Income splitting

Redazione 14/07/11
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La sentenza emessa, riguarda aspetti di diritto societario del  regime fiscale del contratto di associazione in partecipazione ed  in particolare le imprese individuali con associazione in partecipazione di lavoro e capitali .

Nei rapporti di associazione in partecipazione nei quali l’associato non agisce come imprenditore, ai fini fiscali bisogna operare un’ulteriore distinzione in funzione della natura dell’apporto che questi si impegna a effettuare in favore dell’associante:  se l’apporto è di “puro lavoro”, gli utili che l’associato ritrae costituiscono redditi assimilati a quelli di lavoro autonomo; se l’apporto è di “puro capitale” o “misto lavoro e capitale”, gli utili che l’associato ritrae costituiscono redditi di capitale. La sentenza in esame pone in luce alcuni profili interessanti dell’istituto.

Oggetto del contenzioso è la  richiesta di rimborso  per la deducibilità in capo all’associante delle quote di reddito corrisposta dall’impresa all’associato (art.109 comma 9 TUIR 917/86 e successivi agg.).

Prima della riforma del diritto societario del 2004 , la cosa si rendeva possibile con grande beneficio in capo all’associante che poteva detrarsi gli utili percepiti dall’’associato ,  creando un evidente fenomeno di “ income splitting” -reddito cioè diviso a metà con evidenti vantaggi impositivi.

Considerata la pressione fiscale in atto , sulla questione stanno rinascendo fermenti di richiesta di incostituzionalità della norma (art. 76 e 77 – eccesso di delega governativa – art.3 e art. 53 della Costituzione) , aspetti che si ritengono nella sentenza di  “presunta incostituzionalità” e che vengono trattati nella medesima con articolate  motivazioni.    

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Nel provvedimento 20 maggio 2010 della Commissione Regionale Tributaria di Perugia viene chiesto al giudice di sospendere il giudizio, per sottoporre a giudizio di incostituzionalità dell’art. 109, comma 9, lett. b), del D.P.R. n. 917 del 1986 – il quale è stato prima modificato dall’art. 1, D.P.R. 4 febbraio 1988, n. 42, dall’art. 13-bis, D.L. 19 settembre 1992, n. 384 e dall’art. 5, D.P.R. 9 dicembre 1996, n. 695 e poi così sostituito dall’art. 1, D.Lgs. 12 dicembre 2003, n. 344 di riforma dell’imposizione sul reddito delle società (Ires) – nella parte che ritiene non deducibile ogni tipo di remunerazione dovuta ai contratti di associazione in partecipazione ed a quelli di cui all’art. 2554 c.c. allorché sia previsto un apporto diverso da quello di opere e servizi, per violazione degli artt. 3, 53, 76 e 77 Cost..

Il giudice ritiene che non abbia senso parlare di violazione dei suddetti articoli della Costituzione in quanto l’obiettivo del legislatore nel riformare il D.P.R. 917/1986 è stato quello di scoraggiare i c.d. income splitting, ossia il reddito diviso e ripartito tra associati e tra soggetti in partecipazione per fini di convenienza ai fini del prelievo fiscale, specialmente in alcuni ambiti dove essa risulta più facile per la presenza di familiari. Infatti, a seguito della riforma fiscale, non sono più deducibili dal reddito dell’associante, come nel caso in esame, le quote di reddito corrisposte dall’impresa all’associato che apporta capitale, venendo le stesse tassate, anche se con correttivi destinati a mitigarne l’imposizione, alla stregua di dividendi da partecipazioni in società.

Il sistema disegnato dal legislatore fiscale non contiene profili di illegittimità e la parziale doppia imposizione (che si verifica per effetto dell’indeducibilità della quota di reddito corrisposta dall’impresa all’associato che apporta, non solo lavoro, ma anche capitale) è giustificata, da un lato, dalla differente capacità contributiva delle due figure e, dall’altro, dal principio di progressività al quale l’ordinamento deve uniformarsi.

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