La Consulta esclude che la mancata applicabilità dell’art. 131 bis c.p. nei procedimenti innanzi al giudice di pace sia incostituzionale

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Corte costituzionale, 3 aprile 2019 (ud. 3 aprile 2019, dep. 16 maggio 2019), n. 120 (Presidente Lattanzi, Relatore Amoroso)

Il fatto e la questione di legittimità costituzionale prospettata nell’ordinanza di rimessione

Il Tribunale ordinario di Catania, con ordinanza del 6 marzo 2018, sollevava, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 131-bis del codice penale, «nella misura in cui esso non è applicabile ai reati rientranti nella competenza del Giudice di Pace».

In punto di fatto il rimettente premetteva che, con atto di appello del 5 aprile 2017, D. C., imputato del reato di lesioni colpose lievi (art. 590 cod. pen.), aveva proposto impugnazione, anche ai fini delle statuizioni civili, avverso la sentenza del Giudice di pace di Catania «con la quale il medesimo era stato condannato alla pena di euro 400,00 di multa, oltre al risarcimento dei danni in favore della parte civile costituita».

Il giudice a quo riferiva come l’appellante avesse lamentato l’errata valutazione da parte del giudice di primo grado della sussistenza del nesso di causalità tra il sinistro stradale occorso e le lesioni personali riportate dalla persona offesa, nonché l’omessa pronuncia ai sensi dell’art. 35 del decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274 (Disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace, a norma dell’articolo 14 della legge 24 novembre 1999, n. 468) in ragione dell’intervenuto risarcimento del danno e, in subordine, aveva chiesto sentenza di assoluzione ai sensi del combinato disposto di cui agli artt. 530 del codice di procedura penale e 131-bis cod. pen. stante la tenuità dell’offesa subita dalla persona offesa, avendo quest’ultima riportato lesioni personali lievi da cervicalgia post-traumatica, giudicate guaribili in giorni otto.

Il rimettente aggiungeva, inoltre, come il Giudice di pace avesse dichiarato la penale responsabilità dell’imputato sulla base dell’attività istruttoria espletata correttamente ritenendo sussistente il nesso eziologico tra la condotta colposa del medesimo (consistita nella mancata osservanza della distanza di sicurezza mentre si trovava alla guida del veicolo) e il danno patito dalla persona offesa costituitasi parte civile, ma nulla aveva statuito in ordine alla possibilità di una pronuncia ai sensi degli artt. 34 e 35 del d.lgs. n. 274 del 2000.

Riguardo alla doglianza relativa alla mancata applicazione dell’art. 35 del citato decreto legislativo, il rimettente osservava che la giurisprudenza, allo stato, fosse ondivaga in ordine all’applicabilità di tale disposizione nel giudizio d’appello e che, ad ogni modo, si poneva la necessità di appurare in via preliminare l’applicabilità, nella specie, dell’art. 131-bis cod. pen. stante il disposto dell’art. 129 cod. proc. pen. per cui il giudice deve verificare innanzi tutto la possibilità di emettere una pronuncia di assoluzione nel merito (quale quella di assoluzione ex art. 131-bis cod. pen.) piuttosto che di mero proscioglimento (quale quella di dichiarazione di estinzione del reato per condotte riparatorie ex art. 35 citato).

Con riferimento, in particolare, al profilo della tenuità del fatto, osservava il rimettente come il Giudice di pace nulla avesse deciso in ordine alla possibilità di una pronuncia ai sensi dell’art. 34 del d.lgs. n. 274 del 2000 durante tutto il corso del procedimento e che, per contro, l’appellante, nell’atto introduttivo del giudizio di secondo grado, avesse richiesto una pronuncia di assoluzione ai sensi dell’art. 131-bis cod. pen..

Oltre a ciò, il rimettente si soffermava sulle differenze intercorrenti tra l’art. 34 del d.lgs. n. 274 del 2000 e l’art. 131-bis cod. pen., anche alla luce della sentenza della Corte di cassazione, sezioni unite penali, 22 giugno-28 novembre 2017, n. 53683 fermo restando che, in punto di rilevanza, il rimettente riteneva come sarebbero stati sussistenti tutti i presupposti per adottare una pronuncia ai sensi dell’art. 131-bis cod. pen. atteso che la pena prevista per il reato di cui all’art. 590 cod. pen. rientra nei limiti edittali stabiliti dall’art. 131-bis, primo comma, cod. pen. e che si trattava, nella specie, di un’offesa di particolare tenuità tenendo anche conto delle modalità della condotta, meramente colposa, e alla luce dell’esiguità del danno cagionato alla persona offesa.

