Interdittiva antimafia: esiste un giudice a Berlino?  

Nota a ordinanza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Calabria – Sezione staccata di Reggio Calabria n. 85/2020

Il caso

Il TAR Calabria – Reggio Calabria si è recentemente occupato di un caso relativo alla sottoposizione di un imprenditore ad informazione antimafia a contenuto interdittivo, ai sensi dell’art. 91 D.lgs 159/2011, emessa a seguito della richiesta di SCIA per l’avvio di attività di panificazione.

In particolare, la Prefettura di Reggio Calabria, nel provvedimento impugnato, rileva in capo al titolare della ditta individuale:

– il rapporto di coniugio con soggetto sottoposto a giudizio per associazione di tipo mafioso;

– rapporti di parentela/affinità con soggetti, alcuni anche defunti, gravati da procedimenti per fatti di mafia;

– l’inserimento dell’attività in un territorio nel quale opererebbe la cosca mafiosa della quale sarebbero intranei i congiunti del ricorrente.

Al fine di meglio inquadrare la situazione fattuale nella quale si inserisce il provvedimento, si precisa che il titolare della ditta individuale non è gravato da procedimenti penali e che l’informazione antimafia giunge a distanza di 7 anni dall’inizio dell’attività, per fatti in larga parte preesistenti al momento dell’inizio dell’attività d’impresa.

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Inquadramento normativo

A termini dell’art. 84 del Codice Antimafia “…L’informazione antimafia consiste nell’attestazione della sussistenza o meno di una delle cause di decadenza, di sospensione o di divieto di cui all’articolo 67, nonché, fatto salvo quanto previsto dall’articolo 91, comma 6, nell’attestazione della sussistenza o meno di eventuali tentativi di infiltrazione mafiosa tendenti a condizionare le scelte e gli indirizzi delle società o imprese interessate indicati nel comma 4…”.

Le cause di decadenza, sospensione o divieto di cui all’art. 67 del Codice, consistono sostanzialmente, nell’inibire qualsivoglia attività (di natura imprenditoriale e non) in favore di privati e pubbliche amministrazioni, in particolare:

a) licenze o autorizzazioni di polizia e di commercio;

b) concessioni di acque pubbliche e diritti ad esse inerenti nonché concessioni di beni demaniali allorché siano richieste per l’esercizio di attività imprenditoriali;

c) concessioni di costruzione e gestione di opere riguardanti la pubblica amministrazione e concessioni di servizi pubblici;

d) iscrizioni negli elenchi di appaltatori o di fornitori di opere, beni e servizi riguardanti la pubblica amministrazione, nei registri della camera di commercio per l’esercizio del commercio all’ingrosso e nei registri di commissionari astatori presso i mercati annonari all’ingrosso;

e) attestazioni di qualificazione per eseguire lavori pubblici;

f) altre iscrizioni o provvedimenti a contenuto autorizzatorio, concessorio, o abilitativo per lo svolgimento di attività imprenditoriali, comunque denominati;

g) contributi, finanziamenti o mutui agevolati ed altre erogazioni dello stesso tipo, comunque denominate, concessi o erogati da parte dello Stato, di altri enti pubblici o delle Comunità europee, per lo svolgimento di attività imprenditoriali;

h) licenze per detenzione e porto d’armi, fabbricazione, deposito, vendita e trasporto di materie esplodenti.

In via giurisprudenziale (tra tutte, Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria, 06/04/2018 n° 3), onde rendere “omnicomprensivo” il divieto rispetto quanto non espressamente indicato nell’elencazione di cui sopra, si è stabilito che “il provvedimento di cd. “interdittiva antimafia” determina una particolare forma di incapacità ex lege”.

Contrariamente a quanto prima facie si possa pensare, le “limitazioni e i divieti” non riguardano soltanto i rapporti con la Pubblica Amministrazione ma tutti quelli che afferiscano l’esercizio di qualsivoglia impresa.

Lo strumento in questione, per quanto possa essere efficace per il contrasto del fenomeno mafioso, presenta dei profili di compatibilità costituzionale e comunitaria di indubbia valenza.

E’ noto che il provvedimento a contenuto interdittivo non debba necessariamente trovare come “presupposto”  l’esistenza di un procedimento penale ma vi sono dei casi (c.d. situazioni indizianti) non tipizzati dal legislatore ove l’informazione antimafia trova applicazione – per consolidata giurisprudenza amministrativa – secondo la regola causale del “più probabile che non” stante la “norma in bianco” che disciplina la fattispecie in questione.

