La prescrizione di non partecipare a pubbliche riunioni, che deve essere in ogni caso dettata in sede di applicazione della misura di prevenzione della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza ai sensi dell’art. 8, comma 4, d. Igs. n. 159 del 2011, si riferisce esclusivamente alle riunioni in luogo pubblico

Scarica PDF Stampa
(Annullamento senza rinvio)

(Riferimento normativo: D.lgs. n. 159/2011, art. 8, c. 4)

Il fatto

La Corte di appello di Bari confermava quella del Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Trani che aveva condannato F. A. e G. L. alla pena di anni uno di reclusione, previo riconoscimento della continuazione tra gli episodi contestati, con l’applicazione delle attenuanti generiche ritenute equivalenti alla recidiva contestata e con la diminuente del rito abbreviato.

In particolare, gli imputati venivano dichiarati colpevoli del delitto di cui agli artt. 81, comma 2, cod. pen. e 75, comma 2, d. Igs. 6 settembre 2011, n. 159, per avere violato due prescrizioni contenute nei decreti di applicazione della misura di prevenzione della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza con obbligo di soggiorno emessi nei loro confronti.

Più nel dettaglio, agli imputati era contestata la violazione della prescrizione di non partecipare a pubbliche riunioni o a manifestazioni di qualsiasi genere essendo stati sorpresi il 22 novembre 2013 all’interno del Palasport di A. mentre era in corso un torneo internazionale di tennis nonché di quella di non associarsi a persone che avessero subito condanne o siano sottoposte a misure di prevenzione o di sicurezza essendo stati notati, in cinque precedenti occasioni, associarsi con altri soggetti condannati o sottoposti a misure.

Sull’appello degli imputati, la Corte territoriale aveva ritenuto che il divieto di partecipare a pubbliche riunioni imposto al sorvegliato speciale fosse tassativo e riguardava qualsiasi riunione di più persone in un luogo pubblico o aperto al pubblico al quale avessero facoltà di accesso un numero indeterminato di persone indipendentemente dal motivo della riunione e dalle modalità con cui gli spettatori erano presenti; quanto alla violazione della seconda prescrizione, i giudici avevano sostenuto come, anche in assenza di pronunce definitive sulla frequentazione abituale di soggetti sottoposti a misure, fosse possibile una valutazione incidentale dei precedenti episodi non contestati dagli appellanti, al fine di accertare l’abitualità della condotta.

La pena, a sua volta, era stata ritenuta congrua ed adeguata al fatto con la conferma dell’applicazione della recidiva alla luce delle condanne per gravi reati riportate da entrambi gli imputati.

Volume consigliato

I motivi addotti nel ricorso per Cassazione

Aveva proposto ricorso per cassazione il difensore di uno degli imputati deducendo, con un primo motivo, nullità della sentenza per insufficienza della motivazione.

Secondo questo ricorrente, difatti, il divieto di partecipare a manifestazioni pubbliche riguarda celebrazioni di particolare rilievo, quali incontri calcistici, in occasione dei quali l’animosità del pubblico può far insorgere litigi e risse mentre, al contrario, il silenzio è prerogativa di un incontro di tennis cosicché la condotta posta in essere dall’imputato era priva di un’azione efficace sul piano eziologico e non metteva in pericolo il bene comune (dovendosi quindi ritenersi non punibile).

Il ricorso, inoltre, ribadiva come l’accertamento dell’abitualità delle frequentazioni vietate non fosse mai entrato a far parte del processo e non era ancora definitivo.

In un secondo motivo, il ricorrente deduceva l’erronea applicazione della legge penale con riferimento alle decisioni sulla recidiva, sul bilanciamento delle circostanze e sulla misura dell’aumento per la continuazione.

Proponeva altresì ricorso per cassazione anche il difensore dell’altro imputato deducendo, con un unico motivo, la violazione dell’art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen. con riferimento alla condanna per la violazione della prescrizione di non associarsi abitualmente con soggetti condannati o sottoposti a misure di prevenzione o di sicurezza.

Secondo il ricorrente, non essendo state acquisite le annotazioni di servizio redatte nelle singole occasioni, ma solo un’informativa riassuntiva del Dirigente del Commissariato P.S. di A. che non specificava le modalità e le circostanze degli incontri segnalati, la prova della violazione della prescrizione era insufficiente e tale da non permettere l’affermazione della colpevolezza dell’imputato al di là di ogni ragionevole dubbio.

Le argomentazioni prospettate nell’ordinanza di rimessione

Con ordinanza resa all’udienza del 19 dicembre 2018, la Prima Sezione penale rimetteva il ricorso alle Sezioni Unite.

La Sezione rimettente, in particolare, segnalava l’esistenza di un contrasto interpretativo sull’identificazione dei caratteri concreti della disposizione incriminatrice quanto alla violazione della prescrizione di non partecipare a pubbliche riunioni.

Veniva a tal proposito richiamata la sentenza Sez. 1, n. 31322 del 09/04/2018, che aveva a sua volta ritenuto che il rinvio, espresso nella disposizione dell’art. 75 d.Igs. n. 159 del 2011, alle prescrizioni inerenti alla sorveglianza speciale, non può ricomprendere il divieto di partecipare a pubbliche riunioni in quanto l’indeterminatezza della nozione di “pubblica riunione” comporta la mancanza di tassatività della fattispecie; di conseguenza, era stata annullata senza rinvio per insussistenza del fatto la sentenza di condanna pronunciata nei confronti di imputato che si era recato allo stadio per assistere ad una partita di calcio nonostante il divieto contenuto nel decreto applicativo della misura.

La pronuncia si era messa nella scia delle Sez. U, n. 40076 del 27/04/2017 che aveva negato che l’inosservanza delle prescrizioni generiche di «vivere onestamente» e di «rispettare le leggi» da parte del soggetto sottoposto alla sorveglianza speciale con obbligo o divieto di soggiorno integrasse il reato previsto dall’art. 75, comma 2, d. Igs. n. 159 del 2011.

Altra pronuncia, di poco successiva, aveva invece ribadito che il divieto di partecipare a “pubbliche riunioni” riguarda qualsiasi riunione di più persone in un luogo pubblico o aperto al pubblico, al quale abbia facoltà di accesso un numero indeterminato di persone, indipendentemente dal motivo della riunione (Sez. 1, n. 28261 del 08/05/2018), rigettando il ricorso avverso la sentenza che aveva confermato la condanna dell’imputato per la sua partecipazione ad una seduta del consiglio comunale.

La pronuncia da ultimo citata aveva tratto il fondamento del divieto dall’esigenza di impedire o contenere possibili occasioni di incontro del sorvegliato speciale con altri soggetti, esigenza che prescinde dalle ragioni della riunione, rilevando piuttosto l’impossibilità di un controllo adeguato da parte degli organi di pubblica sicurezza cosicché aveva ritenuto che la nozione di “pubblica riunione” non debba essere intesa in un’accezione formalistica.

La sentenza, oltre a ciò, aveva sostenuto come il divieto di partecipare a pubbliche riunioni costituisca una prescrizione specifica, espressamente prevista nel decreto applicativo della misura di prevenzione, imposta nel rispetto dell’art. 8 d. Igs. n. 159 del 2011, giustificata dalla pericolosità sociale del sorvegliato speciale e dalle finalità preventive perseguite dalla misura, abbia negato la carenza del requisito della conoscibilità da parte del destinatario delle specifiche condotte la cui inosservanza può determinare la responsabilità penale.

L’ordinanza di rimessione sottolineava altresì come il contrasto interpretativo fosse sorto dopo la sentenza della Corte EDU, De Tomaso ma aggiungeva che, quanto alle ricadute strettamente penalistiche dell’inosservanza delle prescrizioni, le precedenti sentenze delle Sezioni Unite avevano ritenuto necessarie letture interpretative sistematiche che rispettassero i principi generali di offensività delle condotte e di tassatività delle previsioni incriminatrici alla luce della tensione di fondo tra la necessità di prevenire la ripetizione di condotte devianti e la pretesa di far derivare la responsabilità penale dalla violazione di qualunque obbligo o prescrizione.