Quanto alla non manifesta infondatezza, il rimettente affermava che l’art. 131-bis cod. pen., così come interpretato dalla menzionata pronuncia della Corte di cassazione, avrebbe violato il principio di eguaglianza (art. 3 Cost.) nella misura in cui la causa di non punibilità, prevista dalla disposizione censurata, non è applicabile a fatti di minor disvalore, quali sono quelli rientranti nella sfera di competenza del giudice di pace, mentre ben può trovare applicazione in relazione a fatti di maggiore gravità, rientranti nella cognizione del tribunale.

Ad avviso del giudice rimettente, difatti, sarebbe del tutto irrazionale che una norma di diritto sostanziale, quale è l’art. 131-bis cod. pen. – introdotta per evitare all’imputato le possibili ricadute negative scaturenti dalla condanna per fatti di minima offensività, i quali, per il comune sentire sociale, sono connotati da minimo disvalore – sia inapplicabile proprio ai reati che, per essere di competenza del giudice di pace, sono per definizione di minore gravità.

Le argomentazioni sostenute dalle parti

Con atto depositato il 18 dicembre 2018, era intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo alla Corte di dichiarare la questione inammissibile o infondata.

L’Avvocatura generale, in primo luogo, eccepiva come il rimettente, nell’argomentare la rilevanza della questione, avesse dato priorità, nell’ordine di trattazione, alla questione relativa all’applicazione della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto di cui all’art. 131-bis cod. pen., rispetto a quella della sussistenza della causa di estinzione del reato prevista dall’art. 35 del d.lgs. n. 274 del 2000 come effetto della condotta riparatoria rilevandosi al contempo che, a differenza di quanto ritenuto dal Tribunale ordinario di Catania, la verifica della sussistenza dei presupposti per un proscioglimento ex art. 131-bis cod. pen. non può che seguire, logicamente e giuridicamente, l’esclusione di una causa di estinzione del reato quale quella prevista dall’art. 35 del d.lgs. n. 274 del 2000.

Nel merito, l’Avvocatura riteneva che la questione fosse comunque infondata e, a tal proposito, richiamava la menzionata pronuncia della Corte di cassazione.

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Le valutazioni giuridiche formulate dalla Corte costituzionale

La Consulta osservava in via preliminarmente come dovesse essere rigettata l’eccezione di inammissibilità dell’Avvocatura generale dello Stato atteso che il giudice a quo può prendere in considerazione per prima una questione, preliminare o di merito, sulla base del criterio della ragione più liquida che comporti l’assorbimento di altre questioni (sentenza n. 188 del 2018), si aveva, nella specie, che il Tribunale rimettente motivava plausibilmente l’ordine in cui aveva esaminato le censure dell’imputato, appellante avverso la sentenza di condanna del giudice di pace ritenendo quest’organo giudicante che, secondo il criterio di priorità desumibile dall’art. 129 del codice di procedura penale, l’accertamento della causa di non punibilità per la particolare tenuità dell’offesa ai sensi dell’art. 131-bis cod. pen., ove applicabile anche ai reati di competenza del giudice di pace, sia logicamente prioritario, ancorché dedotto dall’appellante in via subordinata, rispetto al riconoscimento della causa di estinzione del reato prevista dall’art. 35 del d.lgs. n. 274 del 2000.

Tal che se ne faceva conseguire che il mancato previo esame della sussistenza, o no, di una condotta riparatoria idonea a determinare l’estinzione del reato, non inficia l’ammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 131-bis cod. pen. e dunque, ad avviso della Corte, in maniera del tutto motivata, il giudice rimettente riteneva come fosse questa la disposizione che, escludendo la punibilità per la particolare tenuità dell’offesa, il giudice di primo grado avrebbe potuto innanzi tutto applicare e che invece non aveva applicato; ciò di cui l’imputato appellante si doleva come motivo di impugnazione mentre lo stesso appellante non aveva affatto censurato la mancata applicazione dell’art. 34 del citato decreto legislativo sull’esclusione della procedibilità dell’azione penale in caso di particolare tenuità del fatto, preclusa dalla richiesta (accolta) della persona offesa, costituitasi parte civile, di risarcimento del danno; né il giudice rimettente aveva investito tale norma di alcuna censura di illegittimità costituzionale.

Pertanto, alla stregua di ciò, sempre a parere del giudice delle leggi, da una parte sussiste una plausibile motivazione della rilevanza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 131-bis cod. pen., che è quindi ammissibile, ma dall’altra parte tale rilevanza circoscrive e delimita il perimetro della questione stessa a tale unica disposizione.

Premesso ciò, passando al merito, i giudici di legittimità costituzionale stimavano inquadrare in via preliminare il contesto normativo nel cui ambito si poneva la questione di legittimità costituzionale nei limiti appena sopra fissati.