Il d.P.R n. 252 del 1998 aveva provveduto ad una prima tipizzazione delle c.d. situazioni indizianti circa il rischio di infiltrazione mafiosa nell’attività imprenditoriale, in questo stesso solco si è mosso il codice antimafia che, in chiave di un’elencazione più precisa, ma anche più ampia, dedica all’argomento due disposizioni.

L’art. 84, c. 4, indica, in primo luogo, una serie di atti provenienti da procedimenti penali (ordinanze cautelari o sentenze di condanna) per reati ritenuti tipici dell’organizzazione mafiosa (turbata libertà degli incanti, estorsione, riciclaggio, truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche, usura, riciclaggio, reimpiego e tutti i reati previsti dal c. 3- bis dell’art. 51 c.p.p) o provenienti da procedimenti per l’applicazione delle misure di prevenzione (proposte e provvedimenti applicativi); si tratta di materiale documentale che, per essere formato in ambito processuale, potrebbe fornire notizie molto utili per le verifiche prefettizie.

Il medesimo capoverso, nell’ottica di valorizzare l’attività informativa svolta di iniziativa dall’ufficio territoriale del Ministero dell’Interno, riconosce valore identico agli esiti degli accertamenti disposti dal Prefetto, anche avvalendosi dei poteri di accesso.

Rispetto alle previsioni del d.P.R 252/98, assurgono poi al rango di elementi indizianti due nuove circostanze. In particolare:

– l’omessa denuncia all’autorità giudiziaria dei reati di concussione ed estorsione, aggravati ex art. 7 d.l. n. 152/91, conv. in l. n. 203/91 sempre che non ricorra l’esimente dell’ art. 4 della l. n. 689/81 e cioè lo stato di necessità; il legislatore prende atto di come il comportamento omissivo, soprattutto in assenza di valida giustificazione, possa essere un segnale di soggiacenza connivente alle organizzazioni mafiose;

– le sostituzioni negli organi sociali, nella rappresentanza legale della società o nella titolarità delle imprese individuali ovvero delle quote societarie effettuate da chiunque conviva stabilmente con i soggetti destinatari dei provvedimenti giudiziari o di prevenzione con modalità che denotino l’intento di eludere la normativa sulla documentazione antimafia.

L’art. 91, c. 6 – considerato una sorta di norma di chiusura che introduce elementi a valenza indiziante più attenuata  – consente al Prefetto di poter desumere il tentativo di infiltrazione mafiosa da provvedimenti di condanna anche non definitiva per reati strumentali (non precisamente indicati) all’attività delle organizzazioni criminali, unitamente a concreti elementi da cui risulti che l’attività d’impresa possa, anche in modo indiretto, agevolare le attività criminose o esserne in qualche modo condizionata.

Con il Decreto legislativo 15 novembre 2012, n. 218 si interviene su entrambe le disposizioni.

Con l’art. 2, c. 1, lett. a), viene aggiunto un comma 4- bis all’art. 84 c.a.; si precisa, in particolare, la fonte da cui poter individuare la situazione indiziante costituita dall’omessa denuncia di reati; essa dovrà emergere dalle richieste di rinvio a giudizio, formulate dal Procuratore della Repubblica. In tal modo si impone un vero e proprio dovere di comunicazione al Procuratore della Repubblica di rendere noto alle prefetture l’esistenza di omissioni di denunce di vicende estorsive, in una prospettiva di facilitare il lavoro prefettizio.

Con l’art. 4, invece, si aggiunge all’art. 91, c. 6 c.a., un ulteriore dato da cui poter trarre elementi di valutazione; il Prefetto potrà prendere in considerazione anche le violazioni, se reiterate, degli obblighi di tracciabilità dei flussi finanziari.

L’obbligo di tracciabilità è stato introdotto dalla L. n. 136/2010 per assicurare trasparenza delle transazioni discendenti da contratti o subcontratti pubblici, imponendo l’utilizzo di conti correnti dedicati, accesi presso banche o poste italiane, e ciò per consentire di verificare tutti i movimenti del denaro proveniente dall’appalto in modo da evitare interferenze illecite della criminalità.

Una violazione reiterata di tale dovere di trasparenza, potendo essere la prova della volontà dell’imprenditore di nascondere la destinazione del denaro proveniente dall’appalto, è un segnale di sospetto che è giusto possa essere valorizzato in funzione dell’informativa antimafia.