Il Collegio rimettente, tra l’altro, esprimeva dubbi sul rispetto del principio di offensività dell’interpretazione ampia della nozione di “pubbliche riunioni” e riteneva necessaria una sua rimeditazione.

D’altro canto, l’art. 8 d. Igs. n. 159 del 2011, che non lasciava alcuna discrezionalità al giudice che applica la misura di prevenzione, ad opinione del giudice rimettente, avrebbe determinato «un potenziale contrasto con una razionale selezione della tipologia e della ampiezza dei divieti imposti, che tenga conto da una lato della rilevanza dei diritti incisi e dall’altro di una obbligatoria correlazione […] tra la prescrizione imposta e la tipologia di pericolosità sociale manifestata dal soggetto destinatario» stante il fatto che tale “selezione razionale” si avrebbe, sempre secondo la Sezione rimettente, da una «constatazione individualizzata di necessità e utilità di quella particolare prescrizione – espressa in forma chiara e precisa e non ridondante rispetto ai fini – a porsi quale ingrediente di un complessivo trattamento di prevenzione, capace di limitare la tendenza alla ripetizione di condotte devianti».

Le valutazioni giuridiche formulate dalle Sezioni Unite

Le Sezioni Unite, prima di entrare nel merito della questione ad Ella proposta, la delimitavano nei seguenti termini: “Se, ed in quali limiti, la partecipazione del soggetto sottoposto alla sorveglianza speciale di pubblica sicurezza ad una manifestazione sportiva tenuta in luogo aperto al pubblico risulti fatto punibile, in riferimento al reato di violazione delle prescrizioni imposte al sorvegliato speciale di cui agli artt. 8 e 75 d. Igs. n. 159 del 2011”.

Premesso ciò, veniva prima di tutto osservato che l’ art. 75, comma 2, d.lgs. n. 159 del 2011 punisce con la pena della reclusione da uno a cinque anni l’inosservanza degli obblighi e prescrizioni inerenti alla sorveglianza speciale con l’obbligo o il divieto di soggiorno posto che gli obblighi e le prescrizioni sono dettati dal tribunale che dispone la misura di prevenzione: l’art. 8, comma 2 del d. Igs. n. 159, infatti, prevede che «qualora il tribunale disponga l’applicazione di una delle misure di prevenzione di cui all’art. 6, nel provvedimento sono determinate le prescrizioni che la persona sottoposta a tale misura deve osservare»; il comma 4 elenca le prescrizioni che il tribunale deve dettare «in ogni caso», tra cui quella «di non associarsi abitualmente alle persone che hanno subito condanne e sono sottoposte a misure di prevenzione o di sicurezza» e quella «di non partecipare alle pubbliche riunioni».

Orbene, una volta rilevato che la rimessione alle Sezioni Unite era stata disposta per le questioni interpretative concernenti la seconda prescrizione ma i due ricorrenti erano stati condannati anche per la violazione della prima tenuto conto altresì del fatto che ì commi 5 e 6 della norma permettono al tribunale di imporre altre prescrizioni al sorvegliato speciale: tutte quelle «che ravvisi necessarie, avuto riguardo alle esigenze di difesa sociale», alcune di esse sono tipizzate dal legislatore, se ne faceva conseguire come il contenuto precettivo del reato di cui all’art. 75 cit. sia costruito per relationem agli obblighi e alle prescrizioni previsti dall’art. 8 dello stesso decreto.

Precisato ciò, gli Ermellini facevano presente come la norma in esame – che costituisce la integrale trasposizione della fattispecie originariamente prevista dall’art. 9, legge 27 dicembre 1956, n. 1423 – fosse stata oggetto di numerose pronunce della Corte Costituzionale, delle Sezioni Unite della Cassazione e della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo fermo restando che tali pronunce non avevano valutato soltanto la fattispecie penale in sé e per sé considerata ma il complesso normativo relativo alle misure di prevenzione e, quindi, la selezione dei destinatari della misura di prevenzione, l’individuazione e la natura delle prescrizioni e degli obblighi che possono o devono essere dettati, la loro sanzionabilità penale in base alla fattispecie incriminatrice in esame così come pure il il legislatore era intervenuto su tali tematiche.

Ciò posto, si evidenziava in particolare come fossero state limitate le categorie dei soggetti destinatari delle misure di prevenzione cancellando quella dei «proclivi a delinquere» (Corte Cost., sent. n. 177 del 1980) e quella di coloro che dovevano ritenersi «abitualmente dediti a traffici delittuosi» (Corte Cost., sent. n. 24 del 2019) dato che il legislatore del 2011 non aveva riprodotto, tra le prescrizioni che devono essere dettate in sede di applicazione della misura della sorveglianza speciale, quelle «di non dare ragioni di sospetto» e «di non trattenersi abitualmente nelle osterie, bettole o in casi di prostituzione», previste dall’art. 5, comma terzo, legge n. 1423 del 1956 così come le Sezioni Unite, Sinigaglia e Paternò, avevano escluso, in via interpretativa, che la fattispecie penale de qua punisca anche la violazione dell’obbligo del sorvegliato speciale di portare con sé ed esibire la carta di permanenza (art. 8, comma 7 D. Igs. n. 159 del 2011) qualificando la condotta come violazione dell’art. 650 cod. pen. (Sez. U, n. 32923 del 29/05/2014) nonché la violazione delle prescrizioni di “vivere onestamente” e di “rispettare le leggi“; con la sentenza n. 25 del 2019, inoltre, la Corte Costituzionale era intervenuta su tali ultime prescrizioni dichiarando l’illegittimità costituzionale dell’art. 75, commi 1 e 2 d.lgs. n. 159 del 2011 nella parte in cui puniscono come contravvenzione o come delitto la loro inosservanza.

A loro volta le diverse pronunce in questione avevano affrontato, innanzitutto, il tema della precisione delle norme e della possibilità per l’interessato di conoscere e individuare le condotte vietate e di prevedere le decisioni giudiziarie.

La tematica, peraltro, veniva in rilievo sotto due profili: l’individuazione delle categorie di soggetti che possono essere sottoposti alle misure di prevenzione e la descrizione degli obblighi e delle prescrizioni dettate al sottoposto alla misura di prevenzione la cui violazione è sanzionata penalmente.

Le due sentenze della Corte Costituzionale già ricordate, invero, avevano espunto le categorie dei «proclivi a delinquere» e di coloro «che debbano ritenersi, sulla base di elementi di fatto, abitualmente dediti a traffici delittuosi» proprio per la «radicale imprecisione» della descrizione normativa con la conseguente discrezionalità per gli operatori e, pertanto, alla luce dei due interventi, l’applicazione delle misure di prevenzione, ad avviso della Corte, dovrebbe essere ormai limitata a persone effettivamente pericolose nonché in grado di prevedere, in conseguenza delle loro condotte, una decisione in questo senso.

Detto questo, proprio il secondo profilo, ad opinione della Sezioni Unite, rilevava nel caso di specie dato che la sentenza delle Sezioni Unite, Paternò aveva distinto tra le prescrizioni generiche e le prescrizioni specifiche negando un reale contenuto precettivo delle prescrizioni di “vivere onestamente” e di “rispettare le leggi” in quanto indeterminate e imprecise e non indicanti alcun comportamento specifico da osservare.