Si faceva presente a tal riguardo che l’art. 131-bis cod. pen. ‒ inserito dall’art. 1, comma 2, del decreto legislativo 16 marzo 2015, n. 28, recante «Disposizioni in materia di non punibilità per particolare tenuità del fatto, a norma dell’articolo 1, comma 1, lettera m), della legge 28 aprile 2014, n. 67», in attuazione della legge 28 aprile 2014, n. 67 (Deleghe al Governo in materia di pene detentive non carcerarie e di riforma del sistema sanzionatorio. Disposizioni in materia di sospensione del procedimento con messa alla prova e nei confronti degli irreperibili) ‒ prevede una generale causa di esclusione della punibilità che si raccorda con l’altrettanto generale presupposto dell’offensività della condotta, requisito indispensabile, per la sanzionabilità penale di qualsiasi condotta in violazione di legge, rilevandosi al contempo come la stessa Consulta avesse postulato che «l’offensività deve ritenersi di norma implicita nella configurazione del fatto e nella sua qualificazione di illecito da parte del legislatore» (sentenza n. 333 del 1991).

Il legislatore del 2015, perseguendo una finalità deflattiva analoga a quella sottesa a misure di depenalizzazione ed esercitando l’ampia discrezionalità nel definire «l’estensione di cause di non punibilità, le quali costituiscono altrettante deroghe a norme penali generali» (sentenza n. 140 del 2009), operando in tal guisa, aveva considerato i reati al di sotto di una soglia massima di gravità – quelli per i quali è prevista la pena detentiva non superiore nel massimo a cinque anni, nonché quelli puniti con la pena pecuniaria, sola o congiunta alla predetta pena detentiva – e aveva tracciato una linea di demarcazione trasversale per escludere la punibilità – ma non l’illiceità penale – delle condotte che risultino, in concreto, avere un tasso di offensività marcatamente ridotto, quando appunto l’«offesa è di particolare tenuità».

Su questo presupposto, osservava la Consulta, fa perno la norma censurata, poi integrata da requisiti ulteriori della causa di non punibilità, che meglio delineano la fattispecie della particolare tenuità dell’offesa: il comportamento deve risultare non abituale; deve ricorrere l’esiguità del danno o del pericolo; occorre tener conto delle modalità della condotta fermo restando che la stessa particolare tenuità è ulteriormente specificata nel secondo comma dell’art. 131-bis cod. pen. la quale la esclude quando l’autore ha agito per motivi abietti o futili, o con crudeltà, anche in danno di animali, o ha adoperato sevizie o, ancora, ha profittato delle condizioni di minorata difesa della vittima, anche in riferimento all’età della stessa ovvero quando la condotta ha cagionato o da essa sono derivate, quali conseguenze non volute, la morte o le lesioni gravissime di una persona.

Posto ciò, si metteva inoltre in risalto il fatto che la perdurante illiceità penale della condotta, anche quando il fatto è di lieve entità, risulta inequivocabilmente dall’art. 651-bis cod. proc. pen. secondo cui la sentenza penale irrevocabile di proscioglimento pronunciata per particolare tenuità del fatto in seguito a dibattimento ha efficacia di giudicato quanto all’accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale e all’affermazione che l’imputato lo ha commesso, nel giudizio civile o amministrativo per le restituzioni e il risarcimento del danno promosso nei confronti del prosciolto e del responsabile civile che sia stato citato ovvero sia intervenuto nel processo penale.

Da ciò se ne faceva discende come sia proprio l’illiceità penale, tra l’altro, che fa stato nel giudizio civile o amministrativo con conseguente configurabilità del danno anche non patrimoniale perché cagionato da reato (art. 185, secondo comma, cod. pen.) deducendosi a tal riguardo come la stessa Consulta avesse affermato in proposito che «il fatto particolarmente lieve, cui fa riferimento l’art. 131-bis cod. pen., è comunque un fatto offensivo, che costituisce reato e che il legislatore preferisce non punire, sia per riaffermare la natura di extrema ratio della pena e agevolare la “rieducazione del condannato”, sia per contenere il gravoso carico di contenzioso penale gravante sulla giurisdizione» (ordinanza n. 279 del 2017).

Si evidenziava inoltre come siano iscrivibili nel casellario giudiziario i provvedimenti definitivi che hanno dichiarato la non punibilità ai sensi dell’art. 131-bis cod. pen., come previsto dall’art. 3, comma 1, lettera f), del d.P.R. 14 novembre 2002, n. 313, recante «Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di casellario giudiziale, di casellario giudiziale europeo, di anagrafe delle sanzioni amministrative dipendenti da reato e dei relativi carichi pendenti. (Testo A)».

