La riforma della pubblica amministrazione: alcune riflessioni da un punto di vista giuridico

Redazione 20/04/03
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di Renzo Remotti
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* I “quattro pilastri” delle riforme amministrative

La stagione che ha modificato in modo più evidente il volto della pubblica amministrazione italiana è iniziata con la legge 15 marzo 1997, n. 59 denominata “Delega al Governo per il conferimento di funzioni e compiti alle regioni ed enti locali, per la riforma della Pubblica Amministrazione e per la semplificazione amministrativa”, anche se le ragioni giuridiche del cambiamento sono da rintracciare, come subito si vedrà, in un radicale mutamento del concetto teorico di interesse legittimo.
La riforma nell’intenzione del legislatore si sarebbe dovuta articolare su quattro punti fondamentali:
· delega al Governo a emanare, entro il 31 marzo 1998, uno o più decreti legislativi volti a conferire a regioni ed enti locali funzioni e compiti amministrativi dello Stato;
· delega al Governo a emanare, entro il 31 gennaio 1999, uno o più decreti legislativi volti a razionalizzare l’ordinamento della Presidenza del Consiglio dei ministri e dei Ministeri, anche attraverso il riordino, la soppressione e la fusione dei Ministeri, oltre a un riordinamento di tutti gli altri Enti pubblici nazionali e l’introduzione di meccanismi di controllo interno della spesa e di valutazione dei risultati;
· delega al Governo a emanare, entro il 31 ottobre 1998, uno o più decreti legislativi volti a completare l’integrazione della disciplina del lavoro pubblico con quella del lavoro privato e la conseguente estensione al lavoro pubblico delle disposizioni del codice civile e delle leggi sui rapporti di lavoro privato nell’impresa;
· autorizzazione al Governo a emanare regolamenti di delegificazione di 112 procedimenti amministrativi.
Di seguito verrà analizzato il contenuto della delega, tentando di dimostrare che le modifiche legislativo-costituzionali già varate o in via di approvazione rappresentano un’operazione coerente, almeno idealmente, di riassetto dello Stato italiano. Verranno presi in esame, pertanto, solo gli aspetti che maggiormente dimostrano tale nesso logico. La delega, in sintesi, prevede:

a) Decentramento e federalismo

L’aspetto di maggior rilievo della riforma consiste nell’aver avviato una vasta opera di decentramento amministrativo, non senza molti elementi di incertezza e contraddittorietà, , opera che rappresenta il primo pilastro della riforma. Compiti e funzioni statale sono stati conferiti a enti pubblici territoriali (regioni, provincie, comuni, comunità montane) con il dichiarato obiettivo d’instaurare il cosiddetto “federalismo amministrativo a costituzione invariata”. E’ appunto quest’ultimo inciso che avrebbe dovuto suscitare le maggiori perplessità, anche di ordine democratico. Il legislatore ha dato per scontato che nella costituzione in nuce fossero previsti i principi propri di uno stato federale. La legge n. 59, invece, riformula il cd. “principio del parallelismo” tra funzione legislativa e funzione amministrativa delle regioni, secondo cui, ai sensi degli articoli 117 e 118 della Costituzione, le regioni esercitano funzioni amministrative tendenzialmente solo nelle materie per le quali hanno competenza legislativa. Con la legge n. 59 il principio si trasforma nel senso che l’amministrazione è propria delle regioni e degli enti locali, anche nelle materie per le quali lo Stato esercita la funzione legislativa, salvo un ristretto elenco di materie per le quali l’articolo 1 della legge riserva l’amministrazione allo Stato (difesa etc.). Non si tratta di modifica di lieve portata. L’art. 118 della costituzione nel testo al tempo vigente sanciva in modo univoco, che l’elenco delle materie indicate dall’art. 117 cost. fosse tassativo e che le leggi avrebbero potuto attribuire nuove competenze a enti territoriali solo per materie di interesse esclusivamente locale. Dopo la riforma il sistema delle competenze è stato invertito. Sono ora di competenza statale solo le materie espressamente indicate, mentre tutte le altre sono attribuite agli enti locali. E’ evidente, perciò, che i due assetti hanno forti elementi di contraddizione. Né si comprende d’altro canto per quale ragione, se non di ordine tecnico-politico, si voleva mantenere la costituzione invariata. Del resto, seppur in ritardo, anche il titolo V della costituzione è stato modificato ed è tuttora in via di riforma, rendendo il sistema legislativo amministrativo un ordinamento più coerente, anche da un punto di vista costituzionale.
L’operazione giuridica della legge n. 59 è stata molto più complessa, dispiegandosi in varie fasi. Gli strumenti legittimi previsti, almeno nelle intenzioni del legislatore, sono molteplici, anche se, a dire il vero, soprattutto da parte degli Enti locali si nota troppo frequentemente la tendenza a chiedere supporti finanziari o legislativi piuttosto che a utilizzare gli strumenti di cui già dispongono. E’ sufficiente pensare a quanto poco sia stata sfruttata l’ampia potestà legislativa, introdotta già dalla legge 14290 s.m. In ogni caso gli strumenti relativamente nuovi sono:

1. Decreti legislativi, già adottati entro il 31 marzo 1998, che hanno individuato in maniera tassativa le funzioni ed i compiti mantenuti in capo allo Stato, elencando poi, seppur in modo puramente esemplificativo, le funzioni conferite a regioni ed enti locali.
2. Leggi regionali, da adottarsi entro sei mesi dall’entrata in vigore di ciascun decreto legislativo, con cui ogni Regione provvede a ripartire tra gli enti locali le funzioni a essa conferite dallo Stato, trattenendo unicamente quelle funzioni che richiedono un unitario esercizio a livello regionale.
3. Decreti del Presidente del Consiglio dei ministri, grazie ai quali si è già provveduto parzialmente, con le modalità e nei termini stabiliti dai decreti legislativi, alla puntuale individuazione dei beni e delle risorse finanziarie, umane, strumentali e organizzative da trasferire nonché alla loro ripartizione tra le regioni e tra regioni ed enti locali. Il trasferimento dei beni e delle risorse dovrà “comunque essere congruo rispetto alle competenze trasferite” e comportare “la parallela soppressione o il ridimensionamento dell’amministrazione statale periferica, in rapporto ad eventuali compiti residui” (art. 7, legge n. 59).
4. Decreti legislativi integrativi e correttivi, che possono essere adottati entro un anno dall’entrata in vigore dei vari decreti; in tale modo il Governo ha la possibilità di ritornare su alcune decisioni, di integrare eventuali lacune, nel rispetto dei principi posti dalla legge n. 59.