Rilevato quanto appena esposto, una seconda tematica da doversi affrontare, secondo la Corte, doveva essere quella del rispetto dei principi di offensività e di proporzionalità atteso che, anche se le misure di prevenzione vengono applicate a soggetti effettivamente pericolosi, non tutte le violazioni delle prescrizioni dettate dal Tribunale possono essere penalmente sanzionate: le Sezioni Unite, Sinigaglia avevano diffatti evidenziato che, per essere penalmente sanzionate, le violazioni degli obblighi e delle prescrizioni devono consistere in condotte «eloquenti, in quanto espressive di una effettiva volontà di ribellione all’obbligo o al divieto di soggiorno»; in altri termini, non è possibile, cioè, «equiparare, in una omologante indifferenza valutativa, ogni e qualsiasi défaillance comportamentale, anche se ascrivibile a soggetto qualitativamente pericoloso» mentre, piuttosto, devono essere puniti soltanto quei comportamenti che, violando le leggi, costituiscono indice di una persistente e ulteriore pericolosità, cioè quelle inosservanze che determinano un “annullamento” di fatto della misura.

Tal che, sulla base di tali considerazioni, unite all’interpretazione testuale delle norme, veniva affermato che il mancato porto della carta di permanenza non integra il reato di cui all’art. 75 d. Igs. n. 159 del 2011 ma la contravvenzione di cui all’art. 650 cod. pen..

Una terza problematica – contigua, ma non coincidente con la precedente – si interrogava sulla legittimità delle prescrizioni previste per il sorvegliato speciale alla luce della necessità di tutelare altri diritti costituzionalmente riconosciuti.

Proprio con riferimento al divieto di partecipare alle pubbliche riunioni, la Corte EDU, De Tommaso, aveva espresso preoccupazione per il fatto «che le misure previste dalla legge e applicate al ricorrente comprendono l’assoluto divieto di partecipare a riunioni pubbliche. La legge non specifica alcun limite temporale o  spaziale di questa libertà fondamentale, la cui restrizione è lasciata interamente alla discrezione del giudice».

Come osservava incidentalmente l’ordinanza di rimessione, il precetto viene criticato per l’eccessiva ampiezza del divieto piuttosto che in rapporto al deficit di conoscibilità mentre, quanto agli obblighi di vivere onestamente e di rispettare le leggi, la Corte EDU censurava la norma che li prevede perché «non formulata in modo sufficientemente dettagliato e [perché] non chiarisce con sufficiente chiarezza il contenuto delle misure di prevenzione che potrebbero essere applicate ad una persona»: la «preoccupazione» espressa dalla Corte EDU con riferimento al divieto di partecipare a pubbliche riunioni, quindi, riguardava soprattutto l’assolutezza della compressione della relativa libertà.

Alla luce di ciò, secondo il Supremo Consesso, non vi è dubbio che il riferimento finale alla restrizione  lasciata interamente alla discrezione del giudice sembra evocare anche il vizio della incertezza del contenuto della prescrizione trattandosi, tuttavia, di un accenno non del tutto chiaro tenuto conto, da una parte, che il tribunale che applica la misura di prevenzione non ha discrezionalità nel graduare la restrizione della libertà di partecipare alle riunioni pubbliche (che «deve in ogni caso prescrivere» ai sensi dell’art. 8, comma 4, d.lgs. n. 159 del 2011), dall’altra che – salva la tematica dell’interpretazione della nozione di “pubbliche riunioni” – la prescrizione, per essere concretamente applicabile, non necessita di ulteriori specificazioni (come, invece, avviene, ad esempio, per la prescrizione «di non rincasare la sera più tardi e di non uscire la mattina più presto di una determinata ora», per la quale occorre la specificazione dell’orario nel decreto).

Ciò posto, gli Ermellini osservavano come la Corte Costituzionale si fosse ripetutamente intervenuta sul complesso della normativa, come già anticipato, valutandola alla luce delle tre tematiche appena enucleate.

Con la sentenza n. 27 del 1959, la Corte risolveva in senso affermativo il quesito relativo alla compatibilità delle due prescrizioni in esame con il dettato costituzionale, pur in presenza di limitazioni notevoli a taluni diritti riconosciuti dalla Costituzione, affermando che esse trovano il loro fondamento nelle finalità generali della intera legge.

Il giudice delle leggi, in particolare, osservava che l’art. 13 della Costituzione riconosce la possibilità di restrizioni alla libertà personale, così come gli articoli 16 e 17, ammettono limitazioni alla libertà di circolazione e di soggiorno e consentono il divieto delle pubbliche riunioni per comprovati motivi di sicurezza e di incolumità pubblica mentre veniva esclusa che la riserva di legge prevista dalla Costituzione desse luogo ad una «potestà illimitata del legislatore ordinario» e, in qualche modo, delimitava la portata della pronuncia sotto due profili: la tutela di altri diritti costituzionalmente garantiti nelle ipotesi concrete giunte all’esame del giudice e il criterio di interpretazione delle norme in questione.

Affrontando il quesito «se […] nel divieto di associarsi non sia per avventura da comprendersi ogni forma di abituale accompagnarsi ad altra persona, per qualsiasi ragione di lavoro, di affetto, di cultura, di amicizia, ecc.; e se nel divieto di partecipare a pubbliche riunioni non rientrino perfino le funzioni di culto, i comizi elettorali, le riunioni sportive, e simili», la Corte riconosceva un ruolo specifico al giudice penale: «codeste specificazioni importano in sostanza una determinazione dei concreti elementi di fatto che concorrono volta per volta a realizzare la fattispecie del reato di trasgressione agli obblighi della sorveglianza speciale: indagine che esula dal compito della Corte»; il criterio interpretativo da adottare era, comunque, restrittivo: «al giudice penale, cui la indagine spetta, non dovrà sfuggire né il carattere eccezionale delle limitazioni di libertà in questione, che non può non riflettersi sul significato da attribuire ai termini adoperati dalla legge, né la distinzione, che certo merita di essere considerata, fra i contatti sociali che la legge specificamente indica come pericolosi e quelli che costituiscono il normale e quotidiano svolgimento dei rapporti della vita, inibito di regola soltanto a chi è sottoposto a misure detentive».

La legittimità della prescrizione di non partecipare a pubbliche riunioni, tra l’altro, veniva ribadita con la sentenza n. 126 del 1983 con la quale la Corte risolveva positivamente i dubbi sulla determinatezza della norma e sul rispetto del principio di legalità di cui all’art. 25 della Costituzione negando anche la lesione del diritto di manifestazione del pensiero e di quello di associarsi liberamente in partiti.

La Corte, difatti, ribadiva che «spetta al giudice penale determinare i concreti elementi di fatto che concorrono volta per volta a realizzare la fattispecie del reato di trasgressione agli obblighi della sorveglianza».

Con la sentenza n. 161 del 2009 la Consulta riteneva inoltre come la modifica dell’art. 9, comma 2, della legge 27 dicembre 1956, n. 1423 operata dall’art. 14 del decreto legge 27 luglio 2005, n. 144, convertito, con modificazioni, dalla legge 31 luglio 2005, n. 155 (Misure urgenti per il contrasto del terrorismo internazionale), con la previsione della pena della reclusione da uno a cinque anni in caso di inosservanza di tutti gli obblighi e le prescrizioni inerenti la sorveglianza speciale con l’obbligo o il divieto di soggiorno, non violasse il principio di proporzionalità della sanzione penale poiché la pena riguardava soggetti sottoposti ad una grave misura di prevenzione in quanto ritenuti pericolosi per la sicurezza pubblica, con conseguente inidoneità di altre misure.

Il rispetto del principio di proporzionalità, d’altronde, veniva ribadito con la sentenza n. 282 del 2010 così come nella stessa sentenza veniva in rilievo il principio di tassatività e di determinatezza della norma penale: la Corte, dopo aver affermato la necessità di costituzionalmente garantiti nelle ipotesi concrete giunte all’esame del giudice e il criterio di interpretazione delle norme in questione,

affrontando il quesito «se […] nel divieto di associarsi non sia per avventura da comprendersi ogni forma di abituale accompagnarsi ad altra persona, per qualsiasi ragione di lavoro, di affetto, di cultura, di amicizia, ecc.; e se nel divieto di partecipare a pubbliche riunioni non rientrino perfino le funzioni di culto, i comizi elettorali, le riunioni sportive, e simili», riconosceva un ruolo specifico al giudice penale: «codeste specificazioni importano in sostanza una determinazione dei concreti elementi di fatto che concorrono volta per volta a realizzare la fattispecie del reato di trasgressione agli obblighi della sorveglianza speciale: indagine che esula dal compito della Corte»; il criterio interpretativo da adottare era, comunque, restrittivo: «al giudice penale, cui la indagine spetta, non dovrà sfuggire né il carattere eccezionale delle limitazioni di libertà in questione, che non può non riflettersi sul significato da attribuire ai termini adoperati dalla legge, né la distinzione, che certo merita di essere considerata, fra i contatti sociali che la legge specificamente indica come pericolosi e quelli che costituiscono il normale e quotidiano svolgimento dei rapporti della vita, inibito di regola soltanto a chi è sottoposto a misure detentive».