Si giungeva dunque, alla stregua delle considerazioni sin qui esposte, come questa causa di non punibilità, così declinata, costituisca «innovazione di diritto penale sostanziale» (Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 25 febbraio-6 aprile 2016, n. 13681) e sia di carattere generale tanto che – come stabilisce espressamente l’ultimo comma dell’art. 131-bis – trova applicazione anche quando la legge prevede la particolare tenuità del danno o del pericolo come circostanza attenuante; ciò peraltro non esclude, «ma neppure automaticamente comporta, l’applicazione della causa di non punibilità» (sentenza n. 207 del 2017).

Delineata la normativa da doversi prendere in considerazione nel caso di specie, il giudice delle leggi osservava come cotale novità normativa si collocasse sulla scia di una disciplina di settore ispirata dalla stessa ratio posto che, per un verso, l’art. 27 del d.P.R. 22 settembre 1988, n. 448 (Approvazione delle disposizioni sul processo penale a carico di imputati minorenni), come sostituito dall’art. 1 della legge 5 febbraio 1992, n. 123 (Sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto. Modifiche al testo delle disposizioni sul processo penale a carico di imputati minorenni, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 22 settembre 1988, n. 448), prevede la «tenuità del fatto» come presupposto perché il giudice possa emettere, concorrendo altre condizioni (quale l’occasionalità del comportamento), una sentenza di non luogo a procedere per irrilevanza del fatto, avente natura sostanziale di causa di non punibilità, nei confronti dell’imputato minorenne fermo restando che l’originaria limitazione alla sede processuale dell’udienza preliminare, del giudizio direttissimo e del giudizio immediato è stata dichiarata costituzionalmente illegittima con conseguente generalizzazione dell’operatività di tale speciale causa di non punibilità al processo minorile (sentenza n. 149 del 2003), per altro verso, l’art. 34 del d.lgs. n. 274 del 2000 esclude la procedibilità per i reati di competenza del giudice di pace quando «[i]l fatto è di particolare tenuità» fermo restando che, alla luce di questa previsione normativa, la nozione di “particolare tenuità” del fatto è qui ancora più ampia perché è la risultante complessiva di plurimi fattori concorrenti, centrati sull’esiguità del danno o del pericolo derivati dalla condotta astrattamente sussumibile nella fattispecie di reato, ma integrati anche dall’occasionalità della condotta e dalla valutazione del grado della colpevolezza nonché dal bilanciamento tra il pregiudizio che l’ulteriore corso del procedimento può recare alle esigenze di lavoro, di studio, di famiglia o di salute della persona sottoposta a indagini o dell’imputato e l’interesse della persona offesa alla prosecuzione del procedimento.

Chiarito ciò, si evidenziava come lo spettro più ampio della particolare tenuità del fatto ex art. 34 del d.lgs. n. 274 del 2000 fosse coerente con la costruzione di questa fattispecie come condizione di procedibilità dell’azione penale, piuttosto che come causa di non punibilità, trattandosi di una regola di carattere generale, tant’è che trova applicazione anche nel caso in cui i reati di competenza del giudice di pace siano giudicati da un giudice diverso da quest’ultimo, quale potrebbe essere il tribunale (art. 63, comma 1, del d.lgs. n. 274 del 2000).

Esplicitati i tratti distintivi che connotano queste norme giuridiche, la Corte costituzionale denotava però come le tre citate disposizioni – l’art. 131-bis cod. pen. per i reati di competenza del giudice togato, l’art. 27 del d.P.R. n. 448 del 1988 per i reati commessi da minorenni e l’art. 34 del d.lgs. n. 274 del 2000 per i reati di competenza del giudice di pace – convergessero a realizzare, sotto questo aspetto, una regolamentazione di sostanziale uniformità in termini di rilevanza della particolare tenuità dell’offesa, nel nucleo essenziale delle norme, pur con vari elementi differenziali e specializzanti visto che «il legislatore ben può introdurre una causa di proscioglimento per la “particolare tenuità del fatto” strutturata diversamente» (sentenza n. 25 del 2015); tanto che – si è affermato (ordinanza n. 46 del 2017) – l’art. 131-bis cod. pen. costituisce «una disposizione sensibilmente diversa da quella dell’art. 34 del d.lgs. n. 274 del 2000».

Terminato questo excursus normativo, la Corte costituzionale affrontava la tematica prospettata nell’ordinanza di rimessione ossia il problema interpretativo dell’applicabilità, o no, della causa di non punibilità ai sensi dell’art. 131-bis cod. pen. anche ai reati di competenza del giudice di pace.

