La sospensione della vendita a prezzo ingiusto ex art. 586 c.p.c.

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La legge. n. 203/1991 di conversione del d.l. 152/1991, replicando quanto previsto in materia fallimentare, ha introdotto la possibilità da parte del G.E. di sospendere la vendita (art. 586, primo comma, c.p.c.) “quando ritiene che il prezzo offerto sia notevolmente inferiore a quello giusto”. L’istituto della sospensione a prezzo ingiusto è conforme all’esigenza di alienare il bene ad un prezzo che non sia ingiusto e prescinde da profili criminosi trattandosi di un potere giudiziale discrezionale legittimamente esercitabile laddove vi sia sproporzione fra prezzo di aggiudicazione e giusto prezzo (Cass. civ., sez. III, 18 aprile 2003, n. 6269).

Il potere di sospensione del giudice può essere esercitato, anche dopo il versamento del prezzo, sino alla emanazione del decreto di trasferimento (Cass. 1580/1989, Cass. 1209/1992, Cass. 7453/1993). La sospensione è adottata con ordinanza che può essere oggetto di opposizione agli atti esecutivi. Con l’emissione dell’ordinanza la procedura resta sospesa e gli atti già compiuti vengono revocati e vengono restituite le cauzioni e le somme già versate.

La norma deve ritenersi a riguardo non equivoca, dato che l’alternativa offerta al giudice dell’esecuzione è quella tra sospensione della vendita e pronuncia del decreto di trasferimento del bene espropriato.

La suddetta interpretazione della norma, inoltre, è quella che questa Corte ha già adottato, affermando che la sospensione dell’art. 586 c.p.c. trova applicazione sino a quando non sia intervenuto il decreto di trasferimento del bene espropriato, dal quale soltanto deriva l’effetto traslativo.

L’art. 586 c.p.c. regola le modalità di emissione del decreto di trasferimento ma dall’incipit della norma si ricava un principio fondamentale: il decreto non è un atto dovuto, né una ineludibile conseguenza del versamento del prezzo da parte dell’aggiudicatario.

Dopo la novella del d.l. 152/1991, il giudice dell’esecuzione deve infatti compiere una valutazione sulla congruità del prezzo di aggiudicazione. Se questo è notevolmente inferiore al prezzo “giusto”, può – stando al tenore letterale della norma – “sospendere la vendita”; in realtà – come afferma la dottrina – si tratta di “sospensione” in senso atecnico, dovendosi più propriamente parlare di revoca del provvedimento di aggiudicazione, con restituzione all’aggiudicatario delle somme versate e rifissazione dell’incanto (Cass. 6269/2003).

Vari sono stati i tentativi di codificare il concetto di “giusto prezzo”: si segnalano al proposito le prassi virtuose invalse presso vari tribunali (tra essi Rovigo, Reggio Emilia e Vibo Valentia). In particolare la circolare del Tribunale di Rovigo ha osservato che il giusto prezzo non è quello determinato in base all’art. 568 c.p.c. e neanche con la stima ex art. 569, comma 1, c.p.c. o quello stabilito ex art. 79 d.P.R. 602/1973: il giusto prezzo è quello rappresentato dalla “realizzazione del massimo valore pecuniario, a tutela degli interessi della massa e dello stesso debitore” (Cass. 2259/1985), “in esito alla gara fra gli offerenti” (Cass. 10334/2005; Cass. 1766/1981; Cass. 1092/1974), “attraverso la gara tra più offerenti” (Cass. 9908/1998), “in condizioni di non interferenza di fattori devianti” (Cass. 8464/1999).

Ritenuto ciò, anche in relazione all’esecuzione esattoriale, l’attività liquidatoria dovrà tendere alla “realizzazione del massimo valore pecuniario, a tutela degli interessi della massa e dello stesso debitore” e ad escludere qualsivoglia interferenza di fattori (devianti) che possano ostacolare la partecipazione alla gara o ridurre il ricavato.

Il Tribunale di Vibo Valentia, ad esempio, ha così previsto la scansione delle attività di valorizzazione del bene staggito sulla scorta del fatto che nelle esecuzioni immobiliari disciplinate dal codice di procedura civile (le cui disposizioni sono parzialmente applicabili alla procedura speciale ex art. 49, comma 2, del d.P.R. 602/1973) la gara tra una pluralità di offerenti non condizionata da fattori devianti (che impediscano od ostacolino l’accesso all’incanto) presuppone che:

–                    agli interessati all’immobile (specialmente a quelli “non professionalizzati”) siano fornite tutte le informazioni sulle caratteristiche del cespite che consentano di valutare la convenienza dell’acquisto; ciò è ancora più importante nei periodi di crisi del settore immobiliare, dato che, quando l’offerta è sovrabbondante, l’interesse si manifesta soltanto se le condizioni della compravendita sono vantaggiose e se si offrono garanzie sulla sicurezza dell’acquisto;

