(Riferimento normativo: Cod. pen., art. 290)
Il fatto
La Corte militare di appello di Roma confermava la sentenza del 25.10.2017, con la quale il Tribunale militare di Napoli aveva dichiarato C.C.P. colpevole del reato di vilipendio della Repubblica, aggravato ai sensi dell’art. 81 c.p. e art. 47 c.p.m.p., comma 1, n. 2, e lo aveva condannato alla pena di anni uno e mesi quattro di reclusione militare.
I motivi addotti nel ricorso per Cassazione
I difensori dell’imputato proponevano ricorso per cassazione, adducendo i seguenti motivi: I)
violazione e falsa applicazione della legge penale, inosservanza di norme stabilite a pena di inutilizzabilità, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione con riguardo alla ritenuta sussistenza del delitto mancano sia l’elemento materiale, sia di quello psicologico del reato, previsto dall’art. 81 c.p.m.p.: quanto al primo elemento, nel ricorso si rilevava errata l’interpretazione dell’art. 530 c.p.p. non essendo stata raggiunta la prova della paternità della frase incriminata ed errata qualificazione del fatto quale vilipendio nonchè sussistenza, nel comportamento, del requisito della continenza e mancanza del requisito della pubblicità del commento incriminato, data la mancanza di certezza circa la visione della frase da parte di terzi; quanto al secondo aspetto, nel ricorso si rilevava la carenza dell’elemento psicologico del reato contestato, che richiedeva la precisa volontà di vilipendio alla Repubblica: La frase incriminata rispettava il requisito della continenza in quanto vi era un chiaro riferimento alla vicenda dei marò italiani e alla connessione di essa con i rapporti economici tra l’India e un’azienda italiana; II) violazione, inosservanza, erronea applicazione della legge penale con particolare riguardo agli artt. 181 e 191 c.p.p. e all’art. 54 c.p. non stimandosi condivisibile l’affermazione della Corte di merito secondo la quale l’imputato avrebbe vilipeso la Repubblica dal momento che l’asserto del giudice di appello sarebbe dipeso dalla mancanza di un accertamento tecnico/strumentale volto proprio all’accertamento della paternità della frase; III)
violazione di legge in relazione all’art. 51 c.p. in quanto l’imputato non sarebbe stato in grado di esercitare il proprio diritto di difesa perchè non era stata svolta alcuna verifica per accertare la paternità della frase incriminata.
Le valutazioni giuridiche formulate dalla Cassazione
Il primo motivo di ricorso era ritenuto manifestamente infondato.
Si osservava a tal proposito che il reato di vilipendio della Repubblica, delle istituzioni costituzionali e delle forze armate consiste nel disprezzare, tenere a vile, ricusare qualsiasi valore etico, sociale o politico alle istituzioni predette, considerate nella loro entità astratta ovvero concreta, ossia nella loro essenza ideale oppure quali enti concretamente operanti (Sez. 1, n. 1427 del 17/10/1977 – dep. 07/02/1978, omissis, Rv. 137859) mentre l’elemento soggettivo del delitto di vilipendio della Repubblica, delle istituzioni costituzionali e delle forze armate consiste nel dolo generico, con conseguente irrilevanza dei motivi particolari che possano aver indotto l’autore a commettere consapevolmente il fatto vilipendioso addebitato (Sez. 1, n. 6144 del 07/03/1979 – dep. 06/07/1979, omissis, Rv. 142461) fermo restando come fosse stato chiarito, inoltre, che il diritto di esprimere liberamente il proprio pensiero (art. 21 Cost.) e, correlativamente, quello di associarsi liberamente in partiti politici (art. 49 Cost.) per manifestare determinate ideologie, al fine di concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale, trovano un limite non superabile nella esigenza di tutela del decoro e del prestigio delle istituzioni, per cui l’uso di espressioni di offesa, disprezzo, contumelia costituisce vilipendio punibile ex art. 290 c.p. (Sez. 1, n. 14226 del 29/06/1977 – dep. 11/11/1977, omissis, Rv. 137274).
Oltre a ciò, veniva fatto presente che il diritto di critica e la libera manifestazione del pensiero supera il suo limite giuridico costituito dal rispetto del prestigio delle istituzioni repubblicane e decampa, quindi, nell’abuso del diritto, cioè nel fatto reato costituente il delitto di vilipendio, allorchè la critica trascenda nel gratuito oltraggio, fine a se stesso (Sez. 1, n. 5864 del 01/02/1978 – dep. 19/05/1978, omissis, Rv. 139007) tenuto conto altresì del fatto che, in riferimento al requisito di pubblicità del messaggio, la giurisprudenza della Corte di legittimità era ormai costante nel ritenere che la diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso l’uso di una bacheca Facebook integra un’ipotesi di diffamazione aggravata ai sensi dell’art. 595 c.p., comma 3, poichè trattasi di condotta potenzialmente capace di raggiungere un numero indeterminato o comunque quantitativamente apprezzabile di persone (Sez. 1, n. 24431 del 24/04/2015 – dep. 08/06/2015, Rv. 264007).