La legittimità della prescrizione di non partecipare a pubbliche riunioni, inoltre, veniva ribadita con la sentenza n. 126 del 1983 con la quale la Corte risolveva positivamente i dubbi sulla determinatezza della norma e sul rispetto del principio di legalità di cui all’art. 25 della Costituzione negando anche la lesione del diritto di manifestazione del pensiero e di quello di associarsi liberamente in partiti.

La Corte, infatti, ribadiva che «spetta al giudice penale determinare i concreti elementi di fatto che concorrono volta per volta a realizzare la fattispecie del reato di trasgressione agli obblighi della sorveglianza».

Con la sentenza n. 161 del 2009 la Corte riteneva come la modifica dell’art. 9, comma 2, della legge 27 dicembre 1956, n. 1423 operata dall’art. 14 del decreto legge 27 luglio 2005, n. 144, convertito, con modificazioni, dalla legge 31 luglio 2005, n. 155 (Misure urgenti per il contrasto del terrorismo internazionale), con la previsione della pena della reclusione da uno a cinque anni in caso di inosservanza di tutti gli obblighi e le prescrizioni inerenti la sorveglianza speciale con l’obbligo o il divieto di soggiorno, non violasse il principio di proporzionalità della sanzione penale, poiché la pena riguardava soggetti sottoposti ad una grave misura di prevenzione, in quanto ritenuti pericolosi per la sicurezza pubblica, con conseguente inidoneità di altre misure.

Il rispetto del principio di proporzionalità veniva per giunta ribadito con la sentenza n. 282 del 2010 fermo restando che nella stessa sentenza veniva in rilievo il principio di tassatività e di determinatezza della norma penale: la Corte, dopo aver affermato la necessità di non valutare isolatamente il singolo elemento descrittivo dell’illecito, ma di collegarlo con gli altri elementi costitutivi della fattispecie e con la disciplina in cui questa s’inserisce, osservava che «l’inclusione nella formula descrittiva dell’illecito di espressioni sommarie, di vocaboli polisensi, ovvero di clausole generali o concetti elastici, non comporta un vulnus del parametro costituzionale evocato, quando la descrizione complessiva del fatto incriminato consenta comunque al giudice – avuto riguardo alle finalità perseguite dall’incriminazione ed al più ampio contesto ordinamentale in cui essa si colloca – di stabilire il significato di tale elemento mediante un’operazione interpretativa non esorbitante dall’ordinario compito a lui affidato: quando cioè quella descrizione consenta di esprimere un giudizio di corrispondenza della fattispecie concreta alla fattispecie astratta, sorretto da un fondamento ermeneutico controllabile; e, correlativamente, permetta al destinatario della norma di avere una percezione sufficientemente chiara ed immediata del relativo valore precettivo»; sulla base di questi principi, si escludeva l’indeterminatezza delle prescrizioni.

Oltre a ciò, veniva rilevato come le due sentenze emesse a seguito della pronuncia della Corte EDU, De Tommaso, avessero permesso alla Corte Costituzionale di riassumere e precisare i principi fin qui riportati; in particolare, le due pronunce avevano affrontato il tema della tassatività e di precisione delle fattispecie di pericolosità generica (sentenza n. 24 del 2019) e della legittimità della sanzione penale per la violazione delle prescrizioni generiche di «vivere onestamente» e «rispettare le leggi» (sent. n. 25 del 2019).

Con riferimento alla prima questione, la Corte aveva ritenuto come, al di fuori della materia penale, l’esigenza di predeterminazione delle condizioni in presenza delle quali possa legittimamente limitarsi un diritto costituzionalmente e convenzionalmente protetto possa essere soddisfatta anche sulla base dell’interpretazione, fornita da una giurisprudenza costante e uniforme, di disposizioni legislative pure caratterizzate dall’uso di clausole generali o, comunque, da formule connotate in origine da un certo grado di imprecisione risultando essenziale che tale interpretazione giurisprudenziale sia in grado di porre la persona potenzialmente destinataria delle misure limitative del diritto in condizioni di poter ragionevolmente prevedere l’applicazione della misura stessa.

Quanto, invece, alla legittimità della sanzione penale per le violazioni delle prescrizioni generiche, la Corte, dando atto del giudizio negativo della Corte EDU, aveva ritenuto necessario completare l’adeguamento della normativa alla CEDU operato, in via interpretativa, dalle Sezioni Unite, Paternò, osservando che l’esigenza di contrastare il rischio, che siano commessi reati, «è comunque soddisfatta alle prescrizioni specifiche che l’art. 8 consente al giudice di indicare e modulare come contenuto della misura di prevenzione della sorveglianza speciale con o senza obbligo (o divieto) di soggiorno».

Ciò posto, a questo punto della disamina, i giudici di piazza Cavour evidenziavano, una volta fatto presente come fosse stato già analizzato in precedenza  il contenuto delle sentenze delle Sezioni Unite, Sinigaglia e Paternò, come la prima rimarcava l’importanza dei principi di offensività e di proporzionalità per l’interpretazione delle norme che in questa sede rilevano: richiamando «i severi presidi costituzionali costituiti dagli artt. 13 e 25 della Carta Costituzionale» ed osservando che, così come chiarito dalla Corte Costituzionale, «le prescrizioni imposte al sorvegliato hanno la funzione di garantire la effettività della tutela preventiva, allo scopo di scongiurare (o, almeno, limitare) la commissione di futuri reati», la sentenza affermava che la sanzione penale nei confronti del sorvegliato che non si conformi alle direttive può riguardare solo «condotte “eloquenti”, in quanto espressive di una effettiva volontà di ribellione all’obbligo o al divieto di soggiorno, vale a dire alle significative misure che detto obbligo o divieto accompagnano, caratterizzano o connotano, misure la cui elusione comporterebbe quella sostanziale vanificazione di cui fa parola la sentenza Da Silva» (richiamando un passaggio incidentale della sentenza Sez. 1, n. 793 del 20/3/1985) nonchè Veniva richiamata anche la sentenza della Corte EDU, Labita c. Italia, per confermare «la necessità di una stretta correlazione tra misura restrittiva – repressiva e scopo perseguito».

A sua volta la sentenza delle Sezioni Unite, Paternò riprende queste considerazioni, sottolineando che la sentenza SU, Sinigaglia supera la giurisprudenza di legittimità, formatasi soprattutto dopo le modifiche del 2005 apportate alla legge n. 1423, per cui ogni violazione delle prescrizioni integrerebbe, quasi automaticamente, il reato di violazione degli obblighi inerenti alla sorveglianza speciale, e richiede di verificare se la violazione della prescrizione sia strumentale ad una sorta di “vanificazione” della misura cui si riferisce e, pertanto, non tutte le “inottemperanze” del sorvegliato speciale possono giustificare la maggiore severità repressiva ma, in base al principio di offensività ma solo quei comportamenti che, violando le leggi, costituiscono indice di una persistente e ulteriore pericolosità.

Così, con riferimento alle prescrizioni c.d. specifiche, la sentenza Sinigaglia chiarisce che non ogni violazione delle prescrizioni configura il reato di violazione degli obblighi inerenti alla sorveglianza speciale, ma solo quelle inosservanze significative, che cioè determinano un “annullamento” di fatto della misura.