Si faceva presente a tal proposito come tale questione avesse registrato un iniziale contrasto di giurisprudenza composto infine dalle Sezioni unite della Corte di cassazione che avevano affermato, come principio di diritto, che la causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, prevista dall’art. 131-bis cod. pen., non è applicabile nei procedimenti relativi a reati di competenza del giudice di pace (Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 22 giugno-28 novembre 2017, n. 53683).

Tale arresto giurisprudenziale, cui la Corte di cassazione aveva dato continuità anche in seguito, e, a detta della Consulta, costituiva “diritto vivente” sicché la disposizione censurata esprime il contenuto normativo così ricostruito posto che il dato giurisprudenziale, anche in un ordinamento che non conosce una rigida regola dello stare decisis, ma solo la forma attenuata di vincolo interpretativo introdotta dall’art. 618, comma 1-bis, cod. proc. pen., identifica la norma espressa dalla disposizione su cui questa Corte è chiamata a svolgere il sindacato di costituzionalità: «le norme vivono nell’ordinamento nel contenuto risultante dall’applicazione fattane dal giudice» (sentenza n. 95 del 1976).

A fronte di ciò, si osservava come l’inapplicabilità dell’art. 131-bis cod. pen. ai reati di competenza del giudice di pace, predicata da tale pronuncia, si basasse non già sul principio di specialità (art. 15 cod. pen.) ma sulla cosiddetta riserva di codice posta dall’art. 16 cod. pen. il quale prevede che nelle materie regolate da leggi speciali – e tale è il d.lgs. n. 274 del 2000 – le disposizioni del codice penale – e quindi anche l’art. 131-bis – si applicano salvo che non sia stabilito altrimenti e, nel caso di specie, la legge penale speciale in questione (il d.lgs. n. 274 del 2000) contiene già, nel suo complesso, una distinta disciplina della materia; in particolare, l’art. 34 regolamenta integralmente la fattispecie del fatto di particolare tenuità che così scherma l’applicabilità, altrimenti operante, dell’art. 131-bis cod. pen. trattandosi di regimi alternativi di fattispecie che hanno come nucleo comune la particolare tenuità del fatto e come elementi differenziali i requisiti di contorno che caratterizzano l’una e l’altra fattispecie.

Tutto ciò premesso, la Consulta stimava la sollevata questione di legittimità costituzionale non  fondata.

Le ragioni che, ad avviso della Corte, giustificavano, sul piano del rispetto dei principi di eguaglianza e di ragionevolezza, questa alternatività risiedeva nelle connotazioni peculiari dei reati di competenza del giudice di pace e del procedimento innanzi a quest’ultimo rispetto ai reati di competenza del tribunale posto che l’eterogeneità delle fattispecie di reato poste a confronto escludeva la dedotta lesione del principio di eguaglianza (sentenza n. 207 del 2017) tenuto conto altresì del fatto che la stessa Consulta aveva più volte posto in rilievo che «il procedimento penale davanti al giudice di pace configura un modello di giustizia non comparabile con quello davanti al tribunale, in ragione dei caratteri peculiari che esso presenta» (sentenza n. 426 del 2008; nello stesso senso, ordinanze n. 28 del 2007, n. 415 e n. 228 del 2005).

In particolare – nel dichiarare non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 60 del d.lgs. n. 274 del 2000, nella parte in cui non consente di applicare le disposizioni del codice penale, relative alla sospensione condizionale della pena, nei casi di condanna a pena pecuniaria per reati di competenza del giudice di pace, neppure quando il beneficio sia stato invocato dalla difesa – la Consulta aveva evidenziato come il giudice di pace sia chiamato a conoscere di reati di ridotta gravità, espressivi, per lo più, di conflitti interpersonali a carattere privato trattandosi di reati per i quali «è stato configurato un nuovo e autonomo assetto sanzionatorio, nel segno della complessiva mitigazione dell’afflittività, lungo le tre linee direttrici della totale rinuncia alla pena detentiva, della centralità della pena pecuniaria e del ricorso, nei casi di maggiore gravità o di recidiva, a speciali sanzioni “paradetentive”, limitative della libertà personale, ma comunque nettamente distinte dalle pene carcerarie (permanenza domiciliare e lavoro sostitutivo)» (sentenza n. 47 del 2014) e, in questo contesto – che vede un rito orientato, più che alla repressione del conflitto sotteso al singolo episodio criminoso, alla sua composizione, oltre che a finalità deflattive – l’inapplicabilità del beneficio (per l’imputato condannato) della sospensione condizionale della pena risulta funzionale a evitare che le sanzioni applicabili dal giudice di pace restino prive di ogni concreta attitudine dissuasiva e, con essa, anche della capacità di fungere da stimolo alla collaborazione con l’opera di mediazione del giudice e alla composizione del conflitto.