b) L’organizzazione dell’amministrazione centrale

Il secondo pilastro della riforma è costituito dalla riorganizzazione dell’amministrazione pubblica, con particolare riguardo alle strutture ministeriali.
A tal fine il Governo è stato delegato a razionalizzare l’ordinamento della Presidenza del Consiglio e dei Ministeri anche attraverso il riordino, la soppressione e la fusione di Ministeri. Si trattava di una delega molto ampia, forse persino eccessiva, comprendendo anche il riordino degli enti pubblici nazionali operanti in settori diversi dall’assistenza e previdenza, nonché degli enti privati, controllati dallo Stato, che operano nella promozione e nel sostegno pubblico al sistema produttivo nazionale. La riforma dell’organizzazione pubblica è strettamente correlata al decentramento delle funzioni amministrative. Si vuole, infatti, in una prima fase decentrare a regioni ed enti locali tutte le funzioni che la legge non riserva espressamente allo Stato e solo successivamente riorganizzare l’amministrazione statale, centrale e periferica, basandosi sui compiti che residuano in capo a tale amministrazione.
Per questa stessa ragione i tempi che la legge pone per le due riforme sono volutamente diversi: entro il 31 marzo 1998 il Governo ha dovuto adottare i decreti legislativi con cui trasferire funzioni amministrative dallo Stato alle regioni ed agli enti locali; per i decreti legislativi di riorganizzazione dell’apparato centrale il termine è invece posto al 31 gennaio 1999, così da permettere di modellare il nuovo assetto dei Ministeri alla luce delle limitate funzioni che residueranno allo Stato. Non si trattava di operazioni semplici presupponendo accorpamenti e soppressioni di Ministeri con riflessi non indifferenti sul personale impiegato nei vari dicasteri. Inoltre l’amministrazione periferica dello Stato è stata pressoché smantellata, logica conseguenza del passaggio di competenze dallo Stato agli Enti locali.

c) La contrattualizzazione del lavoro pubblico

Senza dubbio questo è stato l’aspetto più critico dell’intera riforma, l’unico che non è immediatamente desumibile dall’impianto delle riforme precedentemente indicate. Se il decentramento è una conseguenza della trasformazione federale dello Stato, se la riorganizzazione dei Ministeri ha rappresentato la concreta realizzazione dei principi del decentramento, se, infine, la semplificazione deriva direttamente, come subito si vedrà, dalla nuova concezione di interesse legittimo, la contrattualizzazione del pubblico impiego, compresa la dirigenza statale, non è altro che l’acritica adesione di una corrente dottrinaria, volta a uniformare il lavoro pubblico al privato, dimentica della giuridica differenza tra tali attività lavorative; il primo ad esclusivo servizio dell’interesse nazionale (art. 98 cost.); l’altro volto a realizzare l’interesse dell’impresa, di cui il lavoratore è dipendente (art. 2105 c.c.).
Su questo versante la delega è stata interamente attuata con l’adozione di due provvedimenti: il d.lgs n. 396 del 1997, in materia di contrattazione collettiva, ed il d.lgs n. 80 del 1998, che completa il processo di contrattualizzazione del rapporto di pubblico impiego, avviato con il decreto n. 29 del 1993, estendendo la privatizzazione anche alla dirigenza, ora interamente confluiti nel d.lgs n. 165 del 2001 e successive modifiche. Dopo questi interventi si realizza da un lato la definitiva applicazione del metodo della contrattazione collettiva anche al pubblico impiego e, dall’altro, la piena sottoposizione del rapporto di pubblico impiego alla disciplina del diritto privato, salvo rare eccezioni.

d) La semplificazione

Il quarto e ultimo pilastro dell’impianto riformatore è rappresentato dalla semplificazione dell’azione amministrativa e dei rapporti tra amministrazione e cittadini.
Si riprende così un processo riformatore già avviato con la legge n. 241 del 1990 in tema di disciplina del procedimento e connessi istituti di semplificazione, nonché con la successiva legge n. 537 del 1993. La semplificazione comporta il passaggio da una disciplina dettata quasi per intero dalla legge a un ordinamento di fonte prevalentemente regolamentare, anche se oggetto di tali regolamenti deve riguardare solo l’organizzazione e i procedimenti amministrativi.
L’articolo 13 della legge n. 59 dispone che l’organizzazione e la disciplina degli uffici dei Ministeri, compresa l’individuazione degli uffici di livello dirigenziale generale, venga disciplinata con regolamenti. In questo modo si struttura il sistema normativo della nostra organizzazione pubblica su un modello di tipo francese, in cui la disciplina dell’amministrazione è riservata alla potestà normativa del Governo.
Per quanto concerne i procedimenti amministrativi la legge n. 59, modificata dalla successiva legge n. 191 del 1998, comprende un primo elenco di 112 procedimenti da semplificare, sostituendo alla vecchia disciplina, fondata su diverse leggi stratificatesi nel tempo, una nuova disciplina di rango regolamentare che risponda ai seguenti principi:

1) riduzione del numero delle fasi procedimentali e delle amministrazioni che intervengono nel procedimento;
2) riduzione dei termini per la conclusione dei procedimenti;
3) riduzione del numero dei procedimenti amministrativi e accorpamento di quelli che si riferiscono alla medesima attività, soppressione dei procedimenti che comportino per l’amministrazione e per i cittadini costi più elevati dei benefici conseguibili.

