Integra il delitto di furto l’appropriarsi di assegni o carte di credito smarriti

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Nel caso di appropriazione di cose che, come gli assegni o le carte di credito, conservino chiari ed intatti i segni esteriori di un legittimo possesso altrui, il venir meno della relazione materiale fra la cosa ed il suo titolare non implica la cessazione del potere di fatto di quest’ultimo sul bene smarrito, con la conseguenza che colui che se ne appropria senza provvedere alla sua restituzione commette il reato di furto e non quello di appropriazione di cose smarrite.

(Dichiarato inammissibile il ricorso)

Orientamento maggioritario confermato.

(Normativa di riferimento: C.p art. 624)

Il fatto

La Corte di appello di Brescia, con sentenza in data 10/04/2017, parzialmente riformando la sentenza pronunciata dal Tribunale di Bergamo in data 27/6/2016, riduceva ad anni due di reclusione ed euro 600 di multa la pena irrogata in primo grado a P. A. e confermava la condanna in relazione al reato di cui all’art. 648 cod. pen.

I motivi addotti nel ricorso per Cassazione

Avverso questa decisione proponeva ricorso per cassazione l’imputato a mezzo del difensore deducendo i seguenti motivi: a) con il primo motivo si lamentava la violazione di legge quanto alla “falsa applicazione dell’art. 648 cp in relazione alla mancata determinazione del reato presupposto” ritenendosi come la Corte d’Appello, in assenza di prove che l’assegno fosse pervenuto al P. a seguito della consumazione di un delitto, non avesse assolto il ricorrente; b) con il secondo motivo deducevano la violazione di legge anche quanto alla “falsa applicazione dell’art. 648 c.p., comma II” atteso che, considerato che la presunta persona offesa non avrebbe subito alcuna diminuzione patrimoniale, i secondi Giudici avrebbero dovuto “applicare l’ipotesi attenuata del reato e rilevare l’intervenuta estinzione dello stesso per decorso del tempo”; c) con il terzo motivo si dolevano di una motivazione stimata “illogica e contraddittoria circa il danno procurato” poiché la M., diversamente da quanto ritenuto dalla Corte, una volta saputo che l’assegno non avrebbe potuto essere negoziato poiché c’era una denuncia di smarrimento, avrebbe restituito alla Banca la somma originariamente prelevata e quindi questa circostanza avrebbe dovuto escludere la sussistenza di danni patrimoniali.

Le valutazioni giuridiche formulate dalla Corte di Cassazione

La Cassazione considerava inammissibile il ricorso proposto per le seguenti ragioni.

Si osservava prima di tutto che le generiche doglianze dedotte quanto alla “falsa applicazione dell’art. 648 c.p. in relazione alla mancata determinazione del reato presupposto” erano manifestamente infondate atteso che la pacifica giurisprudenza di legittimità sul punto evidenziava come nel caso di appropriazione di “cose che, come gli assegni o le carte di credito, conservino chiari ed intatti i segni esteriori di un legittimo possesso altrui, il venir meno della relazione materiale fra la cosa ed il suo titolare non implica la cessazione del potere di fatto di quest’ultimo sul bene smarrito, con la conseguenza che colui che se ne appropria senza provvedere alla sua restituzione commette il reato di furto e non quello di appropriazione di cose smarrite(così Sez. 2, n. 46991 del 08/11/2013, Rv. 257432, nello stesso senso cfr anche Sez. 2, n. 24100 del 03/05/2011, Rv. 250566 e, in precedenza, Sez. 2, n. 8109 del 26/04/2000, Rv 216589).

Di conseguenza, alla luce di tale indirizzo nomofilattico, la Corte ne faceva conseguire come la detenzione successiva dell’assegno (così come della carta di credito), in assenza di una specifica e convincente spiegazione circa la liceità delle modalità attraverso le quali tale detenzione era stata conseguita, integrasse necessariamente, anche da un punto di vista soggettivo, il reato di ricettazione.

Oltre a ciò, i giudici di Piazza Cavour mettevano in evidenza altresì come l’assegno risultasse essere stato contraffatto, mediante l’aggiunta di alcuni zeri e nella parte relativa al beneficiario con l’indicazione del nome della M., circostanza questa che, sempre a detta della Corte, non consentiva di ritenere legittima ovvero comunque in buon fede la detenzione del titolo come si evinceva anche dal fatto che l’assegno in questione era stato originariamente emesso per una compravendita di semi ad una azienda zootecnica con la quale né l’imputato, né il T. (indicato come effettivo detentore del titolo), né la M. (beneficiario al cui ordine era apparentemente tratto il titolo) risultavano avere mai avuto rapporti.