–                    delle informazioni (da acquisire tramite apposita perizia) e degli esperimenti di vendita sia data adeguata pubblicità, non solo attraverso le forme indicate dall’art. 80, comma 1, del d.P.R. 602/1973, ma anche nelle forme previste dai novellati artt. 490 e 570 c.p.c.;

–                    ai potenziali offerenti siano state date opportune indicazioni sulle modalità di partecipazione e che agli interessati sia stato consentito di visitare ed esaminare personalmente il bene in vendita (come prevede l’art. 560 c.p.c.): appare indispensabile, perciò, la designazione di un custode giudiziario (ex artt. 65, 559 e 560 c.p.c.), che svolga le funzioni di ausiliario per la liquidazione, allo scopo di collocare utilmente sul mercato il bene posto in vendita;

–                    all’aggiudicatario-acquirente l’immobile sia consegnato libero da cose e da occupanti privi di valido ed opponibile titolo di detenzione: l’esecuzione dell’ordine di liberazione dell’immobile (titolo esecutivo per il rilascio che il giudice dell’esecuzione deve emettere al più tardi al momento dell’aggiudicazione) rientra tra le attività che la legge espressamente attribuisce al custode (art. 560 c.p.c.).

È pacifico che l’istanza di sospensione della vendita a prezzo iniquo non equivale a un’opposizione agli atti avverso l’aggiudicazione: ergo può essere proposta fintantoché il decreto non sia depositato in cancelleria (Cass. 18 aprile 2003, n. 6272) e il provvedimento di rigetto è a sua volta opponibile ex art. 617 c.p.c. nel termine decorrente dalla conoscenza legale (Cass. 18 aprile 2003, n. 6269).

L’allargamento dei motivi rilevanti (non soltanto ai fatti sopravvenuti o ad illegittime interferenze ma anche) alla rivalutazione di fatti preesistenti e non contemplati, oppure addirittura travisati, implica la possibilità del G.E. di disattendere quale “giusto prezzo” di vendita quello da lui stesso indicato nell’ordinanza di vendita, ancorché la stessa non abbia formato oggetto di revoca né di opposizione agli atti. E infatti Cass. 18 aprile 2003, n. 6269 rigetta il motivo di ricorso degli aggiudicatari basato sul presupposto della presunzione di congruità del prezzo indicato nell’ordinanza di vendita, non revocata né oggetto di opposizione agli atti. Quest’orientamento presuppone che l’ordinanza di vendita non abbia avuto integrale esecuzione già con l’aggiudicazione e che perciò possa essere revocata, re melius perpensa, fino all’emissione del decreto di trasferimento.

Nel merito, vi sono luci ed ombre. È da condividere l’osservazione che l’ordinanza di vendita rappresenta un mero programma di vendita per un certo prezzo e non ancora la definitiva fissazione del prezzo stesso: essa non risente perciò della circostanza che la stima risalga a diversi anni prima o che il prezzo base sia indicato in misura inferiore al valore reale di mercato perché non impedisce di realizzare un “giusto prezzo” attraverso il libero gioco dei rilanci da parte degli offerenti e le eventuali offerte dopo l’incanto.

E quindi il rimedio ex art. 586 c.p.c. presuppone non soltanto che vi sia stata una sottovalutazione iniziale o una sopravvenienza che ha inciso in modo notevole sul valore del bene, ma anche che “il mercato”, cioè il libero gioco di offerte e rilanci, non abbia di fatto funzionato per correggere quella sproporzione. In questo senso può condividersi la giurisprudenza che esclude la preclusione a far valere l’ingiustizia del prezzo per effetto della mancata opposizione avverso l’ordinanza di vendita. Questa posizione finisce di fatto per indebolire la tutela dell’aggiudicatario e per spostare in avanti eventuali istanze del debitore intese alla revisione del prezzo di stima che ben avrebbero potuto essere proposte prima della vendita.

Si dovrebbe considerare nella valutazione del “giusto prezzo” anche l’effettiva risposta ricevuta dal mercato: se un immobile è stato messo in vendita più volte, con adeguata pubblicità e nondimeno ha suscitato poco o nullo interesse, sembra difficile non concludere che – nonostante perizie giurate, preliminari, istanze più o meno indirettamente riconducibili al debitore – si tratta di un bene scarsamente appetibile.

Il Tribunale di Vicenza, con sentenza del 18 luglio 2011, ha avuto modo di chiarire che la sproporzione tra il giusto prezzo e quello offerto, affinché si realizzi la condizione richiesta dall’art. 586 c.p.c. per la sospensione della vendita, non deve necessariamente derivare da interferenze illecite (e segnatamente di tipo mafioso come potrebbe far pensare il titolo del decreto legge che ha introdotto la disposizione), ma ben può discendere da fattori del tutto fisiologici (come appunto quello di eccessivi ribassi conseguenza di una serie di aste deserte).

Giuliana Gianna

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