Per le stesse ragioni era stata ritenuta manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2 del d.lgs. n. 274 del 2000, sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., nella parte in cui esclude l’applicazione della pena su richiesta delle parti (cosiddetto patteggiamento) nel procedimento penale davanti al giudice di pace (ordinanza n. 50 del 2016).

Le ragioni giustificative di questo duplice regime di esclusione di istituti di carattere sia sostanziale (la sospensione condizionale della pena) che processuale (l’applicazione della pena su richiesta), quali già affermate dalla Corte costituzionale, a maggior ragione, secondo il giudice delle leggi, valgono quando la diversità di disciplina consiste soltanto nella diversa modulazione dei requisiti della non punibilità del fatto di particolare tenuità, che nel suo nucleo essenziale è previsto tanto dall’art. 131-bis cod. pen. per i reati di competenza del giudice togato quanto dall’art. 34 del d.lgs. n. 274 del 2000 per i reati di competenza del giudice di pace.

Si evidenziava a tal riguardo come anche la giurisprudenza di legittimità avesse sottolineato «la natura eminentemente “conciliativa” della giurisdizione di pace, che dà risalto peculiare alla posizione dell’offeso dal reato, tanto da attribuirgli, nei reati procedibili a querela, un (singolare) potere di iniziativa nella vocatio in jus» (Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 16 luglio-27 ottobre 2015, n. 43264) trattandosi infatti di un procedimento «improntato a finalità di snellezza, semplificazione e rapidità, che lo rendono non comparabile con il procedimento davanti al tribunale, e comunque tali da giustificare sensibili deviazioni rispetto al modello ordinario» (sentenza n. 298 del 2008; nello stesso senso, ordinanze n. 28 del 2007, n. 85 e n. 415 del 2005, n. 349 del 2004).

Si aveva quindi che, sia per i reati di competenza del tribunale, sia per quelli di competenza del giudice di pace, rilevasse comunque la particolare tenuità del fatto ma i presupposti della non punibilità, nell’un caso, e della non procedibilità dell’azione penale, nell’altro, non erano pienamente sovrapponibili, ma segnavano la differenza tra i due istituti.

Proseguendo la Consulta nel suo ragionamento giuridico, si denotava come lo scostamento di disciplina, maggiormente significativo, risiedesse nella particolare valutazione che il giudice è chiamato a fare ai sensi dell’art. 34 del d.lgs. n. 274 del 2000 per operare un bilanciamento tra il pregiudizio per l’imputato e l’interesse della persona offesa alla prosecuzione del procedimento ritenendosi ciò però coerente con le rilevate peculiarità del processo penale innanzi al giudice di pace e dei reati devoluti alla sua cognizione atteso che, per tali reati, che già di per sé non sono gravi, è richiesta al giudice una valutazione più ampia, arricchita da elementi ulteriori, stante il fatto che costui deve tener conto del pregiudizio che l’ulteriore corso del procedimento può recare alle esigenze di lavoro, di studio, di famiglia o di salute della persona sottoposta ad indagini o dell’imputato; pregiudizio che può concorrere a far ritenere di particolare tenuità il fatto addebitato all’indagato, allargandone la portata ove non sussista un interesse della persona offesa alla prosecuzione del procedimento.

Nel complesso, si sottolineava come la particolare tenuità del fatto ai sensi dell’art. 34 del d.lgs. n. 274 del 2000 avesse dunque uno spettro più ampio dell’offesa di particolare tenuità ex art. 131-bis cod. pen. tant’è che incide più radicalmente sull’esercizio dell’azione penale e non già solo sulla punibilità dato che la pronuncia del giudice non è iscritta nel casellario giudiziario, a differenza della sentenza che dichiara la non punibilità ex art. 131-bis cod. pen. né, a differenza di quest’ultima, la pronuncia di improcedibilità ex art. 34 del d.lgs. n. 274 del 2000 è idonea a formare alcun giudicato sull’illiceità penale della condotta, come nella fattispecie dell’art. 651-bis cod. proc. pen.; neppure, per la stessa ragione, tale pronuncia è impugnabile dall’imputato, a differenza della sentenza di proscioglimento per la particolare tenuità del fatto ex art. 131-bis cod. pen. (Corte di cassazione, sezione quinta penale, sentenza 8 marzo-12 luglio 2018, n. 32010).