La norma incriminatrice de qua, difatti, è posta a tutela dell’interesse dell’autorità del provvedimento applicativo della misura di prevenzione e, indirettamente, dell’ordine e della sicurezza pubblica sicché deve escludersi ogni automatismo nella sua applicazione, dovendo il giudice sempre accertare che la condotta abbia in concreto offeso il bene giuridico tutelato.

In sostanza, non ogni “inottemperanza” del sorvegliato speciale giustifica la maggiore severità repressiva, ma, in base al principio di offensività, solo quei comportamenti che costituiscono indice di una volontà diretta ad eludere la misura di prevenzione personale.

Del resto la Corte costituzionale aveva da tempo indicato la necessità di operare una selezione delle condotte negando la rilevanza di condotte che non siano in qualche modo sintomatiche della pericolosità già accertata in sede di giudizio di prevenzione (Corte cost. n. 27 del 1959).

Tal che, dal principio affermato dalla Corte costituzionale con la sentenza da ultimo citata, doveva trarsi un canone generale di giudizio idoneo a “calibrare” sulla pericolosità del soggetto le singole prescrizioni.

Ciò posto, si evidenziava dunque come i due orientamenti evidenziati dall’ordinanza di rimessione alle Sezioni Unite si comprendessero e si inserissero nel quadro fin qui riassunto.

Si dava però atto che, accanto ad essi, ne esisteva un terzo, anch’esso assai recente, che afferma che, in base ad un’interpretazione convenzionalmente orientata del quadro normativo interno alla luce della sentenza della Corte EDU, De Tommaso, il giudice ha l’obbligo di indicare le ragioni per cui la prescrizione di non partecipare a pubbliche riunioni si renda, nel singolo caso concreto, necessaria in funzione del controllo della pericolosità sociale del prevenuto al fine di evitare compressioni generalizzate di una libertà fondamentale, oggetto di presidio costituzionale (Sez. 1, n. 49731 del 06/06/2018) e, in applicazione di tale principio, la Corte aveva annullato senza rinvio per insussistenza del fatto la sentenza che aveva affermato la responsabilità dell’imputato per il reato di cui all’art. 9, comma 2, legge 27 dicembre 1956, n. 1423, in quanto recatosi ad assistere a comizi elettorali nonostante il divieto di partecipare a pubbliche riunioni contenuto nel decreto applicativo della misura.

Si evidenziava oltre tutto come la sentenza de qua collegasse la decisione della Corte EDU, De Tommaso, alle pronunce nelle quali la Corte Costituzionale aveva ritenuto che la concreta determinazione degli elementi di fatto, che concorrono di volta in volta a realizzare la fattispecie del reato di violazione degli obblighi della sorveglianza speciale, spetti al giudice penale che a sua volta deve tenere conto del carattere eccezionale delle limitazioni di libertà che incidono su diritti costituzionalmente presidiati; in effetti, devono essere vietati solo i contatti del sorvegliato che incrementano il rischio di pericolosità o che si pongono in continuità con il profilo che la misura di prevenzione intende controllare mentre non devono essere vietate le attività in cui si risolve l’esercizio di diritti di spessore superprimario, di presidio costituzionale.

Dal canto suo la sentenza Sez. 1, Lo Giudice afferma che l’interpretazione ampia della prescrizione di non partecipare a pubbliche riunioni – comprendendo tra le stesse «qualsiasi riunione di più persone in luogo pubblico o aperto al pubblico, al quale abbia facoltà di accesso un numero indeterminato di persone, indipendentemente dal motivo della riunione» – risponde del tutto alle esigenze sopra enucleate: da una parte, il divieto è giustificato dalla necessità di un controllo adeguato del comportamento del sorvegliato speciale da parte degli organi di pubblica sicurezza, al fine di impedire o limitare possibili occasioni di incontro con altri soggetti nonché la commissione di reati, controllo reso difficoltoso dal numero elevato di persone; dall’altra non sussiste un problema di genericità della norma, atteso che la prescrizione di non partecipare a pubbliche riunioni è espressamente prevista nel decreto applicativo e ad esso può essere attribuito un contenuto determinato e specifico, con valore precettivo; di conseguenza è rispettato anche il requisito della conoscibilità da parte del destinatario delle specifiche condotte la cui inosservanza può determinare la responsabilità penale.

Oltre a ciò veniva rilevato, peraltro, come, nel processo, il ricorrente non avesse posto il tema dell’ampiezza della nozione di “pubbliche riunioni” posto che costui aveva sostenuto che, poiché la seduta del Consiglio comunale, alla quale Lo Giudice si era recato ad assistere, non era stata tenuta per mancanza del numero legale, la “pubblica riunione” non vi era stata nonostante il numero delle persone presenti davanti alle quali l’imputato aveva preso la parola.

L’interpretazione della nozione di “pubbliche riunioni” adottata dalla sentenza Sez. 1, Lo Giudice, d’altronde, rilevava la Corte, conferma un orientamento già affermato da Sez. 1, n. 28964 del 11/3/2003,  con riferimento alla partecipazione del sorvegliato speciale ad una partita di calcio allo stadio, ribadito anche successivamente (Sez. 1, n. 15870 del 11/03/2015; Sez. 1, n. 42283 del 24/10/2007).

Ebbene, a fronte di ciò, benché le sentenze Sez. 1, Pellegrini e Sez. 1, Sassano dispongano entrambe l’annullamento senza rinvio della condanna per insussistenza del fatto e benché ambedue richiamino le sentenze della Corte EDU, De Tommaso e Sezioni Unite, Paternò, i presupposti delle due decisioni risultavano essere assai differenti.

In primo luogo, la sentenza Sez. 1, Pellegrini è basata sulla inevitabile e inemendabile indeterminatezza del precetto di non partecipare alle pubbliche riunioni mentre, al contrario, la sentenza Sez. 1, Sassano recepisce la giurisprudenza di legittimità e l’insegnamento della Corte Costituzionale per affermare – così come la sentenza Sez. 1, Lo Giudice – che il precetto è specifico e tassativo e che i giudici – sia in sede di applicazione della misura di prevenzione che in sede penale – non possiedono alcuna discrezionalità.

La sentenza Sez. 1, Pellegrini, in ragione dell’asserita indeterminatezza della prescrizione di non partecipare a pubbliche riunioni, la assimila a quelle di “vivere onestamente” e di “rispettare le leggi” e, quindi, compie la medesima operazione ermeneutica delle Sezioni Unite, Paternò, ritenendola “prescrizione generica“; invece, al contrario, la sentenza Sassano la riteneva specifica ma adottava un’interpretazione in base alla quale, pur essendo il divieto di partecipare alle pubbliche riunioni indefettibile, per integrare il reato di cui all’art. 75, comma 2 d. Igs. n. 159 del 2011, la sua violazione deve concretamente avere posto in pericolo il controllo di pericolosità del soggetto che costituisce la finalità della misura di prevenzione: orientamento giustificato dalla circostanza che la prescrizione limita l’esercizio di un diritto costituzionalmente garantito.

Ciò posto, ad avviso della Corte, l’ordinanza di rimessione alle Sezioni Unite, pur non menzionando espressamente la sentenza Sez. 1, Sassano, sembrava aderire a questa seconda impostazione che garantirebbe il rispetto del principio di offensività permettendo di selezionare le condotte effettivamente pericolose e di non punire quelle inoffensive tali da non giustificare la limitazione dei diritti costituzionalmente.

La sentenza Sez. 1, Sassano, in particolare, riprende le indicazioni della sentenza Corte Cost. n. 27 del 1959 secondo cui il giudice penale ha un ruolo nella determinazione dei concreti elementi di fatto che concorrono volta per volta a realizzare la fattispecie del reato di trasgressione agli obblighi della sorveglianza speciale e deve adottare un’interpretazione restrittiva alla luce del carattere eccezionale delle limitazioni di libertà in questione indicazione alla quale, come si è visto, fanno riferimento le sentenze delle Sezioni Unite, Sinigaglia e Paternò.