L’adozione dei regolamenti di semplificazione in attuazione della legge n. 59 procede si può dire ancora ora con molta lentezza, anche a causa dell’entità del lavoro occorrente per riordinare una legislazione frammentaria, sovrappostasi negli anni senza ordine alcuno.
Ulteriori norme di semplificazione sono contenute nella legge n. 127 del 1997, in materia di documentazione amministrativa, stato civile, certificazione anagrafica e dichiarazioni sostitutive. Il processo di semplificazione si completerà, anche se il processo è già in fase avanzata, con l’adozione, nei prossimi anni, di testi unici divisi per settore di materia, che dovranno alleggerire l’ordinamento italiano, gravato da oltre 33.000 tra leggi e regolamenti. E’ evidente che si tratta di un obiettivo ambizioso e utile. E’ necessario, comunque, fare alcune riflessioni giuridiche su questo fenomeno di deligificazione. Non è del tutto esatto affermare che il sistema giuridico italiano sia appesantito da troppe leggi, situazione questa fisiologica in ogni democrazia moderna, ove a causa della complessità sociale si impone il succedersi di norme e leggi che via via adattino il diritto ai mutamenti socio-economici continui. Il vero problema non è tanto l’eccessiva numerosità delle leggi, quanto la loro grave frammentarietà e contraddittorietà interna. E’ quest’ultima circostanza che espone i cittadini a una spesso iniqua discrezionalità dei poteri pubblici (magistratura e pubblica amministrazione) nell’interpretazione di leggi confuse. E’ sufficiente una diversa interpretazione perché lo stesso fatto diventi lecito o reato, sanzione o incentivo. La soluzione prospettata dal legislatore non risolve il problema e talvolta lo aggrava. Ormai i regolamenti governativi si succedono nel tempo con una rapidità eccessiva, aumentando, anziché diminuire, la frammentarietà della legge.
Inoltre si è assistito a un altro fenomeno negativo. Sempre più frequentemente la legge rimanda la sua attuazione a un successivo regolamento. La conseguenza è da un lato il ritardo della volontà parlamentare, che si può anche trasformare in mancata attuazione; dall’altro il sorgere di ulteriori incertezze. Il problema è: in mancanza del regolamento d’attuazione la pubblica amministrazione è tenuta comunque all’applicazione della legge? Esempio emblematico è costituito dalla legge 24190 relativamente all’accesso agli atti. Questa legge, pur essendo tra le migliori, da un punto di vista tecnico, con l’art. 24, comma 4 rimandava la piena applicazione a un regolamento, da votarsi entro sei mesi, che determinasse in modo esatto per ciascuna amministrazione gli atti accessibili e quelli riservati. Poiché i vari regolamenti, come era prevedibile, furono approvati con ritardi grandissimi, molte amministrazioni negarono l’accesso ai propri atti proprio sulla base della mancanza del regolamento d’attuazione. La giurisprudenza amministrativa (per tutte Consiglio di Stato 13 gennaio 1994, n. 2) sostenne, con interpretazione più ragionevole, che l’accesso agli atti fosse un diritto completo anche in mancanza del regolamento che individuasse esattamente gli atti esclusi dall’accesso, essendo sufficiente l’entrata in vigore del regolamento generale di attuazione DPR 27 giugno 1992, n. 352.
Al di là della vicenda giudiziaria bisognerebbe domandarsi se la pubblica amministrazione motu proprio, cioè senza la mediazione della magistratura, fosse stata legittimata a giungere alla medesima conclusione. Tenendo conto del principio gerarchico, cui si devono conformare tutte le amministrazioni, la risposta sarebbe stata e sarebbe tuttora negativa. Il diniego che emanarono i singoli funzionari non era giuridicamente del tutto infondato, richiamandosi a una disposizione normativa né si poteva loro imputare un ritardo dell’amministrazione, contro cui non avevano alcun potere di rimedio. L’introduzione dei regolamenti d’attuazione ha creato una situazione che potrebbe essere definita il paradosso gerarchico. In un’amministrazione fondata sul principio gerarchico il rispetto della legge può condurre alla violazione della legge medesima.
Perciò i regolamenti, in questo caso, ma altri se ne potrebbero proporre, non hanno per nulla semplificato il nostro ordinamento, poiché per applicare una legge dello stato in mancanza del regolamento d’attuazione è necessario rivolgersi ai giudici. Senza i regolamenti d’attuazione, invece, si sarebbe lasciato al singolo funzionario l’equa valutazione caso per caso, con possibilità di annullamento del provvedimento viziato in violazione di legge, incompetenza o eccesso di potere.
Per superare l’impasse bisognerebbe riflettere sui limiti del potere interpretativo dei singoli funzionari e dirigenti, argomento che travalica gli scopi del presente studio. Tuttavia preme precisare che con l’introduzione dell’amministrazione per obiettivi tale potere si è ulteriormente ridotto, dato che, in queste particolari ipotesi, si potrebbe persino richiamare la classica categoria dell’eccesso di potere. Se gli obiettivi legittimano la potestà dirigenziale, se questi non prevedono l’attuazione pratica dell’accesso agli atti e se non fosse stato emanato il relativo regolamento d’individuazione, ogni iniziativa da parte del dirigente sarebbe illegittima. Per quanto riguarda l’accesso agli atti il problema è ormai definitivamente risolto, ma molte altre sono le materie che cadono nel paradosso del potere gerarchico in un’amministrazione fondata su obiettivi.

e) La Commissione parlamentare per la riforma amministrativa

L’articolo 5 della legge n. 59 del 1997 ha previsto l’istituzione della Commissione parlamentare per la riforma amministrativa, ma non confermata dall’attuale legislatura, composta da venti senatori e venti deputati, la quale principalmente doveva:

1) esprimere i pareri sui provvedimenti attuativi della legge;
2) verificare periodicamente lo stato di attuazione delle riforme previste dalla legge e ne riferisce ogni sei mesi alle Camere.

q Evoluzione del concetto di interesse legittimo e riforme amministrative.

