La Cassazione penale interviene in merito ai comportamenti del debitore fallito ostativi alla concessione del beneficio dell’esdebitazione

Redazione 26/05/11
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Con la sentenza del 23 maggio 2010, la V sezione penale della Suprema Corte ha confermato alcuni principi già precedentemente espressi dalla giurisprudenza in materia di fallimento. In particolare, si afferma che la presentazione di azioni giudiziali destituite di fondamento e pretestuose, introdotte dal debitore fallito al solo scopo di ritardare, o comunque contribuire a ritardare lo svolgimento della procedura fallimentare, costituisce motivo ostativo alla concessione del beneficio dell’esdebitazione. Inoltre, secondo l’indicata sentenza, l’ammissione al detto beneficio va negata all’imprenditore che, consapevole dell’irreversibilità della crisi dell’impresa, compia atti di disposizione del proprio patrimonio ostacolando lo svolgimento della procedura.

Nella fattispecie sottoposta all’esame della Suprema Corte, due imprenditori (marito e moglie) avevano concesso in affitto al figlio, per un canone inadeguato, azienda e immobili di proprietà, prima del fallimento, ma quando era già sussistente la crisi d’impresa. Intervenuto il fallimento, l’affittuario, alla scadenza, si era rifiutato di provvedere alla riconsegna dei beni, costringendo il curatore ad avviare una procedura esecutiva per il rilascio degli immobili e ritardandone la vendita. Peraltro, avverso il decreto di trasferimento degli immobili, i soci avevano presentato reclamo, instaurando una controversia conclusasi con decreto di inammissibilità del ricorso dei falliti da parte della Cassazione.

In argomento, occorre ricordare che l’istituto dell’esdebitazione (artt. 142-145 l.f.) consiste nella liberazione del debitore, persona fisica, dai debiti residui nei con­fronti dei creditori concorsuali non soddisfatti integralmente, seppur in presenza di alcune condizioni. L’obiettivo è quello di recuperare l’attività economica del fallito per permettergli un nuovo inizio, una volta azzerate tutte le posizioni debitorie. La legge prevede che il fallito è ammesso all’esdebitazione qualora sussistano determinate condizioni (cd. di meritevolezza); in particolare, tra le condizioni previste dall’art. 142, co. 1, n. 2), del R.D. 267/1942 (nella nuova formulazione introdotta dal D.Lgs. 5/2006), vi è quella che il fallito «non abbia in alcun modo ritardato o contribuito a ritardare lo svolgimento della procedura».

Secondo la Cassazione in oggetto, il termine «ritardare» deve intendersi quale sinonimo di «ostacolare» e, come tale, facente riferimento ad un comportamento da ritenersi antigiuridico perché in contrasto con il fondamentale principio di ragionevole durata del processo (art. 6 Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e art. 111, co. 2, Cost.). Inoltre, la generica espressione «in alcun modo» utilizzata dal legislatore vale ad includere tutte quelle azioni o quei comportamenti che abbiano determinato un ritardo o abbiano comunque contribuito a ritardare, in modo irragionevole, lo svolgimento della procedura. In tal senso, nell’ambito di applicazione della normativa richiamata devono essere incluse anche eventuali azioni giudiziali proposte dal debitore fallito e rivelatesi destituite di fondamento e pretestuose, le quali siano state proposte «all’unico scopo di ritardare o, comunque, contribuire a ritardare lo svolgimento della procedura fallimentare». Ciò che è avvenuto nel caso di specie con la proposizione del reclamo avverso il decreto di trasferimento degli immobili acquisiti al fallimento, che ha determinato l’instaurazione di un procedimento conclusosi con la dichiarazione di inammissibilità del ricorso dei falliti da parte della Corte di Cassazione.

Aggiunge ancora la Corte come tra i comportamenti «antigiuridici» di cui all’art. 142 L.F. debbano essere ragionevolmente inclusi anche gli atti di disposizione del proprio patrimonio posti in essere dall’imprenditore nella consapevolezza della crisi dell’impresa ormai irreversibile. Questi, infatti, da tale momento ha il dovere di astenersi dal compiere tutti quegli atti che possono in qualche modo compromettere la liquidazione dei beni dell’impresa, ormai destinati al soddisfacimento dei creditori nel rispetto della parità di trattamento.

Nel caso di cui alla sentenza in commento, i due ricorrenti, pur consci della irreversibile crisi della propria impresa, hanno omesso di richiedere il fallimento compiendo atti di disposizione del proprio patrimonio, così rendendo necessarie azioni recuperatorie da parte della curatela in seguito al rifiuto da parte del beneficiario di provvedere, una volta intervenuta la dichiarazione di fallimento, alla riconsegna dei beni alla prevista scadenza contrattuale. In questo senso, il comportamento dei ricorrenti precedente al fallimento ha contribuito, secondo la Corte, ha determinare un ritardo nella definizione della procedura concorsuale, avendo reso più difficoltosa la vendita dei beni affittati da parte del curatore. Siffatto comportamento, pertanto, deve ritenersi condizione ostativa alla concessione del beneficio della esdebitazione. (Anna Costagliola)

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