Ciò che contraddistingue questo orientamento, pertanto, rilevano le Sezioni Unite, è l’individuazione nel giudice penale, anziché in quello che applica la misura di prevenzione, dell’organo deputato a garantire il principio di offensività e l’adeguatezza delle prescrizioni imposte al sorvegliato speciale.

La sentenza SU, Sinigaglia, inoltre, trae dalla pronuncia n. 282 del 2010 della Corte costituzionale un criterio generale secondo cui le prescrizioni devono essere «calibrate» sulla pericolosità del soggetto come «componenti integrate di un sottosistema di sicurezza calibrato ad personam» fermo restando che, tuttavia, una “selezione” era stata operata nel corso degli anni intervenendo sull’elenco delle prescrizioni la cui violazione è penalmente sanzionata: negando che la violazione dell’obbligo di portare con sé ed esibire la carta di permanenza integri il reato di cui all’art. 75 d.Igs. n. 159 del 2011, negando valore precettivo alle prescrizioni di vivere onestamente e di rispettare le leggi, successivamente dichiarando l’illegittimità costituzionale della norma incriminatrice con riferimento a tali prescrizioni ma, ancora prima, ad opera del legislatore, cancellando alcune delle prescrizioni che il Tribunale deve in ogni caso dettare in sede di applicazione della misura.

La sentenza Sez. 1, Sassano, al contrario, ritiene viceversa necessaria una valutazione in concreto del giudice penale in aggiunta a quella del giudice della prevenzione: il giudice penale dovrebbe, di volta in volta, argomentare in ordine alla “significatività” della violazione della prescrizione nel senso dovrebbe «dire per quale ragione essa imposizione si renda, nel singolo caso concreto, necessaria in funzione dell’attuazione del controllo di pericolosità».

Alla luce del quadro normativo e giurisprudenziale fin qui riassunto, le Sezioni Unite ritenevano possibile rispondere alla questione di diritto sollevata con l’ordinanza di rimessione nei seguenti termini.

L’orientamento espresso dalla sentenza Sez. 1, Pellegrini non poteva essere accolto.

La ricognizione della normativa che fa riferimento alle “pubbliche riunioni“, svolta al fine di evidenziare la mancanza di una definizione univoca della nozione, ad avviso della Cassazione, non appariva convincente sotto diversi profili.

Di per sé, il fatto che un concetto assuma significati differenti (o parzialmente differenti) in diversi settori della normativa non costituisce una anomalia inaccettabile e si riscontra frequentemente e, quindi, appare improprio accostare normative differenti e rivolte a destinatari diversi.

In ogni caso, la sentenza non verificava la possibilità di individuare una definizione di “pubblica riunione” che potesse essere valida per tutte le norme evidenziate: se il problema è la conoscibilità della norma da parte del destinatario, occorre verificare se le diverse nozioni di “pubblica riunione” costituiscano o meno degli insiemi che presentano un’intersezione comune a tutti; in altre parole, era

necessario accertare se esiste una nozione di “pubblica riunione” – ovviamente più ristretta – che tutte le norme contengono, espressamente o meno.

Se tale nozione esiste, è possibile ritenere che i destinatari della prescrizione siano in grado di conoscerne il contenuto; non possano, cioè, avere dubbi sul fatto che in una situazione corrispondente a quella nozione ristretta essi stiano sicuramente partecipando ad una “pubblica riunione” fermo restando che questa nozione ristretta e comune a tutte le norme menzionate esiste: è la riunione non occasionale di più persone in luogo pubblico.

Ripercorrendo l’analisi delle norme menzionate dalla sentenza citata, la Suprema Corte rilevava, quanto all’art. 266, comma 3, cod. pen., che l’ipotesi di istigazione commessa in luogo pubblico e alla presenza di più persone sia espressamente contemplata dal n. 2; quanto all’art. 18 T.U.L.P.S., che la sentenza della Corte Costituzionale n. 27 del 1958, dichiarando illegittima la norma nella parte in cui impone il preavviso della riunione al questione anche per le riunioni non tenute in luogo pubblico, ha limitato l’obbligo solo a quelle tenute in luogo pubblico; quanto all’art. 4 legge 18 aprile 1975, n. 110, che il divieto di portare armi si applica certamente anche alle riunioni in luogo pubblico.

Contrariamente a quanto sostenuto dalla sentenza Sez. 1, Pellegrini, quindi, ad avviso della Corte, esiste una soluzione interpretativa che rende determinato il contenuto della norma incriminatrice elimina l’eccessiva discrezionalità del giudice penale nell’applicazione della norma e permette la conoscibilità del precetto, così orientando il comportamento dei destinatari.

Oltre a ciò, veniva messo in risalto il fatto che la sentenza de qua, per sopperire al vizio di indeterminatezza, adottava una “interpretazione convenzionalmente orientata” con la quale sostanzialmente disapplica la previsione normativa senza sollevare una questione di legittimità costituzionale.

Invero, come più volte ribadito dalla Corte Costituzionale, la disapplicazione di una disposizione di legge interna da parte del giudice, perché ritenuta non conforme alle previsioni della CEDU, come interpretata dalla Corte EDU, è illegittima perché in contrasto con la stessa Costituzione mentre alle norme della Convenzione EDU deve, invece, assegnarsi il rango di «fonti interposte» destinate ad integrare il parametro di cui all’art. 117 della Costituzione il cui primo comma impone al legislatore di conformare il prodotto normativo agli obblighi internazionali, fra i quali vanno annoverati anche quelli derivanti dalla richiamata Convenzione.

Proprio perché si tratta di norme che integrano il predetto parametro costituzionale, ma rimangono pur sempre a livello sub-costituzionale, secondo la Suprema Corte, è necessario che esse stesse siano conformi a Costituzione, non sottraendosi, dunque, al relativo sindacato da parte del Giudice delle leggi e, di conseguenza, qualora il contrasto tra la disciplina nazionale e le norme della CEDU, come interpretate dalla Corte EDU, non possa essere risolto in via interpretativa, va esclusa la possibilità di applicare direttamente la norma convenzionale interposta «obliterando il contrario disposto di una norma interna» (Sez. U, n. 27620 del 28/04/2016; Sez. U, n. 34472 del 19/04/2012; Sez. U, n. 41694 del 18/10/2012): in questo caso, dovrà essere sollevato l’incidente di costituzionalità e la Corte costituzionale dovrà accertare se le disposizioni interne in questione siano compatibili con quelle della Convenzione, come interpretate dalla Corte di Strasburgo ed assunte quali fonti integratrici dell’indicato parametro costituzionale, e, nel contempo, verificare se le norme convenzionali interposte, sempre nell’interpretazione fornita dalla medesima Corte europea, non si pongano in conflitto con altre norme conferenti dell’ordinamento costituzionale italiano fermo restando come non possa non farsi presente come la Corte Costituzionale avesse ripetutamente affermato la legittimità della norma in questione; con la sentenza n. 126 del 1983, anche con riferimento alla possibile violazione del principio di legalità, ritenendo la prescrizione espressa in termini tassativi.

Del resto, come già osservato al par. 6, la censura mossa dalla Corte EDU, De Tommaso, in ordine alla prescrizione in esame, era di natura differente rispetto a quelle formulate per le prescrizioni di “vivere onestamente” e “rispettare le leggi“.

In effetti, la prescrizione di non partecipare alle pubbliche riunioni, ad opinione del Supremo Consesso, non può essere equiparata all’obbligo di portare la carta di permanenza e alle prescrizioni di vivere onestamente e rispettare le leggi oggetto delle sentenze delle Sezioni Unite, Sinigaglia e Paternò.