L’ordinamento amministrativo italiano si fonda sulla separazione tra diritto soggettivo e interesse legittimo. Ai sensi dell’articolo 97 primo comma della Costituzione, l’attività amministrativa si deve conformare ai principi della legalità, imparzialità e buon andamento. Tale fine istituzionale è teso a garantire ciò che genericamente dai giuristi viene definito pubblico interesse ossia il vantaggio non di un singolo cittadino o di ristretti gruppi sociali, ma dell’intera collettività. Con ciò non si intende affermare che l’azione amministrativa non tiene conto degli interessi privati, perché ciò sarebbe aberrante, ma piuttosto che l’insieme degli uffici, funzionari, dirigenti pubblici è tenuto a ponderare i vari interessi privati e trovare quindi una giusta armonia tra tutte le istanze che provengono dal tessuto economico e sociale. Tutta l’attività amministrativa, infatti, anche quando si conforma a principi mutuati dal diritto privato, è comunque diretta al perseguimento di interessi pubblici. Persino quando la pubblica amministrazione agisce come se fosse un soggetto privato, in riferimento all’artt. 97 della costituzione e 1 della legge 24190, non può derogare a tale fine. Si pensi per esempio all’acquisto di un immobile per organizzare nuovi uffici. Tale contratto di compravendita è a pieno titolo un contratto privato, contratto con cui si stabiliscono reciproci obblighi tra un compratore (in questo caso la pubblica amministrazione) e un venditore, che può essere soggetto pubblico o privato. Ciononostante gli atti che stanno a monte del procedimento contrattuale (erogazione della spesa etc.) sono soggetti al diritto pubblico e al fine generale del pubblico interesse. L’interesse pubblico, tuttavia, è un concetto troppo generico, spesso di scarso contenuto operativo, per poter essere utilmente usato nella pratica amministrativa e giurisdizionale, così i giuristi hanno elaborato la nozione di interesse legittimo. In realtà l’idea di interesse legittimo non è semplice e ha subito nel tempo varie modifiche.
Secondo la celebre definizione dello ZANOBINI (Corso di diritto amministrativo, II, Milano, 1958, p. 121) l’interesse legittimo è una posizione indirettamente a vantaggio di un cittadino e direttamente a tutela del buon andamento della pubblica amministrazione. Per esempio nel concorso pubblico i singoli concorrenti non avrebbero un diritto diretto che la commissione svolga le procedure in modo imparziale. L’ordinamento gli riconosce un mero interesse all’imparzialità della commissione. Di conseguenza se può proporre ricorso ciò è dovuto al fatto che questi è portatore di tale posizione giuridica, la cui rivendicazione è lasciata a tutti gli interessati (in pratica stando all’esempio proposto a tutti i concorrenti). Oggetto diretto del ricorso sarebbe, dunque, l’imparzialità della pubblica amministrazione.
Tale definizione è stata seguita per decenni dalla dottrina e dalla giurisprudenza amministrativa. Tuttavia se da un lato si aveva il vantaggio di collegare la procedura giudiziaria amministrativa all’art.97 Cost.; dall’altro metteva il cittadino in una posizione di svantaggio nei confronti dei poteri pubblici. Non avendo il ricorrente un diretto potere di ricorso avverso i provvedimenti amministrativi anche il suo diritto di difesa era in qualche modo limitato. La P.A. poteva sempre rivendicare la superiorità dell’interesse pubblico nei confronti di interessi legittimi pur meritevoli di attenzione. Inoltre non avendo il cittadino alcun potere di controllo sull’attività amministrativa, frequentemente conosceva il nesso logico-deduttivo del procedimento che lo riguardava solo al momento del processo con conseguente limite al diritto di difesa. La definizione dello Zanobini era una teoria per i poteri pubblici, che avrebbero dovuto comunque prevalere sui privati. Questa teoria ha pressoché dominato per decenni determinando ciò che potremmo definire l’anomalia italiana. L’interesse pubblico, nato per tutelare beni appartenenti alla collettività posti a beneficio della collettività, attraverso la nozione di interesse legittimo come interesse della pubblica amministrazione, finiva per coincidere con l’interesse dei poteri pubblici astrattamente concepiti. In altre parole l’interesse pubblico coincideva con il vantaggio degli organi pubblici, anche quando la gestione dei beni pubblici era contro la collettività. In un certo senso spesso l’interesse pubblico coincideva con l’interesse “privato” dello Stato o della pubblica amministrazione.
Il NIGRO (Giustizia amministrativa, Il Mulino, 2000, p. 102) elaborò una nuova definizione di interesse legittimo, concependolo come il potere di controllo (= diritto alla partecipazione) che ciascun cittadino ha sull’attività della P.A. che coinvolge, seppur indirettamente, propri diritti o interessi. Non si tratta di una lieve modifica e per comprenderne la portata rivoluzionaria basti riflettere sul già citato esempio del concorso pubblico.
Il cittadino che partecipa a una selezione, bandita dalla pubblica amministrazione, alla luce della teoria del Nigro non ha più un semplice indiretto interesse alla regolarità delle procedure concorsuali, ma un vero e proprio diritto soggettivo a controllare la regolarità delle procedure concorsuali ed eventualmente chiederne l’annullamento. E’ chiara ora la radicale differenza tra un interesse legittimo inteso come strumento di tutela della P.A. a una posizione giuridica legata ad un diritto soggettivo pieno. La pubblica amministrazione opera su un piano di parità con il cittadino, nel perfetto rispetto del principio di legalità. In un certo senso il rispetto della legge diventa un diritto dei cittadini. Si parla di diritto impropriamente, in quanto la definizione stessa di legge implicherebbe vincolatività dell’azione amministrativa. Infatti, essendo la pubblica amministrazione parte del potere esecutivo, è evidente che essa più di ogni altro soggetto è tenuta al rispetto dei dettatati provenienti dal Parlamento.
Grazie a questa nuova definizione ogni volta che una pubblica autorità pone in essere un provvedimento di qualsiasi natura fa sorgere in capo a chi ha interesse il diritto di valutare la conformità del provvedimento alla legge e avere di conseguenza la prova di eventuali illegittimità da far valere attraverso le vie giurisdizionali. Sulla natura di diritto, anche se non propriamente soggettivo, all’accesso agli atti di cui all’art.25 della l.241/90 non vi è più alcun dubbio essendo stata confermata da costante giurisprudenza (più moderata Consiglio di Stato 29 aprile 2001, n. 2283). A questo punto dovrebbe essere chiaro che le riforme amministrative nascono non tanto per volontà di una parte politica, ma da una vera e propria concezione innovativa dei rapporti tra cittadino e pubblici poteri improntati ora sul principio della legittima mediazione piuttosto che su quello dell’autorità.
Tutt’altra natura ha invece il diritto soggettivo. Esso può essere definito come uno “spazio di libertà che i pubblici poteri riconoscono a ciascuna persona in quanto persona e che può essere limitato soltanto dalla legge e in presenza di un prevalente interesse pubblico non altrimenti tutelabile”. Brevemente si analizzi in ogni sua parte la definizione. Con spazio di libertà s’intende un ambito ideale, entro cui la persona può liberamente muoversi senza essere subordinato ad alcun potere; il diritto viene riconosciuto, non concesso, perché è parte costitutivo dell’essere umano, in quanto persona, dotata di ragione; non è necessaria la qualifica di cittadino, se non espressamente indicato dall’articolo della costituzione, perché i diritti sono universalmente riconosciuti a tutti gli uomini; infine solo la legge può limitare i diritti, ma solo quando l’interesse pubblico prevalente e meritevole di tutela non può essere altrimenti rispettato.
Si pensi per esempio al diritto di associazione (art. 18 Cost.). Ciascuno può liberamente costituire una associazione che persegua un fine legittimo (attività culturali, sportive, ecc..) senza che alcuna autorità possa negare tale soggetto. L’associazione in particolare non deve necessariamente avere un fine ritenuto giuridicamente o politicamente rilevante ben potendo occuparsi di attività considerate futili o di scarsa utilità generale. L’unico divieto riguarda associazioni segrete o gruppi che perseguono fini militari non rientranti nella normale statale (terrorismo ecc.) (art. 18, 2 comma Cost.).

q La legge 7 – 8 – 1990, n. 241.

