Inapplicabilità delle presunzioni in sede penale: Cass., Sez. III Pen., 26 Settembre 2012 (UD. 28 Giugno 2012) N. 37071 – Pres. Petti Ciro – PM. Montagna Alfredo

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Imposte e tasse in genere – Reati tributari – Azione penale – Penale tributario – Nuovo sistema penale tributario (d.lgs. n. 74/2000) – Indagini finanziarie – Presunzioni legali – Omessa giustificazione dei movimenti bancari da parte del contribuente – Inapplicabilità delle presunzioni in sede penale.

La sentenza che si annota risulta di interesse poiché offre lo spunto per ripercorrere, sia pure in sintesi, l’orientamento giurisprudenziale riguardante i rapporti tra la formazione della prova in ambito tributario, da una parte, e penale, dall’altro, allorché all’origine sussista un fatto illecito rilevante sia ai fini tributari che penali.

La Suprema Corte individua, così, i limiti alla trasmigrazione nel processo penale delle risultanze dell’attività di accertamento tributario.

A seguito di controllo fiscale, un contribuente non poteva giustificare parecchie movimentazioni bancarie. Gli venivano quindi accertati maggiori ricavi e, conseguentemente, siccome l’imposta ritenuta evasa superava la soglia di rilevanza penale, veniva anche sottoposto a procedimento penale per il reato di Dichiarazione infedele (art. 4, d.lgs. n. 74/2000).

Veniva condannato ad un anno e due mesi di reclusione ed alle pene accessorie di legge, con concessione del beneficio della sospensione condizionale subordinata all’eliminazione delle conseguenze dannose del reato mediante il pagamento delle sole imposte evase entro il termine di 120 giorni dalla formazione del giudicato.

La pena era confermata dalla Corte di appello.

Il contribuente ricorreva in Cassazione eccependo che la prova dei reati contestati era incardinata su una presunzione fiscale che non poteva trovare legittimo ingresso in ambito penale.

Nella pronuncia i Giudici di legittimità confermano il consolidato principio di diritto secondo cui in tema di reati tributari non può farsi ricorso alla presunzione tributaria per la quale tutti gli accrediti registrati sul conto corrente si considerano ricavi dell’azienda (art. 32, comma 1, n. 1, d.p.r. n. 600/1973), in quanto spetta al giudice penale la determinazione dell’ammontare dell’imposta evasa procedendo d’ufficio ai necessari accertamenti, eventualmente mediante il ricorso a presunzioni di fatto (è noto che l’art. 32, d.p.r. n. 600/1973, contiene una presunzione legale di corrispondenza delle partite attive con le componenti positive di reddito – ricavi d’impresa o compensi da attività professionale – se il contribuente non dimostra che le stesse non hanno rilevanza ai fini della determinazione del reddito soggetto ad imposta).

La Suprema Corte rileva, tuttavia, che l’autonomia del procedimento penale rispetto a quello tributario non esclude che, ai fini della formazione del suo convincimento, il giudice penale possa avvalersi degli stessi elementi che determinano presunzioni secondo la disciplina tributaria, a condizione che gli stessi siano assunti non con l’efficacia di certezza legale, ma come dati processuali oggetto di libera valutazione ai fini probatori. Situazione – secondo i Giudici di vertice – verificatasi nel caso di specie, dove gli elementi indiziari tratti dalle movimentazioni sui conti correnti trovavano riscontro: a) nella mancata annotazione in contabilità di numerose fatture attive e passive; b) nel mancato rilascio di fatture a numerosi clienti; c) nell’utilizzazione di due magazzini per lo stoccaggio di merci non dichiarati ai fini dello svolgimento dell’attività imprenditoriale.

Ne consegue che eventuali risultanze fiscali che l’Amministrazione finanziaria acquisisce attraverso l’esercizio di poteri di polizia tributaria, utilizzate ai fini fiscali per ricostruzioni indirette della prova dell’evasione attraverso lo strumento presuntivo, non possono elevarsi, sic et sempliciter, a prova della responsabilità penale. Semmai possono assurgere ad indizi che, se supportati da ulteriori elementi esterni, potrebbero, eventualmente, elevarsi a dignità di prova della commissione del fatto reato.