La giurisprudenza, in ultimo la Corte Costituzionale con la sentenza n. 57/2020, ha individuato delle “situazioni indizianti” che l’autorità prefettizia deve valutare per determinare la sussistenza del rischio che l’attività di impresa possa essere oggetto di infiltrazione mafiosa, in modo concreto ed attuale. Tra queste: i provvedimenti “sfavorevoli” del giudice penale; le sentenze di proscioglimento o di assoluzione, da cui pure emergano valutazioni del giudice competente su fatti che, pur non superando la soglia della punibilità penale, sono però sintomatici della contaminazione mafiosa; la proposta o il provvedimento di applicazione di taluna delle misure di prevenzione previste dallo stesso d.lgs. n. 159 del 2011; i rapporti di parentela, laddove assumano una intensità tale da far ritenere una conduzione familiare e una “regia collettiva” dell’impresa, nel quadro di usuali metodi mafiosi fondati sulla regia “clanica”; i contatti o i rapporti di frequentazione, conoscenza, colleganza, amicizia; le vicende anomale nella formale struttura dell’impresa e nella sua gestione, incluse le situazioni in cui la società compie attività di strumentale pubblico sostegno a iniziative, campagne antimafia, antiusura, antiriciclaggio, allo scopo di mostrare un “volto di legalità” idoneo a stornare sospetti o elementi sostanziosi sintomatici della contaminazione mafiosa; la condivisione di un sistema di illegalità, volto ad ottenere i relativi “benefici”; l’inserimento in un contesto di illegalità o di abusivismo, in assenza di iniziative volte al ripristino della legalità.

Si tratta di una elencazione a titolo esemplificativo, elaborata sulla base di precedenti giurisprudenziali, tenuto conto che non sussiste una indicazione legislativa in tal senso e la cui valutazione, come detto, è rimessa alla discrezionalità tecnica del Prefetto.

Non costituiscono oggetto del presente commento la razionalità e compatibilità a Costituzione dell’elencazione di cui sopra.

 

Le censure e la pronuncia cautelare

Tenuto conto della gravità delle “conseguenze” derivanti dall’irrogazione del provvedimento a contenuto interdittivo e della disparità di trattamento “sanzionatorio” in peius rispetto ad altre “ben più gravi” fattispecie afferenti le misure di prevenzione antimafia, oltre ai vizi di legittimità propri dell’atto gravato, nel ricorso che ha originato l’ordinanza cautelare in commento, si è puntata l’attenzione sul possibile contrasto della normativa in parola

  • con gli artt. 2, 3, 13, 24, 27, 41 e 111 della Costituzione
  • con gli artt. 5 e 6 CEDU
  • con l’art. 1 Protocollo addizionale alla Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali
  • con gli artt. 15, 16, 17, 41 e 47 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea del 7 dicembre 2000.

Nel ricorso sono stati, infatti, evidenziati plurimi profili di violazione della suddetta normativa costituzionale, CEDU e della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea diversi ed ulteriori rispetto a quelli che hanno dato origine alle sentenze nn. 4/2018 e 57/2020 della Consulta nonché all’ordinanza di rimessione alla Corte di Giustizia (per la mancanza della fase del contraddittorio prima dell’emissione dell’informativa antimafia interdittiva) del TAR Bari, sez. III, 13 gennaio 2020, n. 28. Anzi, i suddetti provvedimenti non possono far altro che confermare la bontà delle censure dedotte tenuto conto che nell’ultima pronuncia della Consulta in ordine di tempo (n. 57/2020) risulta incidentalmente contenuto un monito al legislatore “merita indubbiamente una rimeditazione da parte del legislatore” in relazione al profilo attinente “l’esclusione da parte del giudice delle decadenze e dei divieti previsti, nel caso in cui per effetto degli stessi verrebbero a mancare i mezzi di sostentamento all’interessato e alla famiglia” che è stato oggetto di puntuale censura nel procedimento che ha dato origine all’ordinanza del TAR Calabria – Reggio Calabria qui commentata.

Il TAR reggino ha così motivato l’accoglimento della domanda cautelare avanzata “… Ritenuto di dover rinviare alla più idonea sede di merito lo scrutinio dei dedotti, plurimi, profili di illegittimità costituzionale e non conformità alla normativa EDU di alcune disposizioni del Codice antimafia, tra cui gli artt. 67, 89 bis e 94 …”

Tale profilo di compatibilità della norma interna alla CEDU e a Costituzione, peraltro, è stato oggetto di contestazione in plurimi ricorsi, tutti ancora da decidere nel merito (anche se recano data di iscrizione a ruolo risalente nel tempo), ma a cagione della mancata rimessione alla Consulta/Corte di Giustizia non ha ancora visto una statuizione nel senso auspicato.

Si confida in un coraggioso intervento del Giudice Amministrativo in sede di merito, che porti al vaglio della Corte Costituzionale e/o della Corte di Giustizia l’impianto normativo, approvato in un momento storico di piena emergenza, ma che expressis verbis la Consulta ritiene “da rimeditare”.

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