di specie delle citate disposizioni dell’art. 30 del tuf che, a suo giudizio, nel menzionare i “contratti di collocamento” (oltre alla gestione di portafogli), farebbe riferimento alle sole operazioni ricollegabili all’espletamento del servizio di collocamento, quale definito dal precedente art. 1, comma quinto, lett. c), ossia all’offerta al pubblico di strumenti finanziari effettuata dall’intermediario in esecuzione di un contratto da esso stipulato con l’emittente o con l’offerente, su incarico e per conto di quest’ultimo ed alle condizioni da lui indicate.

La prima sezione civile, con ordinanza n. 10376 del 2012, avendo rilevato l’esistenza in dottrina ed in giurisprudenza di opinioni diverse sulla portata delle disposizioni normative sopra menzionate ne ha sollecitato la rimessione alle sezioni unite.
Il quesito sul quale le Sezioni Unite sono state chiamate a pronunciarsi è se la nozione di “contratti di collocamento”, cui la citata disposizione si riferisce ed ai quali quindi si applica la prescrizione concernente l’inserimento a pena di nullità della clausola di recesso in favore del cliente, sia da intendere come circoscritta ai contratti strettamente connessi e conseguenti alla prestazione del “servizio di collocamento”, menzionato dall’art. 1, comma 5, lett. c) (ed ora anche c bis), del TUF, o se invece comprenda qualsiasi operazione in virtù della quale l’intermediario offra in vendita a clienti non professionali strumenti finanziari al di fuori della propria sede, anche nell’espletamento di servizi d’investimento diversi, quali ad esempio quelli di negoziazione o di esecuzione di ordini enunciati alle lett. a) e b) dello stesso quinto comma dell’art. 1.

Appare dunque indispensabile una breve premessa delle norme del TUF che rilevano ai fini della risoluzione del caso di specie. Le Sezioni Unite partono infatti dall’interpretazione dell’art. 30 TUF. Questo disciplina la “offerta fuori sede”, che storicamente deriva dalla figura della sollecitazione al pubblico risparmio e. d. “a domicilio (o “porta a porta”), considerata dall’art. 1, lett. f), della legge n. 1 del 1991 come un’autonoma attività d’intermediazione mobiliare (accanto alla negoziazione ed al collocamento di valori mobiliari, alla raccolta d’ordini, alla gestione di patrimoni ed alla consulenza), ed in seguito disciplinata, invece, già dall’art. 22 del d. lgs. n. 415 del 1996, alla stregua di una particolare modalità di svolgimento di servizi d’investimento diversi.

Il primo comma del citato art. 30 definisce “offerta fuori sede” la promozione ed il collocamento presso il pubblico: a) di strumenti finanziari in luogo diverso dalla sede legale o dalle dipendenze dell’emittente, del proponente l’investimento o del soggetto incaricato della promozione o del collocamento; b) di servizi ed attività di investimento in luogo diverso dalla sede legale o dalle dipendenze di chi presta, promuove o colloca il servizio.

L’esame dell’ art 30 mette in evidenza che termini “collocare” e “collocamento” ivi contenuti siano stati adoperati dal legislatore in un’accezione atecnica. In questo senso la nozione di “servizio di collocamento” non sarebbe “coerente” con la definizione di “offerta fuori sede” contenuta alla lettera b) del primo comma dell’art. 30 TUF, ove si parla di collocamento di “servizi ed attività di investimento”. Sarebbe, infatti, inverosimile parlare di servizio di collocamento in senso proprio, laddove ad essere collocati siano non strumenti finanziari, ma altri servizi di investimento. Le Sezioni Unite sulla base di tali considerazioni  ritengono quindi che il “collocamento” di cui alla lett. b) dell’art. 30, comma 1, TUF stia presumibilmente ad indicare ogni promozione e offerta di servizi di investimento sollecitata dall’intermediario, a prescindere da qualsivoglia rapporto a monte fra emittente e promotore “riconducile alla figura del servizio di collocamento”.
La suddetta conclusione deriva dall’ovvia correlazione della citata disposizione con l’art. 1, comma 5, TUF, che offre la definizione di “servizi e attività di investimento” e nel quale “i contratti di collocamento di strumenti finanziari” (previsti specificamente alle lettere c) e c-bis) rappresentano una species all’interno del più ampio genus dei “servizi e attività di investimento”. Ciò darebbe conto del fatto che il termine “collocamento” di cui alla lettera b) dell’art. 30, comma 1, TUF non sia stato utilizzato dal legislatore nel suo significato tecnico.
Il ragionamento seguito dagli Ermellini sembra comunque esser stato ripreso da precedenti decisioni con cui la Corte di Cassazione aveva già affermato che i termini “promozione e collocamento” di cui all’art. 30, comma 1, TUF “sono usati in senso atecnico, riferito indistintamente agli strumenti finanziari ed ai servizi di investimento”. Tale conclusione non era però servita alla Cassazione, in quella decisione, per superare l’ostacolo letterale rappresentato dalla particolare limitazione della facoltà di recesso ai soli contratti di collocamento e di gestione di portafogli individuali, operata dall’art. 30, comma 6, TUF. Anzi, proprio il criterio di interpretazione letterale aveva condotto il giudice di legittimità a ritenere che, mentre nel primo comma dell’art. 30 TUF il termine “collocamento” sia stato utilizzato in maniera atecnica, nel sesto comma esso designi, al contrario, il servizio di collocamento in senso proprio.