La posizione è coerente con l’importante orientamento, fatto proprio in sede giurisprudenziale, secondo cui << l’efficacia vincolante del giudicato penale non opera nel processo tributario, poiché in questo, da un lato, vigono limitazioni della prova (come il divieto della prova testimoniale) e, dall’altro, possono valere anche presunzioni inidonee a supportare una pronuncia penale di condanna >> (Cass., Sez. trib., 7 febbraio 2008, n. 2836. Si confronti Cass., Sez. trib., 23 gennaio 2008, n. 1416).

Conformemente, in precedenti giudizi i Giudici di vertice avevano precisato che differentemente dall’ordinamento tributario, il cui metodo induttivo di determinazione del reddito contempla ipotesi di ricostruzione formale e di inversione dell’onere della prova a carico del contribuente, la disciplina della repressione dei reati comporta l’obbligo del giudice di valutare autonomamente le circostanze ed i fatti costitutivi della fattispecie incriminatrice – all’uopo anche discostandosi dalle risultanze e conclusioni dell’accertamento prettamente tributario – per dare prevalenza alla realità del reddito imponibile e della corrispondente imposta sottratta all’Erario, ovvero procedendo ad autonoma indagine nel contesto del divieto di adozione delle presunzioni legali previste dalla normativa sull’accertamento.

Secondo detta impostazione è stato concluso che il << giudicato penale non è suscettibile conseguire automatica efficacia e fare stato nel processo tributario. Compete al giudice del merito, nella formazione del proprio libero convincimento e valutazione degli elementi di prova, verificare quali risultanze del giudizio penale comportino riflessi sulla legittimità e fondatezza della pretesa tributaria >> (Cass., Sez. III pen., 6 febbraio 2009, n. 5490. Si confronti Cass., Sez. trib., 8 settembre 2008, n. 22549).

Insomma, è necessario che il giudice penale formi il proprio convincimento attraverso l’autonoma valutazione e percezione dei fatti di causa, incombendo << (…) esclusivamente sul giudice penale il compito di procedere, al fine di verificare l’avvenuto o meno superamento della soglia di punibilità, all’accertamento e quindi alla determinazione dell’ammontare dell’imposta evasa, attraverso una verifica che può venirsi a sovrapporre ed anche ad entrare in contraddizione con quella eventualmente effettuata dinanzi al giudice tributario non essendo configurabile alcuna pregiudiziale tributaria >> (Cass., Sez. III pen., 28 maggio 2008, n. n. 21213).

Anche la giurisprudenza prevalente di merito in varie occasioni ha avuto modo di confermare che << (…) gli stessi elementi di fatto evidenziati dall’Amministrazione finanziaria dovranno essere rivalutati con i criteri della prova penale, anche sotto il profilo degli indizi gravi, precisi e concordanti di cui all’art. 192, comma 2 c.p.p. >>, tenuto conto che << il principio di autonomia dei rapporti tra procedimento penale e procedimento tributario impediscono l’automatica trasferibilità delle presunzioni tributarie nel processo penale, alieno da ogni forma di prova legale ed ancorato all’onere della prova in capo all’accusa >> (Tribunale di Milano, n. 828/2011. In dottrina, ex multis, M. Thione, A. Braccialarghe, Procedimento penale e tributario: tra indipendenza dei giudicati e possibili “migrazioni” probatorie, in il fisco n. 45/2007, 6553; S. Screpanti, L’accertamento tributario conseguente al procedimento penale: recente giurisprudenza e ultime novità normative, in Rass. trib. n. 6/2006, 2005; S. Capolupo, Giudicato penale e motivazione dell’atto impositivo, in il fisco n. 36/2006, 5559; S. Gallo, Riaffermato il principio del doppio binario nei rapporti tra processo penale e processo tributario, in il fisco n. 48/2005, 7513).

Toma Giangaspare Donato

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