Proseguendo la disamina dei motivi proposti, gli ermellini reputavano altresì manifestatamente infondata pure la doglianza circa il mancato riconoscimento dell’ipotesi attenuata di cui al comma secondo dell’art. 648 c.p. atteso che le stesse Sezioni Unite – dopo aver evidenziato che “ai fini della sussistenza della circostanza attenuante del danno patrimoniale di speciale tenuità, non rileva solo il valore economico della cosa ricettata, ma anche il complesso dei danni patrimoniali oggettivamente cagionati alla persona offesa dal reato come conseguenza diretta del fatto illecito e perciò ad esso riconducibili, la cui consistenza va apprezzata in termini oggettivi e nella globalità degli effetti”- avevano comunque escluso la ricorrenza dell’attenuante in parola nella ricettazione di un blocchetto di assegni di conto corrente bancario, successivamente riempiti per un ammontare complessivo di circa quattro milioni di lire (Sez. un., n. 35535 del 12/04/2007, Rv. 236914 e, recentemente e negli stessi termini Sez. 2, n. 42866 del 20/06/2017, Rv. 271154: “La “particolare tenuità”, nel delitto di ricettazione, va desunta da una complessiva valutazione del fatto che comprenda le modalità dell’azione, la personalità dell’imputato e il valore economico della “res”. (In applicazione del principio, la S. C. ha annullato la decisione del tribunale che aveva riconosciuto l’attenuante in questione con riferimento ad un assegno di importo pari a euro 2.340, omettendo di considerare il “modus operandi” dell’imputato)”).

Declinando tale principio di diritto al caso sottoposto al loro vaglio giudiziale, i giudici di legittimità ordinaria evidenziavano che, nel contesto interpretativo così  (appunto) delineato, oltre e più che l’effettivo ammontare del danno patrimoniale, da tenere comunque presente qualora l’assegno contenga l’indicazione dell’importo che l’imputato intende perseguire, ciò che rilevava fosse la complessiva condotta tenuta e pertanto, alla luce di ciò, la Corte territoriale con motivazione specifica, considerato il ruolo determinante in concreto svolto dal P. nella negoziazione dell’assegno e tenuto altresì conto dell’importo consistente, aveva escluso la possibilità di riconoscere la speciale circostanza attenuante di cui all’art. 648 co. 2 c.p. correttamente applicando siffatti principi di diritto nel caso di specie.

Anche per quel che riguarda la prescrizione del reato invocata dal ricorrente, si sottolineava che, anche a voler concedere l’applicabilità del c. 2 dell’art. 648 c.p., ciò non avrebbe comunque rilevato nella fattispecie in esame atteso che “l’ipotesi attenuata prevista dal secondo comma dell’art. 648 cod. pen. non costituisce una autonoma previsione incriminatrice, ma una circostanza attenuante speciale; ne consegue che, ai fini dell’applicazione della prescrizione, deve aversi riguardo alla pena stabilita dal primo comma del predetto articolo” (da ultimo S2, n. 14767, 21 marzo 2017, Rv. 269492).

Lo stesso giudizio negativo, infine, veniva formulato in ordine alla doglianza inerente l’illogicità della motivazione atteso che, per un verso, la diminuzione patrimoniale ed il conseguente danno devono essere verificati e valutati in relazione al soggetto titolare del conto corrente sul quale è tratto l’assegno oggetto del furto e della ricettazione, per altro verso, la restituzione della somma da parte della M., indicata quale beneficiaria nell’assegno così contraffatto, era avvenuta solo in un secondo momento, quando la banca la informò che l’assegno risultava smarrito e che la somma non le sarebbe stata comunque accreditata e dunque tale circostanza non poteva avere alcun rilievo quanto alla sussistenza del reato ed alla configurabilità del danno che la stessa ben potrebbe essersi determinata a riparare al solo fine di evitare di essere direttamente e personalmente ritenuta responsabile del reato di ricettazione.

Conclusioni

La sentenza è sicuramente condivisibile in quanto le argomentazioni ivi addotte si innestano lungo il solco di un orientamento nomofilattico costante e maggioritario.

Sul piano pratico, in casi analoghi a quello in oggetto, si potrebbe configurare una linea difensiva volta a sostenere l’insussistenza del delitto di ricettazione sulla scorta di quell’orientamento nomofilattico minoritario secondo il quale, una volta accertato lo smarrimento della cosa e quindi la cessazione del possesso (e di ogni relazione con la cosa) da parte dell’originario titolare, da un lato, non è configurabile il reato di furto, come previsto dall’art. 624 c.p. in quanto la fattispecie prevede la sottrazione del bene a chi ne ha la detenzione, intesa questa come rapporto attuale tra il soggetto e la cosa mobile, dall’altro, ricorre solo l’ipotesi prevista dall’art 647 cod. pen. (così: Cass. pen., sez. V, 27/01/1999, n. 3646; in senso conforme: Cass. pen., sez. IV, 02/05/1997, n. 5844).

Infatti, una volta ritenuto inquadrato il fatto nell’ambito di quanto era previsto dall’art. 647 c.p., si potrebbe sostenere l’insussistenza del delitto di ricettazione sotto il profilo materiale stante il fatto che  in tal guisa verrebbe meno la provenienza penalmente illecita della res detenuta e ciò in quanto, come è noto, l’art. 647 c.p. è stato abrogato per effetto dell’art. 1, d.lgs., 15 gennaio 2016, n. 7.

Seppur è evidente che una linea difensiva del genere difficilmente sarebbe accolta dai giudici di merito che si conformerebbero all’orientamento giurisprudenziale maggioritario nonchè più recente, si potrebbe tuttavia chiedere, perlomeno in sede di legittimità tramite il ricorso per Cassazione, l’intervento delle Sezioni Unite al fine di chiarire in via definitiva quale dei due sia l’orientamento nomofilattico da doversi osservare.

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