Più in particolare però gli Ermellini si sono chiesti se la portata delle disposizioni in tema di recesso e di eventuale nullità sia circoscritta ai soli contratti stipulati fuori sede a mezzo di promotori da intermediari impegnati nella prestazione di veri e propri servizi di collocamento, (oltre che nel servizio di gestione di portafogli), oppure se anche qui, come già s’è visto a proposito della definizione dell’offerta fuori sede contenuta nel primo comma, la parola “collocamento” sia da intendere in un’accezione più ampia ed in qualche misura atecnica, cioè come sinonimo di qualsiasi operazione implicante la vendita all’investitore di strumenti finanziari, anche nell’espletamento di servizi d’investimento diversi (negoziazione, esecuzione, ricezione o trasmissione di ordini), se effettuata dall’intermediario al di fuori della propria sede.
 
Posto che  lo jus poenitendi menzionato dal sesto comma del citato art. 30  si riferisce ai rapporti contrattuali intrecciati dall’intermediario collocatore, al di fuori della propria sede o dalle dipendenze dell’emittente o dell’offerente, con i destinatari dell’offerta, i supremi giudici della Corte di Cassazione hanno ritenuto decisiva per la soluzione del contrasto l’individuazione della ratio legis sottesa alla previsione del diritto di recesso nel caso di offerta fuori sede. Tale ratio è stata individuata nella volontà di riequilibrare il contratto in tutte quelle ipotesi in cui l’investimento non sia conseguenza di una decisione premeditata del cliente , il quale a tale scopo si sia recato presso la sede dell’intermediario, ma costituisca invece il frutto di una sollecitazione, proveniente da promotori della cui opera l’intermediario si avvale; sollecitazione che, perciò stesso, potrebbe aver colto l’investitore impreparato ed averlo indotto ad una scelta negoziale non sufficientemente meditata. Il differimento dell’efficacia del contratto, con la possibilità di recedere nel frattempo senza oneri per il cliente, vale appunto a ripristinare, a posteriori, quella mancanza di adeguata riflessione preventiva che la descritta situazione potrebbe aver causato.

Se questa, come pare difficilmente contestabile, è l’esigenza di tutela in vista della quale il legislatore ha introdotto la disciplina del recesso nei contratti di collocamento di strumenti finanziari stipulati fuori sede dall’intermediario, è arduo negare che la medesima esigenza si ponga non soltanto per le operazioni compiute nell’ambito della prestazione di un servizio di collocamento in senso proprio, nell’accezione già prima richiamata, ma anche per qualsiasi altra ipotesi in cui l’intermediario venda fuori sede strumenti finanziari ad investitori al dettaglio, sia pure nell’espletamento di un servizio d’investimento diverso. La differenza tra le due descritte situazioni, in questa ottica, appare davvero poco significativa, specie ove si consideri che nel servizio di collocamento “con assunzione a fermo” l’intermediario piazza sul mercato prodotti finanziari rispetto ai quali la sua posizione ed il suo interesse alla vendita sono del tutto analoghi a quelli di una vendita in proprio. Il che avvalora l’opinione secondo cui la parola “collocamento”, nel testo dell’articolo in esame, è da intendere in senso ampio, come sinonimo di atto negoziale mediante il quale lo strumento finanziario vien fatto acquisire al cliente e quindi inserito nel suo patrimonio (o, come nel linguaggio del mercato finanziario si usa dire, nel suo portafoglio), a prescindere dalla tipologia del servizio d’investimento che abbia dato luogo a tale operazione.

Occorre ricordare altresi’ che i giudici delle Sezioni Unite quindi dopo esser partiti dall’esame di due sentenze del 2012 che avevano escluso che il diritto di recesso e la connessa sanzione di nullità in caso di omessa indicazione di tale facoltà trovino applicazione al di fuori dei contratti di collocamento di strumenti finanziari o di gestione di portafogli, hanno criticato tali decisioni per il fatto che qui la Corte aveva ritenuto dirimente la considerazione che, mentre nel servizio di collocamento l’intermediario agisce per conto dell’emittente – nei confronti del quale assume l’impegno contrattuale di promuovere l’acquisto, offrendo servizi finanziari a condizioni di tempo e prezzo predeterminati – i servizi di investimento diversi da quello di collocamento implicano l’instaurazione di rapporti individuali fra intermediario e cliente che comportano, per il primo, l’adempimento di specifiche prestazioni nell’interesse del secondo. Diverse sarebbero quindi, nelle due fattispecie, le condizioni di acquisto del servizio (predeterminate in un caso e libere nell’altro), nonché l’interesse individuale perseguito.

In conclusione i giudici della Suprema Corte di legittimità ribadendo che tale orientamento in precedenza espresso non può esser ulteriormente seguito si sono trovati favorevoli ad un’interpretazione estensiva della citata disposizione dell’art. 30 del tuf, che sia in grado di meglio assicurare la tutela del consumatore, militano d’altro canto i principi generali desumibili dallo stesso testo unico, sicuramente ispirati all’esigenza di effettività dell’indicata tutela, cui da ulteriore rinforzo la previsione dell’art. 38 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE, che, nel garantire “un livello elevato di protezione dei consumatori”, per ciò stesso impone d’interpretare le norme ambigue nel senso più favorevole a questi ultimi. Difficilmente giustificabile  sarebbe, anche sul piano costituzionale una disparità di trattamento  tra l’ipotesi di offerta fuori sede di strumenti finanziari che sia fondata sulla diversa tipologia di servizio d’investimento reso dall’intermediario, quando, per le ragioni già sopra indicate, del tutto analoga è la situazione di maggiore vulnerabilità in cui viene comunque a trovarsi il cliente per il fatto stesso che l’offerta lo raggiunge fuori dalla  sede dell’intermediario o degli altri soggetti indicati dal primo comma del citato art. 30.

Jole Veltri

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