La mancata prospettazione di uno dei possibili rischi nel consenso informato non comporta responsabilità del sanitario se non è provato

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Il fatto

Nel caso oggetto di commento, la parte attrice sosteneva che la moglie, affetta da obesità, il giorno 19.05.2014 era stata ricoverata presso una prima struttura sanitaria di Pavia ed era stata sottoposta a “bypass gastrico” (tipo Long Magestrasse). Il 25 maggio la paziente veniva stata dimessa, con indicazione di effettuare due giorni dopo, cioè il 27 maggio, una visita ambulatoriale per un controllo post-operatorio. Il giorno successivo a detta visita ambulatoriale, la moglie dell’attore veniva trasportata d’urgenza al Pronto Soccorso del Policlinico San Matteo e, nella tarda sera dello stesso dì, veniva nuovamente dimessa e accompagnata presso la sua abitazione. Nelle immediate e successive ore del mattino del 29 maggio, il merito era costretto a contattare il 118 per far trasportare la paziente d’urgenza al pronto soccorso e, dopo alcuni tentativi di rianimazione in P.S., poco dopo veniva dichiarato il decesso della paziente.

La parte attrice agiva, quindi, in giudizio per richiedere la condanna delle due suddette strutture sanitarie coinvolte nella vicenda  al risarcimento di danni patiti e patiendi, in qualità di marito ed erede della paziente deceduta. In particolare, l’attore riteneva ascrivibile il decesso della moglie alla negligenza dei medici di entrambe le strutture sanitarie nelle quali la paziente aveva ricevuto assistenza medica. Infatti, egli sosteneva che la prima struttura sanitaria nella quale la moglie era stata sottoposta all’operazione di “bypass gastrico”, al momento di acquisizione del consenso informato, non avesse incluso nei rischi connessi all’intervento la possibilità di trombosi e, inoltre, contestava, sempre nei confronti della stessa, che fossero state rimosse le calze, utili a scongiurare un rischio trombotico, in un tempo troppo breve a seguito dell’intervento.

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Nei confronti della seconda struttura sanitaria, ossia il Policlinico di San Matteo, l’attore contestava che l’equipe medica intervenuta non avesse proceduto correttamente poiché aveva evitato di approfondire il caso e aveva omesso di richiedere una consulenza chirurgica, procedendo, invece, alla dimissione della paziente, deceduta poco dopo.

Le parti convenute costituitesi in giudizio, eccepivano che la paziente fosse a conoscenza del rischio trombotico, pur non essendo esso stato incluso nell’elenco di rischi del consenso informato e che comunque la paziente anche se fosse stata adeguatamente informata sul rischio, si sarebbe ugualmente sottoposta all’operazione. Per quanto attiene alla seconda struttura sanitaria coinvolta, questa eccepiva altresì che le condotte dei suoi medici fossero state conformi alle Linee Guida (ciò anche in rifermento alla questione delle calze, proprio perché non vi è una procedura univoca dettata in materia) e che un eventuale ricovero e una diagnosi approfondita della paziente a seguito del suo ingresso al Pronto Soccorso non avrebbe comunque modificato l’esito della vicenda.

>>Si veda la pronuncia della Corte di Cassazione in un caso analogo

La pronuncia del Tribunale

Il giudice lombardo ha analizzato preliminarmente la contestazione inerente al consenso informativo e l’ha ritenuta non fondata alla luce dell’orientamento della Corte di Cassazione (manifestato con sent. n. 24471/2020). In particolare, secondo detto orientamento, la violazione dell’obbligo a carico dei sanitari di acquisire un consenso informato del paziente rispetto all’atto terapeutico può determinare la lesione di due diversi diritti: (i) quello all’autodeterminazione, per il caso in cui l’omessa o insufficiente informazione preventiva ha determinato la compromissione dell’interesse del paziente a valutare in maniera autonoma i rischi e i benefici del trattamento sanitario; (ii) quello alla salute, per il caso in cui l’atto terapeutico ha determinato un danno biologico al paziente e l’omessa o insufficiente informazione preventiva ha impedito al paziente di negare il proprio consenso all’esecuzione dell’atto terapeutico (che invece, se correttamente informato, avrebbe rifiutato di effettuare).

Secondo il Tribunale di Pavia, nella fattispecie in esame non ricorre nessuna delle due ipotesi: da un lato, la lamentata carenza informativa non ha cagionato ulteriori pregiudizi diversi rispetto alla lesione della salute, in quanto è stato solo dedotto, in termini ipotetici, che la corretta informazione avrebbe permesso alla paziente di valutare se effettuare o meno l’operazione oppure se effettuare altri tipi di operazioni. Dall’altro lato, il giudice ritiene che, anche se il rischio di trombosi fosse stato correttamente indicato, non si può presumere che la paziente avrebbe rifiutato il trattamento. Anzi, gli elementi di fatto emersi in giudizio (cioè che la paziente fosse affetta da obesità di III grado e fosse contraria a diete e cure farmacologiche, che il rischio trombolitico in questo tipi di interventi non è molto alto e solitamente non scoraggia coloro i quali decidono di intraprendere questa scelta), inducono a far presumere che la paziente avrebbe comunque acconsentito all’esecuzione dell’intervento.

Per quanto concerne la responsabilità della seconda struttura sanitaria, il giudice evidenzia come il CTU abbia constatato che, in sede di primo accesso al Pronto Soccorso, non sarebbe stato da escludere un ulteriore accertamento, ma che, tuttavia, non è provabile che un approfondimento avrebbe condotto ad un diverso esito della vicenda; inoltre, che la trombosi venosa femoro-iliaca, causa della morte, sia stata conseguenza diretta di una complicanza dell’operazione e non di un errore medico. Secondo il CTU, quindi, non può essere ritenuto “più probabile che non” che il comportamento omesso dagli operatori sanitari, se posto in essere, avrebbe permesso di evitare l’esito mortale che si è verificato.

Pertanto, viene esclusa l’esistenza di un nesso causale che colleghi con certezza, quantomeno “processuale”, la condotta lesiva con l’evento luttuoso.

Il Tribunale, da ultimo, prende in considerazione l’ipotesi che la fattispecie possa assumere rilevanza sotto il profilo della perdita di chance di sopravvivenza.

Secondo il giudice lombardo, viene generalmente definita chance la concreta ed effettiva occasione favorevole di conseguire un determinato bene o risultato. La perdita di chance ha carattere patrimoniale e consiste nella privazione della possibilità di un miglior risultato, procurando così un danno a colui che avrebbe avuto diritto a quella ulteriore chance.  In tal caso, l’evento di danno sarà risarcibile solo se in giudizio viene provata la sua dimensione di apprezzabilità, serietà e consistenza non essendo, dunque, sufficiente la sola relazione causale. Secondo il giudice, nella CTU viene ritenuto che, nonostante la mancata diagnosi possa aver compromesso la possibilità per la paziente di avere una ulteriore chance terapeutica, questo fatto non raggiunga livelli giuridicamente apprezzabili e, dunque, impedisca qualsiasi risarcimento.

Alla luce di tutte le suesposte considerazioni, il Tribunale giunge alla decisione di rigettare tutte le domande attoree.

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Sentenza collegata

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Avv. Muia’ Pier Paolo

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