La stagione delle riforme viene aperta dalla fondamentale legge – quadro sul procedimento amministrativo e sull’accesso agli atti. Si tratta di una legge importante perché per la prima volta vengono introdotte nell’ordinamento italiano delle norme che regolano in modo preciso il procedimento amministrativo. Prima della sua entrata in vigore la determinazione delle fasi del procedimento era lasciata a regolamenti interni emanati da ciascuna amministrazione o alla stessa prassi.
La ragione giuridica del mutamento è evidente. Se il cittadino ha il diritto di controllare l’attività amministrativa, si deve regolare la pubblica amministrazione in modo chiaro e trasparente in modo tale da rendere il diritto una realtà effettiva. In questa parte non ci si propone di analizzare la legge 24190, quanto chiarirne gli aspetti conseguenti ai propositi del processo riformatore. In questo senso due sono i principi chiave della legge: la trasparenza del procedimento e l’obbligo di motivazione.
Ai sensi degli artt.1 – 2 della citata legge il procedimento amministrativo deve conformarsi ai criteri di economicità, efficacia e pubblicità. Dalla economicità discendono le leggi che vanno sotto il nome di semplificazione del procedimento; dal principio di efficacia scaturiscono le norme che hanno introdotto i controlli interni e della Corte dei Conti, tesi non tanto a perseguire responsabilità individuali dei singoli pubblici amministratori – responsabilità che, se di particolare gravità, dovrà essere accertata con le dovute garanzie da organi giurisdizionali ordinari, amministrativi o infine dalla sezione giurisdizionale della Corte dei Conti – quanto a rendere l’attività amministrativa sempre più efficace secondo un leale spirito di collaborazione con gli organi di controllo così come è stato auspicato anche dalla legge 14 gennaio 1994, n. 20, legge con cui è stata riformata la Corte dei conti e il sistema dei controlli contabili.
Dal principio di pubblicità discendono, invece, le norme che hanno introdotto sia il c.d. responsabile del procedimento sia l’accesso agli atti.
Ai sensi dell’art.6 della medesima legge il responsabile del procedimento è colui che, su nomina del dirigente, deve preoccuparsi affinché la formazione di un provvedimento amministrativo, cui è preposto, si concluda nel modo più celere possibile e nel rispetto pieno della legge vigente. L’articolo elenca tutte le attività cui è tenuto il responsabile che vanno dall’inizio del procedimento (protocollazione, prima analisi dell’istanza e del fascicolo etc.) fino all’adozione del provvedimento finale. Chiunque abbia interesse può rivolgersi al responsabile e chiedere ogni chiarimento relativo al procedimento, di cui ha interesse. La ratio, dunque, dell’introduzione di un responsabile è permettere agli interessati di partecipare e controllare la formazione degli atti amministrativi.
Sulla base dell’art.22 ss. il cittadino ha il diritto di accedere ai documenti amministrativi una volta che si è concluso il procedimento. Come si è già detto tale facoltà è stata interpretata come un vero e proprio diritto soggettivo. Per documento amministrativo si deve intendere “ogni rappresentazione grafica, fotocinematografica, elettromagnetica o di qualunque altra specie del contenuto di atti, anche interni , formati dalle pubbliche amministrazioni o, comunque, utilizzati ai fini dell’attività amministrativa.” ( art. 22, 2 comma )
L’accesso inizia con una istanza proposta dagli interessati all’organo competente. Il responsabile, ricevuta l’istanza, ne valuta la legittimità ed entro trenta giorni deve emanare un provvedimento di diniego o di accettazione. Trascorso tale termine, se nessun provvedimento è stato emanato si intende che l’istanza sia stata negata e pertanto l’interessato può proporre ricorso al TAR. L’accesso è probabilmente lo strumento migliore per permettere un controllo sulla legittimità degli atti. Alcune considerazioni meritano essere fatte intorno al concetto di interessato. Questi non è soltanto il soggetto privato che viene direttamente coinvolto nel procedimento amministrativo, ma anche associazioni o comitati che difendono interessi collettivi, vale a dire legati a gruppi definiti di persone, quali i sindacati, le associazioni dei consumatori e via discorrendo.
Anche la motivazione rappresenta la diretta conseguenza del diritto di controllo sull’attività amministrativa. Secondo l’art.3 della legge tutti i provvedimenti amministrativi, compresi quelli relativi ai concorsi pubblici e ad atti di organizzazione, devono riportare una motivazione logica, congruente e non contraddittoria. La motivazione forse è la parte che meglio permette di valutare la legittimità o l’illegittimità di un provvedimento, in quanto impone di rendere chiare le ragioni in ordine alle quali si è presa quella determinata decisione. Sulla motivazione si fonda la ragionevolezza stessa dell’azione amministrativa, essendo quest’ultima ragionevole solo se trae fondamento dalla legge. Perciò l’obbligo della motivazione coincide con il rispetto del principio della legalità.
Altro profilo regolato dalla legge è la c.d. partecipazione al procedimento amministrativo. Tale strumento pone sullo stesso piano cittadino e pubblica amministrazione e garantisce che i vari interessi meritevoli di attenzione, anche privati, vengano tenuti nel giusto conto nella formazione degli atti e provvedimenti amministrativi. L’art.8 stabilisce che debba essere inviata una comunicazione di avvio del procedimento a chiunque abbia interesse. Per esempio in caso di espropriazione per pubblica utilità è obbligatorio comunicare l’inizio del procedimento non solo agli eventuali espropriati, ma anche ai proprietari dei terreni limitrofi e, nel caso esistano, a comitati posti a tutela del patrimonio ambientale di quella particolare zona. Ciascun cittadino ha il diritto di presentare osservazioni, memorie scritte, documenti volti a far valere i propri interessi. Tale procedimento, dunque, permette di controllare la pubblica amministrazione anche prima della emanazione del provvedimento e tale facoltà non sarebbe possibile senza la massima pubblicità del procedimento.

q Il d.lgs. 300/99 e la riorganizzazione dei ministeri

L’ordinamento italiano, pur transitando verso un sistema decentrato, prevede che determinate materie siano di stretta competenza statale, con la conseguente riorganizzazione dell’amministrazione centrale, pur ridimensionata. Il decreto legislativo 30099 sm prevede 14 Ministeri e precisamente:

Ministero degli affari esteri;
dell’interno;
della giustizia;
della difesa;
dell’economia e delle finanze;
delle attività produttive;
delle comunicazioni;
delle politiche agricole e forestali;
dell’ambiente e della tutela e del territorio;
delle infrastrutture e dei trasporti;
del lavoro e delle politiche sociali;
della salute, dell’istruzione, dell’università e della ricerca;
per i beni e le attività culturali.