Invero, nel primo caso, la decisione delle Sezioni Unite era basata sul dato formale della mancata inclusione dell’obbligo nelle prescrizioni, sul fatto che la previsione di legge è rivolta principalmente all’autorità che deve compilare e consegnare la carta di permanenza al soggetto e solo dopo al sottoposto e, ancora, sull’estraneità di quell’obbligo alla ratio della misura di prevenzione di sottoporre a sorveglianza particolare il soggetto al fine di prevenire la consumazione di reati mentre le Sezioni Unite, Paternò, invece, avevano escluso che gli obblighi di vivere onestamente e rispettare le leggi potessero considerarsi vere e proprie prescrizioni, aventi reale contenuto precettivo, non imponendo comportamenti specifici, ma contenendo un mero ammonimento “morale” che, per di più, vale per ogni consociato: la norma, in definitiva, non individua condotte socialmente dannose che devono essere evitate né prescrive quelle socialmente utili che devono essere perseguite.

All’opposto, il divieto di partecipare a pubbliche riunioni non grava su tutti gli associati mentre, al contrario, la Costituzione tutela il contrario diritto di riunirsi, anche in luoghi aperti al pubblico. Dunque, all’esistenza di un diritto corrisponde la possibilità di formulare un divieto perché la condotta può essere delimitata oggettivamente e, pertanto, il concetto di “riunione“, presupponendo una realtà fisica, concreta; in sostanza, si tratta di una prescrizione specifica e non generica.

Per di più, la prescrizione è strettamente connessa alla finalità della misura di prevenzione della sorveglianza speciale poiché la partecipazione alle pubbliche riunioni rende più difficoltosa proprio la sorveglianza del sottoposto alla misura di prevenzione che deve essere rafforzata soprattutto se si tratta di misura accompagnata dall’obbligo o divieto di soggiorno e, quindi, rende più facile e meno controllabile la consumazione di reati oppure l’incontro con soggetti pregiudicati o sottoposti a misure.

Orbene, benché la soluzione adottata con la sentenza Sez. 1, Pellegrini, ad avviso della Corte, non possa, quindi, essere accolta, è pur tuttavia condivisibile la critica in essa contenuta verso l’interpretazione accolta dalla giurisprudenza maggioritaria ribadita da Sez. 1, Lo Giudice, secondo cui il deficit di determinatezza della nozione di “pubbliche riunioni” può essere risolto alla luce della ratio della prescrizione: si tratta, effettivamente, di una inversione logico-giuridica per effetto della quale la ratio giustificatrice della fattispecie assurge ad elemento integrativo di quest’ultima.

Il risultato di tale linea interpretativa, di conseguenza, è una nozione della prescrizione ampia e non ben delimitata che lascia spazio alla discrezionalità del giudice penale e si disinteressa, in sostanza, del tema della conoscibilità della norma penale da parte del destinatario e della conseguente prevedibilità delle conseguenze della sua condotta.

Come già anticipato, ad avviso della Corte, una soluzione interpretativa che fornisca certezza alla nozione in esame e, quindi, al precetto penale esiste.

La norma cui fare riferimento è l’art. 17 della Costituzione il quale, dopo avere stabilito che «i cittadini hanno diritto di riunirsi pacificamente e senz’armi», detta una separata disciplina per le riunioni in luogo aperto al pubblico e per quelle in luogo pubblico: mentre per le prime «non è previsto preavviso», delle seconde «deve essere dato preavviso alle autorità, che possono vietarle soltanto per comprovati motivi di sicurezza o di incolumità pubblica».

Come si è visto, tale disciplina aveva permesso alla Corte Costituzionale, con la sentenza n. 27 del 1959, di ritenere legittime le limitazioni alle libertà derivanti dall’applicazione delle misure di prevenzione e in particolare quella oggetto della presente sentenza.

Se, quindi, la limitazione del diritto di riunione in ragione di una misura di prevenzione è costituzionalmente legittima solo se si tratta di “riunioni in luogo pubblico” – la Corte Costituzionale riteneva, evidentemente, che se l’art. 17, terzo comma permette alle autorità sia di vietare la riunione che di vietare ad una singola persona di partecipare alla riunione – è inevitabile e corretto ritenere che le “pubbliche riunioni” di cui all’art. 8, comma 4 d. Igs. n. 159 del 2011 altro non siano che le “riunioni in luogo pubblico” cui fa riferimento l’art. 17 della Costituzione: non è tra l’altro un caso che, in quella sentenza, la Corte Costituzionale denominava “pubbliche riunioni” quelle di cui all’art. 17 cit..

Questa soluzione interpretativa, ad avviso della Cassazione, risponde pienamente alle esigenze fin qui evidenziate: da una parte rende certo il contenuto della prescrizione penalmente sanzionata e, quindi, conoscibile dai destinatari, dall’altra elimina ogni discrezionalità del giudice penale nell’applicazione della norma; inoltre – anche tenendo conto delle osservazioni mosse dalla Corte EDU nella sentenza De Tommaso – riduce al minimo la compressione del diritto di riunione (tutelato a livello convenzionale dall’art. 11 CEDU); infine permette alla sanzione penale di colpire soltanto condotte sintomatiche della pericolosità del soggetto e che determinano un annullamento di fatto della misura, atteso che la partecipazione ad una riunione in luogo pubblico impedisce (o comunque, rende estremamente difficoltoso) la sorveglianza del soggetto.

Pertanto, alla luce delle considerazioni sin qui esposte, gli Ermellini ritenevano come la soluzione interpretativa adottata rendesse superflua la soluzione proposta da Sez. 1, Sassano di una verifica obbligatoria da parte del giudice penale della concreta offensività della violazione della prescrizione trattandosi di una soluzione che appare forzata e non necessaria.

A ben vedere, in conseguenza della riduzione del numero delle prescrizioni obbligatorie penalmente sanzionate ad opera del legislatore, dell’interpretazione delle Sezioni Unite Sinigaglia e Paternò e dell’intervento della Corte Costituzionale, l’art. 8, comma 4 d. Igs. 159 del 2011 ne prevede cinque (di non allontanarsi dalla dimora senza preventivo avviso, di non associarsi ai pregiudicati o sottoposti a misure, di rimanere la notte in casa, di non detenere e portare armi e di non partecipare a pubbliche riunioni), tutte significative rispetto alla finalità perseguita dal legislatore di consentire una sorveglianza sul soggetto pericoloso al fine di evitare la commissione di reati.

Ad avviso del Supremo Consesso, appare ragionevole, quindi, la sanzione penale della violazioni di quelle prescrizioni che il legislatore indica, appunto, come sintomo della pericolosità del soggetto e finalizzata ad annullare la sorveglianza speciale disposta dal tribunale fermo restando che vi sono, però, «ipotesi estreme» – per richiamare l’espressione utilizzata dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 27 del 1959 – in cui la violazione della condotta può perdere quel significato pregnante attribuitogli dal legislatore: la Corte, con riferimento alla prescrizione di non partecipare a pubbliche riunioni, menzionava la partecipazione a funzioni di culto, ai comizi elettorali e alle  riunioni sportive.

Ciò posto, si notava, tuttavia, come la Corte non affermasse tout court che la natura di manifestazione religiosa o di comizio elettorale della riunione pubblica rende lecita la partecipazione ad essa da parte del sorvegliato speciale che, cioè, i diritti riconosciuti dagli artt. 19 e 48 della Costituzione prevalgono in ogni caso sui motivi di sicurezza che permettono di vietare al sorvegliato speciale la partecipazione a una pubblica riunione ma piuttosto rimetteva al giudice penale di determinare i concreti elementi di fatto che concorrono a realizzare la fattispecie del reato di trasgressione agli obblighi di sorveglianza speciale.