L’alternatività delle due disposizioni emergerebbe, ad avviso della Consulta anche sotto altro aspetto stante il fatto che le Sezioni unite (Cass., sez. un. pen., n. 53683 del 2017) avevano precisato che – quando all’imputazione di un reato di competenza del giudice di pace si aggiunge, a carico dello stesso indagato o imputato, un reato di competenza del tribunale legato da nesso di connessione, pur nel limitato ambito applicativo di cui all’art. 6 del d.lgs. n. 274 del 2000, secondo cui ricorre la connessione soltanto nel caso di persona imputata di più reati commessi con la stessa unica azione od omissione (sentenza n. 64 del 2009) – si ha non solo che si radica la competenza nel tribunale per entrambi i reati, ma anche che vengono meno le ragioni del maggior favore per l’imputato della regola processuale della improcedibilità dell’azione penale per la particolare tenuità del fatto e si riespande la regola comune codicistica della non punibilità per la particolare tenuità dell’offesa, estesa anche al reato che, in mancanza della connessione, sarebbe stato di competenza del giudice di pace.

Oltre a ciò, si faceva presente come vi fosse, interna alla disciplina della procedibilità dell’azione penale per i reati di competenza del giudice di pace, anche una deroga alla regola dell’improcedibilità ai sensi dell’art 34 del d. lgs. n. 274 del 2000, vale a dire quella che deriva dall’opposizione della persona offesa dopo l’esercizio dell’azione penale, prevista dal comma 3 di tale disposizione, atteso che, in tal caso, l’opposizione ha l’effetto di precludere al giudice – dopo che l’azione penale sia già stata esercitata non essendo stata ritenuta, nella fase delle indagini preliminari, la particolare tenuità del fatto – la possibilità di rilevare successivamente, in giudizio, tale presupposto; si è parlato di “facoltà inibitoria” o di “potere di veto” della persona offesa al recupero in giudizio della possibilità per il giudice di valutare la particolare tenuità del fatto per dichiarare improcedibile l’azione penale già esercitata.

A tal proposito si evidenziava come la Consulta (ordinanza n. 63 del 2007) avesse già rilevato che l’art. 34, comma 3, del d.lgs. n. 274 del 2000 prevede, nella fase successiva all’esercizio dell’azione penale, non già una condizione positiva (il «consenso»), ma una condizione negativa (la non opposizione: «se l’imputato e la persona offesa non si oppongono») mentre successivamente le Sezioni unite (Cass., sez. un. pen., n. 43264 del 2015), componendo un contrasto di giurisprudenza, avevano precisato, in termini restrittivi, la portata dell’opposizione della persona offesa che paralizza l’operatività dello speciale regime dell’art. 34 del d.lgs. n. 274 del 2000 affermando che la «volontà di opposizione deve essere necessariamente espressa, non potendosi desumere da atti o comportamenti che non abbiano il carattere di una formale ed inequivoca manifestazione di volontà» nonchè puntualizzato che l’opposizione è atto personale della persona offesa e va dichiarata in udienza sicché la mancata partecipazione al dibattimento della persona offesa (regolarmente citata o irreperibile) non è ostativa della facoltà del giudice di valutare la sussistenza dei presupposti previsti dall’art. 34, comma 1 fermo restando che è, però, sufficiente la richiesta di risarcimento del danno della persona offesa costituitasi parte civile, così come nella specie si è verificato nel giudizio a quo, secondo la narrazione del giudice rimettente.

Tal che se ne faceva discendere che, in tale evenienza, in cui risulti ritualmente proposta l’opposizione della persona offesa dopo l’esercizio dell’azione penale, si ha che, da una parte, continua comunque a non applicarsi la causa di non punibilità di cui all’art. 131-bis cod. pen. perché in generale tale disposizione non riguarda i reati di competenza del giudice di pace, dall’altra, neppure la causa di non procedibilità di cui all’art. 34 del d.lgs. n. 274 del 2000 trova applicazione né potrebbe ritenersi – allo stato attuale della giurisprudenza – che si riespanda il regime comune dell’art. 131-bis cod. pen. giacché la più volte richiamata pronuncia delle sezioni unite (Cass., sez. un. pen., n. 53683 del 2017) predica ciò solo con riferimento all’ipotesi della connessione con altro reato di competenza del tribunale fermo restando che questa facoltà di opposizione, però, costituisce una deroga che appartiene alla regolamentazione dell’improcedibilità dell’azione penale in caso di reati di competenza del giudice di pace per fatti di particolare tenuità, deroga collegata alla speciale tutela riconosciuta alla persona offesa, di cui è espressione, in parallelo, la (parimenti derogatoria) facoltà di quest’ultima di proporre ricorso immediato al giudice per i reati perseguibili a querela (art. 21 del d.lgs. n. 274 del 2000).

La Corte costituzionale, di conseguenza, alla luce delle considerazioni sin qui esposte, giungeva alla conclusione secondo la quale non viola i principi di eguaglianza e di ragionevolezza la non applicabilità, ritenuta dalla giurisprudenza, della causa di non punibilità per la particolare tenuità dell’offesa di cui all’art. 131-bis cod. pen. in caso di reati competenza del giudice di pace, per i quali opera invece la causa di improcedibilità dell’azione penale per la particolare tenuità del fatto di cui all’art. 34 del d.lgs. n. 274 del 2000.