Il principio giuridico di base è quello della sussidiarietà nel senso che tutte le competenze amministrative sono state trasferite agli enti locali (regioni, provincie, comuni, comunità montane), fatte le materie espressamente previste dalla legge o i compiti, pur di competenza locale, che non vengono realizzati con la dovuta sollecitudine. Tale seconda ipotesi viene definita dalla dottrina “potere sostitutivo”.
I ministeri vengono suddivisi in dipartimenti, aree che raggruppano attività in seno al dicastero omogenee. Sono dipartimenti quello per le politiche sociali, per le pari opportunità etc. Loro compito peculiare è assicurare “l’esercizio organico e integrato delle funzioni del ministero.” (art. 5, comma 1) La legge ha avuto il merito di aver uniformato l’organizzazione centrale a un unico modello legislativo, ciò soprattutto per garantire una maggiore efficienza ed efficacia del sistema amministrativo italiano. Non a caso il quarto comma del medesimo articolo pone frequentemente l’accento sui valori dell’efficienza.
A capo del dipartimento viene posto un direttore generale con il compito di “coordinamento, direzione, e controllo degli uffici di livello dirigenziale generale, compresi nel dipartimento stesso, al fine di assicurare la continuità delle funzioni dell’amministrazione ed è responsabile dei risultati complessivamente raggiunti dagli uffici da esso dipendenti, in attuazione degli indirizzi del ministro.” (art. 5 comma 3) Si tratta di una figura di alto profilo dirigenziale, che in ultima analisi ha il compiti di mantenere l’unitarietà dell’azione del dipartimento.
Altra figura di rilievo è il segretario generale che ha fondamentalmente compiti di coordinamento dei vari dipartimenti e di vigilanza su di essi e opera alle dirette dipendenze del ministro. La figura del segretario generale però non è obbligatoria e solo alcuni ministeri l’hanno istituita come per esempio il ministero per i beni e le attività culturali e quello delle comunicazioni.
Ultima struttura specifica ministeriale sono i cosiddetti uffici di diretta collaborazione con il ministro costituiti fondamentalmente dalla segreterie particolari del ministro e dei sottosegretari. Il regolamento di attuazione ha introdotto regole più specifiche per quanto riguarda l’organizzazione di questi uffici e in particolare hanno stabilito le norme riguardanti la nomina del capo degli uffici, che deve avere una elevata professionalità e compiti di raccordo tra Governo e Parlamento e può essere estraneo all’amministrazione. Come compiti specifici si possono citare tra i più rilevanti l’elaborazione dei testi normativi delegati al Governo, l’attuazione politica delle politiche del ministro, la valutazione dei flussi finanziari.
Il medesimo testo legislativo prevede l’istituzionalizzazione di agenzie specializzate in specifiche materie sotto la sorveglianza dei rispettivi ministeri.
Questi organismi sono nati per garantire la separazione tra amministrazione e politica in materie altamente tecniche, come per esempio la protezione civile, la tutela ambientale ecc. La ratio è chiara. La pubblica amministrazione si occupa anche di beni, la cui gestione richiede competenze tanto tecniche da sfuggire, se non in misura ridottissima, a qualsiasi logica politica rispettosa dell’interesse pubblico. In altre parole in tali materie l’interesse pubblico coincide con l’esatto rispetto dei parametri dettati dalle leggi scientifiche. Si può discutere a livello politico se in un dato momento storico è meglio finanziare servizi sanitari o per la tutela ambientale. Una volta stabilito, tuttavia, che la riduzione dell’inquinamento è prioritario, i modi di attuare tale obiettivo è di esclusiva competenza degli scienziati.
La legge, in questo caso, ha introdotto un elemento di forte ambiguità. Al fine di garantire la separazione tra politica e amministrazione l’articolo 8 comma 2 stabilisce: “le agenzie hanno piena autonomia nei limiti stabiliti dalla legge e sono sottoposte al controllo della Corte dei Conti […]”. Tuttavia già il secondo paragrafo sancisce: ” esse sono sottoposte ai poteri di indirizzo e di vigilanza di un ministro […]”. La contraddittorietà di tale norma è data dall’avere introdotto il potere di indirizzo da parte di un ministro, potere che per sua stessa natura non potrà che essere politico, mentre invece il potere di vigilanza rientra perfettamente in un sistema giuridico democratico, in seno a cui il rappresentante della maggioranza politica deve avere la possibilità di controllare periodicamente l’attività anche dei tecnici. E’ sostanzialmente differente il potere di controllo politico sull’attività non di mera ricerca – se si trattasse di ricerca bisogna garantire la massima autonomia ai sensi dell’art. 33 della costituzione – dei tecnici, dal potere di indirizzo. Il primo ha come fine generale la possibilità di valutare che il lavoro dei tecnici coincida sempre con il pubblico interesse, mentre il secondo è destinato a orientare l’attività verso fini politici, che possono non coincidere con l’esattezza scientifica e di conseguenza per la definizione data sopra, con l’interesse pubblico.
A causa di queste ambiguità lo status delle agenzie è stato fin dall’inizio molto incerto e mutevole.
Significativa rimane la vicenda della Protezione Civile. Da dipartimento del ministero dell’interno si è trasformata in agenzia e successivamente nell’arco di pochissimi anni in dipartimento della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Pare che sulla base di quest’esempio l’esperienza delle agenzie in Italia si possa ritenere fallita.
A livello periferico tutte i compiti amministrativi sono passati all’ufficio territoriale di governo (ex prefettura), fatta eccezione per l’istruzione, le finanze, i beni culturali, difesa, giustizia, affari esteri e tesoro.
Il ministero per i beni e le attività culturali ha invece un’organizzazione del tutto peculiare. L’articolo 9 della costituzione sancisce: “la Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica.” Il dettato costituzionale non lascia dubbi sul fatto che gli enti preposti alla conservazione del patrimonio culturale siano tenuti anche alla sua valorizzazione (DE VERGOTTINI, La tutela e valorizzazione del patrimonio storico-artistico fra Unione Europea, Stato e Regioni, in Rivista giurisprudenza urbanistica, 1996, III, p. 244). In pratica conservare il patrimonio culturale significa anche diffonderlo e fare in modo che ne possa usufruire il maggior numero possibile di persone. Tale impostazione è riscontrabile nel d.lgs 36898, che ha riordinato il ministero, specialmente nell’art. 1, comma 2, con cui si conferisce al dicastero ogni attività tesa a conservare e a valorizzare il patrimonio culturale. La differente organizzazione del ministero è giustificata dal tipo di attività, cui è preposto. Mentre i beni culturali si occupano prevalentemente di materie tecniche, che richiedono una preparazione specifica ( archivi, biblioteche e musei ), gli altri ministeri svolgono una attività prevalentemente amministrativa, termine con il quale si intende l’insieme delle attività gestionali dirette alla realizzazione degli indirizzi politici.
La conseguenza immediata è che in seno al ministero per i beni e le attività culturali deve prevalere l’aspetto più squisitamente tecnico.
Le dieci ripartizioni ministeriali (beni archeologici etc.) solo nominalmente ricordano i dipartimenti degli altri ministeri, configurandosi piuttosto come amministrazioni semiautonome (art. 6 d.lgs. citato).
Si pensi per esempio all’amministrazione centrale degli archivi che gestisce non solo da un punto di vista amministrativo i vari archivi di stato distribuiti sul territorio nazionale, ma attraverso l’istituto centrale degli archivi detta anche norme tecniche di classificazione della documentazione ( per esempio il gruppo di lavoro sulle ISAG ) o le norme per la conservazione delle carte ( umidità ecc.).