Ciò posto, i giudici di legittimità ordinaria stimavano come i giudici di merito avessero tenuto conto di siffatti principi di diritto qualificando correttamente il fatto giudicato e ravvisando il dolo, e ciò stante il fatto che la Corte militare di appello aveva spiegato che nelle espressioni rese dal C. con riguardo a una vicenda politica non fosse ravvisabile il carattere di continenza così come era altrettanto priva di pregio la doglianza sollevata dalla difesa secondo la quale l’utilizzo, nell’espressione incriminata, della parola Stato, avrebbe dovuto determinare una diversa qualificazione giuridica del fatto, riferibile al vilipendio alla Nazione italiana ai sensi dell’art. 82 c.p.m.p. mentre, in realtà, ad avviso della Corte, il commento dell’imputato riguardava un articolo sui rapporti commerciali tra l’Italia e l’India, quindi non poteva essere riferito alla Nazione, ossia alla comunità di individui, ma allo Stato, cioè al soggetto inquadrabile e riconoscibile proprio in quegli organi indicati dalla lettera dell’art. 81 c.p.m.p., quali, ad esempio, il Governo e le Assemblee legislative.
Si osservava per di più come il giudice di appello, nel rispetto del principio sopra richiamato circa la pubblicità dei messaggi, e senza incorrere in vizi logici, avesse correttamente evidenziato che non rilevava il numero di visualizzazioni o interazioni che il post pubblicato dal C. su Facebook aveva effettivamente avuto in quanto è sufficiente la mera diffusione del messaggio sul social network affinchè si possa ritenere sussistente il requisito della pubblicità.
Anche Il secondo motivo di ricorso veniva stimato manifestamente infondato stante il fatto che,
in ordine al rilievo con il quale il ricorrente aveva lamentato la mancanza di un accertamento della paternità della frase incriminata, si reputava opportuno precisare che, in tema di valutazione della prova indiziaria, il giudice di merito non può limitarsi ad una valutazione atomistica e parcellizzata degli indizi, nè procedere ad una mera sommatoria di questi ultimi, ma deve, preliminarmente, valutare i singoli elementi indiziari per verificarne la certezza (nel senso che deve trattarsi di fatti realmente esistenti e non solo verosimili o supposti) nonchè l’intrinseca valenza dimostrativa (di norma solo possibilistica); successivamente, deve procedere a un esame globale degli elementi certi, per verificare se la relativa ambiguità di ciascuno di essi, isolatamente considerato, possa in una visione unitaria risolversi, consentendo di attribuire il reato all’imputato al di là di ogni ragionevole dubbio, cioè con un alto grado di credibilità razionale, sussistente anche qualora le ipotesi alternative, pur astrattamente formulabili, siano prive di qualsiasi concreto riscontro nelle risultanze processuali ed estranee all’ordine naturale delle cose e della normale razionalità umana (Sez. 1, n. 1790 del 30/11/2017 – dep. 16/01/2018, omissis, Rv. 272056; Sez. 1, n. 20461 del 12/04/2016 – dep. 17/05/2016, omissis, Rv. 266941).
Orbene, gli ermellini ritenevano come i giudici di merito avesse fatto un buon governo di tale principio di diritto.
Veniva altresì dichiarato manifestamente infondato anche il terzo motivo di ricorso, volto a censurare la decisione del giudice di merito per presunta violazione del diritto di difesa che sarebbe derivata dal mancato accertamento della paternità della frase incriminata, posto che, ad avviso della Corte, il giudice del merito aveva operato correttamente nell’accertare gli elementi di fatto rilevanti per la decisione e, soprattutto, nell’applicare i principi sulla valutazione degli elementi indiziari a disposizione.
Il Supremo Consesso, di conseguenza, alla luce delle considerazioni sin qui esposto, dichiarava il ricorso proposto inammissibile e condannava il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Conclusioni
La sentenza in questione è assai interessante nella parte in cui chiarisce come e in che termini sia configurabile il reato di cui all’art. 290 c.p..
Il Supremo Consesso, difatti, in questa decisione, ha precisato la portata applicativa di questa norma incriminatrice postulando, da un lato, che il reato di vilipendio della Repubblica, delle istituzioni costituzionali e delle forze armate consiste nel disprezzare, tenere a vile, ricusare qualsiasi valore etico, sociale o politico alle istituzioni predette, considerate nella loro entità astratta ovvero concreta, ossia nella loro essenza ideale oppure quali enti concretamente operanti, dall’altro, che l’elemento soggettivo del delitto di vilipendio della Repubblica, delle istituzioni costituzionali e delle forze armate consiste nel dolo generico, con conseguente irrilevanza dei motivi particolari che possano aver indotto l’autore a commettere consapevolmente il fatto vilipendioso addebitato fermo restando che la libertà di manifestazione del pensiero, e dunque il diritto di critica, trova un limite non superabile nella esigenza di tutela del decoro e del prestigio delle istituzioni.
Il giudizio in ordine a quanto statuito in tale decisione, proprio per questa funzione chiarificatrice, non può che essere positivo.
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