Il modello di valutazione adeguato, pertanto, non può che essere quello previsto dallo stesso art. 8, comma 4, d. Igs. n. 159 del 2011 per l’assenza nelle ore notturne dall’abitazione: la violazione sussiste se tale assenza interviene «senza comprovata necessità e, comunque, senza averne data tempestiva notizia all’autorità di pubblica sicurezza»; a carico del sorvegliato speciale che intende violare quella disposizione (o è costretto a farlo per necessità impreviste) sussiste un duplice onere: quello di avvisare preventivamente l’Autorità di pubblica sicurezza deputata al controllo e, in sede processuale, quella di evidenziare e fornire la prova delle necessità che lo avevano indotto ad uscire dall’abitazione nelle ore interdette o a ritardare il rientro.

Anche per l’allontanamento dalla dimora occorre il preventivo avviso all’autorità locale di pubblica sicurezza mentre quanto, invece, alla detenzione e al porto di armi, appare difficile ipotizzare una «ipotesi estrema» che consenta al giudice penale di ritenere la condotta priva di offensività.

Il modello si adatta anche alla prescrizione di non partecipare a pubbliche riunioni: il sorvegliato speciale, infatti, potrà chiedere al Tribunale l’autorizzazione a partecipare a quella riunione pubblica e, comunque, chiamato a rispondere della violazione della prescrizione, avrà l’onere di allegare e dimostrare che la sua condotta era inoffensiva in quanto la partecipazione alla pubblica riunione era giustificata da motivi validi; in mancanza di tali allegazioni e tale prove non sembra vi sia spazio per il giudice penale di ritenere la condotta inoffensiva sulla base di una valutazione astratta: ad esempio, perché quella riunione pubblica era un i motivi giustificanti la violazione potrebbero venire a conoscenza del giudice anche da altre fonti (ad esempio, la stessa polizia giudiziaria).

Il giudice penale, in definitiva, non può essere chiamato a fornire una comizio elettorale (al quale si può partecipare in quanto sostenitori di un partito o di un candidato ma anche per approfittare della folla per compiere reati o per incontrare pregiudicati) fermo restando che non si tratta di un vero e proprio onere probatorio perché motivazione aggiuntiva della offensività della violazione della prescrizione: la valutazione è stata compiuta dal legislatore, che ha ritenuto necessarie quelle prescrizioni – ora limitate nel modo che si è visto – al fine di permettere quella sorveglianza che il tribunale, la cui decisione è soggetta ad impugnazione, ha ritenuto necessaria alla luce della pericolosità del soggetto; il giudice penale, piuttosto, potrà ritenere giustificata la partecipazione alla pubblica riunione se dagli atti emergeranno le specifiche circostanze cui si è accennato: in questo modo potrà operare la selezione delle condotte cui fanno riferimento le sentenze SU, Sinigaglia e Paternò.

L’interpretazione adottata, dunque, riduceva sensibilmente la portata della prescrizione di non partecipare a pubbliche riunioni escludendo che il divieto riguardi anche le riunioni in luoghi aperti al pubblico anche se ad esse può partecipare un numero indeterminato di persone ed esclude, quindi, le manifestazioni sportive in luoghi aperti al pubblico come stadi o palasport rispetto alle quali, peraltro, vige la autonoma normativa dettata dalla legge 13 dicembre 1989, n. 401 (Interventi nel settore del giuoco e delle scommesse clandestini e tutela della correttezza nello svolgimento di manifestazioni sportive) che contempla anche la misura di prevenzione del divieto di accesso alle manifestazioni sportive fermo restando che ciò non comporta necessariamente un indebolimento della misura di prevenzione della sorveglianza speciale.

In effetti, la ridotta estensione della prescrizione in oggetto non incide sulla possibilità, per il giudice che applica la misura di prevenzione, di imporre «tutte le prescrizioni che ravvisi necessarie, avuto riguardo alle esigenze di difesa sociale» (art. 8, comma 5, d. Igs. 159 del 2011). La previsione appena richiamata deve essere valorizzata in quanto permette al giudice della prevenzione di dettare prescrizioni specifiche con una motivazione adeguata che le giustifichi alla luce della pericolosità del soggetto e dei conseguenti pericoli per la società, non utilizzando, quindi, formule generali e stereotipate (nel caso in esame il decreto applicativo della sorveglianza speciale aggiungeva alla prescrizione di non partecipare alle pubbliche riunioni le parole “o manifestazioni di qualsiasi genere“) che ripropongono inevitabilmente le tematiche già trattate in conseguenza della loro genericità.

Ovviamente – quando ciò sarà giustificato – la prescrizione aggiuntiva potrebbe riguardare anche la partecipazione a riunioni che non sono “pubbliche riunioni” nel significato ristretto che in questa sede è stato attribuito all’espressione.

Il ricorso alle prescrizioni facoltative di cui all’art. 8, comma 5 d. Igs. n. 159 del 2011 ha il vantaggio di configurare la misura di prevenzione in maniera personalizzata sul soggetto tenendo conto dei motivi che la giustificano e, inoltre, permette un contraddittorio pieno già in sede di applicazione della misura, con le impugnazioni previste, con l’ulteriore conseguenza che anche il giudice penale potrà più facilmente valutare l’offensività di una violazione, essendo la prescrizione dettata in rapporto alla pericolosità del soggetto.

Il Supremo Consesso, di conseguenza, alla luce delle considerazioni sin qui esposte, giungeva a formulare il seguente principio di diritto: “La prescrizione di non partecipare a pubbliche riunioni, che deve essere in ogni caso dettata in sede di applicazione della misura di prevenzione della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza ai sensi dell’art. 8, comma 4, d.lgs. n. 159 del 2011, si riferisce esclusivamente alle riunioni in luogo pubblico”.

In questa decisione, infine, veniva chiarita la distinzione tra riunioni in luogo pubblico da quelle in luogo aperto al pubblico essendo ivi postulato che, alla luce del criterio distintivo tra i luoghi pubblici e quelli aperti al pubblico è quello dell’accessibilità, già indicato dalle Sezioni Unite, omissis (Sez. U, n. 8 del 31/03/1951), che è in luogo pubblico la riunione che si tenga in un luogo in cui ogni persona può liberamente transitare e trattenersi senza che occorra in via normale il permesso della autorità (ad es., piazza, strada) mentre, da un lato, è in luogo aperto al pubblico la riunione che si tenga in luogo chiuso (ad es., cinema, teatro), ove l’accesso, anche se subordinato ad apposito biglietto di ingresso, è consentito ad un numero indeterminato di persone, dall’altro, è, invece, privata, la riunione che si tenga in luogo chiuso con la limitazione dell’accesso a persone già nominativamente determinate.

Conclusioni

La sentenza in commento è assai interessante nella parte in cui viene formulato l’arresto giurisprudenziale secondo il quale la prescrizione di non partecipare a pubbliche riunioni, che deve essere in ogni caso dettata in sede di applicazione della misura di prevenzione della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza ai sensi dell’art. 8, comma 4, d.lgs. n. 159 del 2011, si riferisce esclusivamente alle riunioni in luogo pubblico.

Va da sé dunque, che ai fini dell’applicazione di questa disposizione legislativa, deve farsi riferimento a queste riunioni, ossia quelle riunioni in cui ogni persona può liberamente transitare e trattenersi senza che occorra in via normale il permesso della autorità (ad es., piazza, strada) mentre a nulla rilevano le riunioni in luogo aperto al pubblico ossia quelle in cui si tengano in luogo chiuso (ad es., cinema, teatro) ove l’accesso, anche se subordinato ad apposito biglietto di ingresso, è consentito ad un numero indeterminato di persone e quelle private ossia le riunioni che si tengono in luogo chiuso con la limitazione dell’accesso a persone già nominativamente determinate.

Il giudizio in ordine a quanto statuito in siffatta pronuncia, proprio perché fa chiarezza su tale tematica giuridica, dunque, non può che essere positivo.

Volume consigliato

 

Sentenza collegata

75010-1.pdf 98kB

Iscriviti alla newsletter per poter scaricare gli allegati

Grazie per esserti iscritto alla newsletter. Ora puoi scaricare il tuo contenuto.

Avv. Di Tullio D’Elisiis Antonio

Scrivi un commento

Accedi per poter inserire un commento