Conclusioni

La sentenza in commento non convince non tanto sulla pretesa legittimità costituzionale circa l’inapplicabilità dell’art. 131 bis c.p. in caso di reati competenza del giudice di pace, quanto piuttosto l’argomentazione, recepita, seppur non espressamente, non essendo l’interpretazione della legge di competenza della Consulta se non nella misura in cui si debba verificare la sua conformità alla Costituzione, secondo cui la particolare tenuità del fatto non è applicabile per questa tipologia di reati.

Il richiamo, seppur indiretto, perché si è citato un arresto giurisprudenziale (e quindi una pronuncia delle Sezioni Unite) senza argomentare autonomamente in proposito, all’art. 16 del c.p. per giustificare l’inapplicabilità dell’art. 131-bis cod. pen. ai reati di competenza del giudice di pace, si appalesa, difatti, ad avviso dello scrivente, del tutto erroneo in quanto, dal momento che la stessa Corte costituzionale, con la sentenza n. 25 del 2015, ha postulato che la particolare tenuità del fatto prevista dall’art. 34 del d.lgs. n. 274/2000 è una causa di non procedibilità, non si ritiene pertinente il richiamo all’art. 16 del c.p. nel caso di specie.

Come è noto, l’art. 16 c.p. prevede che le “disposizioni di questo codice si applicano anche alle materie regolate da altre leggi penali, in quanto non sia da queste stabilito altrimenti” e di conseguenza, alla luce del chiaro tenore letterale di questa disposizione legislativa, ciò che sembra difettare nella fattispecie in esame sono proprio le “altre leggi penali” visto che la normativa prevista dal decreto legislativo n. 274 del 2000, come appena visto, è di ordine procedurale e non sostanziale.

Del resto, non si potrebbe ovviare a tale profilo di criticità nemmeno sostenendo un’applicazione analogica di questa norma codicistica, vale a dire includendo nella locuzione “leggi penali” anche le “leggi processuali”, non essendo applicabile analogicamente l’art. 16 c.p. in quanto: a) tale precetto normativo è una norma penale; b) la sua applicazione analogica sarebbe a sfavore dell’imputato, e non certo a suo favore.

Del resto, come giustamente rilevato in sede scientifica (M. Gambardella, Chi ha paura dell’art. 131-bis c.p.? Sull’applicabilità della nuova causa di non punibilità ai reati di competenza del giudice di pace, in Arch. pen. 2017, n. 2), il fatto che “non si configura una relazione di genere e specie tra l’art. 131-bis c.p. e l’art. 34 d.lgs. n. 274 del 2000, lo ha già detto chiaramente e autorevolmente la Corte costituzionale per ben due volte (sent. n. 25 del 2015, ord. n. 46 del 2017): si tratta di “disposizioni sensibilmente diverse”, la causa di non punibilità del codice penale è “strutturata diversamente” rispetto alla causa di non procedibilità del procedimento penale innanzi al giudice di pace” e da qui, appare difficile comprendere la decisione in commento che sembra rappresentare una inversione di rotta rispetto a quanto statuito in queste precedenti pronunce considerato, ad avviso dello scrivente, invece, sussistente un rapporto di specialità tra siffatti precetti normativi.

Inoltre, la decisione di escludere l’applicabilità di questa causa di non punibilità ai procedimenti innanzi al giudice di pace, a questo punto non più censurabile in sede giudiziale, essendo stato tale criterio ermeneutico fatto proprio sia dalla Consulta che dalla Cassazione, si configura difficilmente comprensibile in quanto, essendo detta causa riferibile a reati con una pena edittale relativamente limitata in cui potevano essere di conseguenza inclusi anche quelli di competenza del giudice di pace, così facendo, viceversa, si è venuta a determinare una limitazione della portata attuativa dell’art. 131 bis c.p. in assenza di una legge che disponga in tal senso.

In altri termini, si è venuta a verificare, per interpretazione giurisprudenziale, una sorta di abrogazione parziale dell’art. 131 bis c.p. senza che sia intervenuto un atto normativo che abbia sancito espressamente ciò.

Sarebbe quindi forse opportuno che il legislatore intervenisse al fine di stabilire, per l’appunto ex lege, che l’art. 131 bis c.p. non si applica per i reati di competenza del giudice di pace.

Si darebbe difatti, operando in tal guisa, una certezza normativa rispetto ad una interpretazione giurisprudenziale, ormai consolidata, ma però sfornita di un adeguato e sopratutto esplicito fondamento normativo.

 

 

Avv. Di Tullio D’Elisiis Antonio

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