A livello decentrato sono state istituite soprintendenze regionali con lo specifico compito di raccordo tra amministrazione periferica, amministrazione centrale e in taluni casi governo e soprintendenze di settore ( archivi, beni museali ecc. ), che, invece, operano nell’ambito tecnico-scientifico cui sono preposte.
Sul territorio operano poi i vari istituti come gli archivi di stato, i musei, le biblioteche statali ecc.
Tra gli istituti e le soprintendenze di settore non esiste un vero rapporto gerarchico, in quanto ciascun ente ha competenze diverse. Per esempio gli archivi si occupano della documentazione statale periferica, mentre la soprintendenza archivistica, da non confondere con la soprintendenza regionale, gestisce e coordina la conservazione di archivi di enti locali e privati di rilevante interesse storico.
Talvolta tra istituti e soprintendenze vi può essere una forte collaborazione. Quando un determinato archivio privato viene dichiarato dalla soprintendenza di interesse storico si può stabilire di versare tale archivio in archivi di Stato locali, qualora gli ambienti di conservazione di origine non siano idonei.

q D.lgs 30 – 3 – 2001, n. 165 s.m. e il pubblico impiego.

Il profilo più delicato delle riforme riguarda, tuttavia, l’organizzazione degli apparati burocratici.
Ai sensi dell’art. 97 1 comma cost. l’organizzazione degli uffici è riservata alla legge. Le conseguenze di un tale atto normativo non sono univoche per varie ragioni. Innanzitutto non viene specificata l’ampiezza semantica del termine organizzazione.
Due possono essere le soluzioni: organizzazione può significare l’insieme degli uffici pubblici e le relazioni che li collegano insieme. Questa interpretazione lascia completamente fuori la normazione degli impiegati.
Dall’altro lato si può invece intendere l’organizzazione come l’insieme delle relazioni e delle strutture gerarchiche in seno alla pubblica amministrazione, con la conseguenza che i pubblici dipendenti devono essere regolati con leggi.
Un altro problema interpretativo riguarda la natura giuridica della riserva di legge di cui all’articolo costituzionale citato.
Secondo alcuni autori (CANTUCCI, La pubblica amministrazione, in Commentario sistematico della costituzione, II, Zanichelli, 1977, pp. 155 ss.) la riserva è assoluta, con la conseguenza che l’unica fonte costituzionalmente legittima per la regolamentazione del pubblico impiego è la legge. In questo caso non sarebbe possibile l’introduzione di contrasti collettivi di lavoro. Questa fu l’interpretazione che venne seguita dal dopoguerra fino alla metà degli anni ’80 e la fonte di regolamentazione fu il c.d. T.U. del pubblico impiego n. 15/57.
Altri autori (CRISAFULLI, Lezioni di diritto costituzionale, II, CEDAM, 1985, pp. 113 ss.), al contrario, ritengono la riserva relativa e perciò altre fonti possono essere affiancate alla legge, specialmente i regolamenti dell’esecutivo.
Quest’ultima interpretazione, ma soprattutto la storica sentenza della Corte Costituzionale n. 221 del 1976, ha permesso l’introduzione dei contratti collettivi di lavoro a partire dal 1983. Rimaneva tuttavia una diversa disciplina tra pubblico impiego e impiego privato. Il pubblico impiego trovava la massima fonte normativa in testi di legge e solo in subordine veniva regolamentato attraverso contratti di lavoro.
L’art. 17, comma 1, lettera e) della l. 40090 (ora abrogato dall’art. 72 D.lgs 1651) introdusse anche da un punto di vista legislativo questo principio. In questo modo alcuni rapporti di lavoro erano regolati dal contratto (ferie, congedi etc.), mentre i rapporti più importanti (l’organizzazione del lavoro, la progressione in carriera etc.), rimanevano regolati da legge.
Il CARINCI e altri (Diritto del lavoro, il rapporto di lavoro subordinato, II, UTET, 1989, p. 61 ss.) si auspicavano al più presto una completa contrattualizzazione del pubblico impiego. Questa iniziò dapprima moderatamente e poi in modo completo con il d.lgs. 29/93 e la l. 5997. Attualmente la materia è regolata dall’art. 2 commi 2 e 3 del d.lgs 30 – 3 – 01, n. 165. Il Titolo III regola la contrattazione collettiva. Ai sensi dell’articolo 2/2:” I rapporti di lavoro dei dipendenti delle Amministrazioni Pubbliche sono disciplinate dalle disposizioni del capo I, titolo II, del libro V del Codice Civile e dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell’impresa[…]. Eventuale disposizione di legge, regolamento o statuto, che introducano disciplina nei rapporti di lavoro la cui applicabilità sia limitata ai dipendenti delle amministrazioni pubbliche, o a categorie di essi, possono essere derogate da successivi contratti o accordi collettivi e, per la parte derogata non sono ulteriormente applicabili, salvo che la legge disponga espressamente in senso contrario.” Il presente comma ha radicalmente modificato le fonti del diritto di lavoro in materia di pubblico impiego. Il comma 3 art. 2 d.l.gs 1651 in particolare stabilisce: “I rapporti individuali di lavoro […] sono regolati contrattualmente.”, non lasciando più dubbi di sorta. Si ritiene che, oltre a ribadire quanto già si è sopra in proposito affermato, su questo specifico punto la contrattualizzazione completa, specie per quanto concerne i dirigenti e i direttori generali, necessiti di qualche aggiustamento. Infatti, poiché la potestà regolamentare di questi due soggetti amministrativi deve sempre conformarsi alla realizzazione dell’interesse generale nel pieno rispetto dei diritti dei cittadini, parrebbe più ragionevole che il rapporto di lavoro delle maggiori cariche amministrative scaturisca maggiormente da atti rappresentativi della volontà democratica (legge etc.) piuttosto che da accordi di categoria, molto più adatti a regolare il lavoro di personale non direttamente coinvolto in processi decisionali. Per altro la riforma richiederebbe un ripensamento in generale Poiché i contratti collettivi regolano tutta la disciplina riguardante il pubblico impiego, il rapporto di lavoro pubblico è completamente soggetto alla contrattazione.
Questo sistema, in altre parole, se da un lato ha reso la struttura amministrativa più flessibile e maggiormente capace di adattarsi a nuove situazioni, dall’altro ha introdotto la temporaneità delle posizioni giuridiche, non solo dirigenziali, perché la contrattazione si è trasformata in fenomeno costante, con la conseguenza di aver ostacolato una vera realizzazione dell’interesse pubblico, essendo ormai l’organizzazione amministrativa continuamente soggetta a trasformazioni, non sempre necessarie.
Il decreto legislativo detta, comunque, alcune norme escluse dalla contrattazione in materia di dirigenti. La carriera dirigenziale è divisa in due fasce. Le direzioni generali hanno principalmente un compito di coordinamento con le varie sedi periferiche a loro sottoposte e di raccordo tra l’amministrazione e gli organi politici del ministero.
I dirigenti di seconda fascia vengono preposti a unità periferiche o a dipartimenti ministeriali e sono sotto le dirette dipendenze dei Direttori Generali. Il loro compito principale consiste nella gestione del personale e delle risorse finanziarie a essi assegnate e la direzione e il coordinamento dei responsabili del procedimento amministrativo con potere di sostituzione in caso di inerzia.
Ai sensi dell’articolo 19 gli incarichi dirigenziali vengono stabiliti con atto personale e tenendo conto delle attitudini e delle capacità professionali dei singoli dirigenti. Il conferimento viene dato o dal Presidente del Consiglio dei Ministri o dal Ministro competente, indicando contestualmente gli obiettivi da conseguire, le priorità, gli indirizzi degli organi di vertice e i tempi di realizzazione. In ogni caso tutti gli incarichi sono a termine; tre anni per i Direttori Generali, cinque per i Dirigenti. Tutti gli incarichi sono rinnovabili.
Gli incarichi di funzione dirigenziale strettamente legate a funzioni politiche ( segretario generale dei ministeri o dirigenti di strutture articolate in più dipartimenti) decadono dopo novanta giorni dal voto di fiducia al governo (art. 19, comma 8).
Quest’ultimo potrà in questo modo sostituire o meno tali soggetti. Il mancato raggiungimento degli obiettivi, imputabile al dirigente, può portare o all’impossibilità di rinnovo dello stesso incarico dirigenziale o nei casi più gravi alla revoca dell’incarico (art. 21, comma 1).
In base all’articolo 28 l’accesso alla dirigenza può avvenire o attraverso un concorso per esami indetto dalle varie amministrazioni o tramite corso concorso bandito dalla scuola superiore della pubblica amministrazione. Il requisito fondamentale è il possesso di diploma di laurea e aver superato una selezione concorsuale. Dopo sarà obbligatorio seguire un corso di formazione di dodici mesi.
Altro profilo importante ormai definitivamente risolto dalla riforma amministrativa è la separazione tra poteri di indirizzo e controllo, propri del Ministro, e poteri di attuazione, affidati ai direttori generali. (art. 4, comma 4 d.lgs. citato). Sulla base di tale principio il Ministro fissa gli obiettivi generali, mentre i direttori generali e dirigenti sono tenuti allo loro puntuale attuazione.
In questi ultimi anni spesso, sulla scorta di questa normativa, sono nati molti fraintendimenti intorno al concetto, peraltro non giuridico, di obiettivo. In particolare ci si è posti il problema del rapporto tra l’amministrazione per obiettivi e il principio di legalità, principio non derogabile in ogni democrazia. L’interpretazione più equa fa coincidere gli obiettivi con la legalità stessa o meglio come linea interpretativa della legge vigente. Gli obiettivi renderebbero operative le normative. In altre parole il Ministro, quale massimo organo ministeriale appartenente al potere esecutivo, è tenuto alla stretta osservanza della legge. Il proprio potere di indirizzo riguarda l’interpretazione pratica della legge. Per esempio il Governo è libero di finanziare la spesa pubblica che ritiene più opportuna in un determinato momento socio-economico. Se decide di migliorare i servizi sociali ciascun Ministro, secondo le proprie competenze, indicherà tale obiettivo, perfettamente legittimo, come indirizzo per l’attività amministrativa. Questa interpretazione è l’unica che permette l’armoniosa convivenza tra la legalità e la libertà politica dei singoli Governi via via eletti. Una volta fissati gli obiettivi l’attività amministrativa, sulla base del citato articolo, è libera di realizzarli nei modi e nei tempi più opportuni. Ovviamente tale discrezionalità non deve portare al completo snaturamento degli obiettivi governativi.
Il procedimento d’individuazione degli obiettivi è molto chiaro. Ai sensi dell’art. 14 il Ministro definisce gli obiettivi, i piani e i programmi generali e individua i centri di responsabilità tra le diverse unità centrali e periferiche. Al fine di garantire la separazione tra attività politica e amministrativa il terzo comma del citato articolo stabilisce: “il Ministro non può revocare, riformare, riservare o avocare a sé o altrimenti adottare provvedimenti o atti di competenza dei dirigenti. In caso di inerzia o ritardo il ministro può fissare un termine perentorio entro il quale il dirigente deve adottare gli atti o i provvedimenti. Qualora l’inerzia permanga o in caso di grave inosservanza delle direttive generali da parte del dirigente competente che determinano pregiudizio per l’interesse pubblico, il Ministro può nominare […] un commissario ad acta […]”. Come si può vedere in ogni caso il Ministro non può sostituirsi all’attività amministrativa legata in modo rigoroso al principio di legalità e imparzialità.
Ancora alcuni aspetti meritano attenzione.
Secondo l’art. 2 le amministrazioni pubbliche conformano la propria attività ai principi dell’efficienza, efficacia, economicità, flessibilità, comunicazione tra gli uffici, imparzialità, trasparenza e armonizzazione degli orari di servizio con le altre amministrazioni pubbliche dei paesi dell’Unione europea. E’ evidente che l’ articolo ha recepito e sintetizzato tutti i principi, di cui si è precedentemente parlato. Sfortunatamente l’Italia ha solo parzialmente recepito la direttiva europea 93104 che detta diverse norme in questa materia, tra cui fondamentale l’armonizzazione dei contratti collettivi del lavoro con il diritto comunitario.
Per quanto concerne le risorse umane il testo normativo è stato molto attento ai principi enunciati nella carta sociale europea.
Ai sensi dell’art. 7 le amministrazioni pubbliche devono garantire le pari opportunità tra uomini e donne sia per l’accesso al lavoro sia per il trattamento del personale, principio ampliato dalla recente modifica dell’art. 51 della costituzione.
Devono inoltre garantire libertà di inserimento e autonomia professionale per lo svolgimento dell’attività didattica, scientifica e di ricerca. Si tratta di un principio fondamentale in piena armonia con l’art. 33 della costituzione, teso ad impedire che attività in cui si richiede la massima obbiettività non siano soggette ad orientamenti estranei alla libera dialettica intrinseca alla ricerca scientifica.
Ultimo principio stabilisce che la pubblica amministrazione si conformi ai principi della flessibilità del lavoro con particolare attenzione per chi vive in situazioni di svantaggio ( handicap, situazioni familiari difficili ecc.. ) o per dipendenti impegnati in attività di volontariato.
Grande attenzione è invece data alla formazione del personale tanto che l’art. 7 bis comma 2 stabilisce che ogni anno entro il 30 gennaio tutte le amministrazioni dello stato e gli enti pubblici non economici ( INPS ecc.. ) devono presentare un piano di formazione per il personale al dipartimento della funzione pubblica e al ministero dell’economia e delle finanze.
L’articolo 42 introduce la disciplina sindacale sui luoghi di lavoro richiamandosi espressamente allo statuto dei lavoratori (Legge 20 Maggio 1970, n. 300) almeno fino a quando non si stabiliranno delle norme specifiche per il pubblico impiego. Per l’interpretazione autentica dei contratti l’articolo 49 stabilisce che siano le parti sindacali a raggiungere un accordo. Nel caso invece non raggiungano tale accordo, le amministrazioni pubbliche, non i singoli dipendenti, devono interpellare l’ARAN.

Redazione

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