In tema di estorsione contrattuale, l’elemento dell’ingiusto profitto con altrui danno può essere desunto implicitamente

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Il fatto

La Corte di Appello di Roma, in riforma della decisione con la quale il Tribunale di Roma aveva condannato l’imputato alla pena ritenuta di giustizia per il reato di tentata estorsione continuata, assolveva l’imputato per insussistenza del fatto.

I motivi addotti nel ricorso per Cassazione

Avverso il provvedimento summenzionato proponeva ricorso per Cassazione il difensore della parte civile deducendo contraddittorietà e illogicità della motivazione.

Sull’argomento, vedasi: 

Le valutazioni giuridiche formulate dalla Cassazione

Il ricorso era ritenuto fondato per le seguenti ragioni.

Gli Ermellini osservavano in via preliminare che la giurisprudenza di legittimità è da tempo consolidata nell’affermazione di un principio fondamentale: quello della necessità di una motivazione rafforzata della decisione del giudice di appello.

Infatti, già nel 1992, le Sezioni Unite della Suprema Corte (sent. n. 6682 del 04/02/1992) osservarono che, quando le decisioni dei giudici di primo e di secondo grado siano concordanti, la motivazione della sentenza di appello si salda con quella precedente per formare un unico complesso corpo argomentativo mentre, nel caso in cui, invece, per diversità di apprezzamenti, per l’apporto critico delle parti e/o per le nuove eventuali acquisizioni probatorie, il giudice d’appello ritenga di pervenire a conclusioni diverse da quelle accolte da quello di primo grado, non può allora risolvere il problema della motivazione della sua decisione inserendo nella struttura argomentativa della sentenza impugnata, genericamente richiamata, delle notazioni critiche di dissenso, in una sorta di ideale montaggio di valutazioni ed argomentazioni fra loro dissonanti, essendo invece  necessario che egli riesamini, sia pure in sintesi, il materiale probatorio vagliato dal giudice di primo grado, consideri quello eventualmente sfuggito alla sua delibazione e quello ulteriormente acquisito, per dare, riguardo alle parti della prima sentenza non condivise, una nuova e compiuta struttura motivazionale che dia ragione delle difformi conclusioni, delineando le linee portanti del proprio, alternativo, ragionamento probatorio.

In particolare, con la sentenza emessa dalle Sezioni Unite n. 14800 del 21/12/2017, è stato statuito che, nella ipotesi di riforma in senso assolutorio di una sentenza di condanna, il giudice di appello non ha l’obbligo di rinnovare l’istruzione dibattimentale mediante l’esame dei soggetti che hanno reso dichiarazioni ritenute decisive ai fini della condanna di primo grado fermo restando però che il giudice di appello (previa, ove occorra, rinnovazione della prova dichiarativa ritenuta decisiva ai sensi dell’art. 603 cod. proc. pen.) è tenuto ad offrire una motivazione puntuale e adeguata della sentenza assolutoria, dando una razionale giustificazione della difforme conclusione adottata rispetto a quella del giudice di primo grado.

Ciò posto, venendo al merito della questione, a fronte di quanto considerato e valutato dalla Corte territoriale, i giudici di piazza Cavour osservavano come dovesse ricordato che, invece, la minaccia costitutiva del delitto di estorsione, oltre che essere esplicita, palese e determinata, può essere manifestata anche in maniera indiretta, ovvero implicita ed indeterminata, purché sia idonea ad incutere timore ed a coartare la volontà del soggetto passivo, in relazione alle circostanze concrete, alla personalità dell’agente, alle condizioni soggettive della vittima ed alle condizioni ambientali in cui opera (Sez. 2, n. 8477 del 20/2/2019; Sez. 2, n. 11107 del 14/02/2017; Sez. 2, n. 677 del 10/10/2014; Sez. 2, n. 11922 del 12/12/2012), tenuto conto altresì del fatto che l’idoneità degli atti deve essere valutata con giudizio operato ex ante, essendo priva di rilievo la capacità di resistenza dimostrata dalla vittima dopo la formulazione della minaccia (Sez. 2, n. 3934 del 12/01/2017; Sez. 2; n. 41167 del 02/07/2013; Sez. 2, n. 12568 del 05/02/2013).

Precisato ciò, il Supremo Consesso riteneva altresì come la sentenza impugnata avesse anche obliterato il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità in tema di estorsione contrattuale, la quale si realizza quando al soggetto passivo sia imposto di porsi in rapporto negoziale di natura patrimoniale con l’agente o con altri soggetti: in questa ipotesi l’elemento dell’ingiusto profitto con altrui danno è implicito nel fatto stesso che il contraente-vittima sia costretto al rapporto in violazione della propria autonomia negoziale, essendogli impedito di perseguire i propri interessi economici nel modo e nelle forme ritenute più confacenti ed opportune (Sez. 2, n. 12434 del 19/02/2020; Sez. 2, n. 39722 del 12/7/2018; Sez. 5, n. 9429 del 13/10/2016; Sez. 6, n. 48461 del 28/11/2013; Sez. 6, n. 9185 del 25/01/2012) mentre, sempre ad avviso della Suprema Corte, il precedente citato nella sentenza impugnata (Sez. 2, n. 27556 del 17/05/2019) non risultava essere pertinente, considerato che nel caso qui in esame l’imputato intendeva essere riassunto nonostante fosse rientrato in servizio il dipendente che egli aveva sostituito durante il suo periodo di malattia; la sua prestazione lavorativa, dunque, sarebbe stata di fatto inutile e conseguentemente la titolare della ditta avrebbe patito un danno economico.

Infine, era fatto presente come la sentenza fosse manifestamente illogica anche per l’ulteriore profilo denunciato dalla ricorrente avendo la Corte di Appello ritenuto che la condotta dell’imputato fosse “comunque illecita” e allora si sarebbe dovuto verificare in concreto se quel medesimo fatto storico, alla luce anche di una ricostruzione parzialmente diversa da quella del primo giudice, fosse riconducibile in un’altra fattispecie di reato, diversa da quella contestata, ugualmente produttiva di potenziali danni per la parte civile (la violenza privata ovvero la truffa vessatoria, come adombrato in altra parte della pronuncia).

La fondatezza del ricorso proposto dalla parte civile, per quanto sopra esposto, imponeva, pertanto, per la Corte di legittimità, l’annullamento con rinvio della impugnata sentenza al giudice civile competente per valore in grado di appello ai sensi dell’art. 622 del codice di rito.

Conclusioni

La decisione in esame è assai interessante essendo ivi chiarito, dopo essere stato fatto presente che la minaccia costitutiva del delitto di estorsione, oltre che essere esplicita, palese e determinata, può essere manifestata anche in maniera indiretta, ovvero implicita ed indeterminata, purché sia idonea ad incutere timore ed a coartare la volontà del soggetto passivo, in relazione alle circostanze concrete, alla personalità dell’agente, alle condizioni soggettive della vittima ed alle condizioni ambientali in cui opera, che, con particolar riguardo alla estorsione contrattuale, sulla scorta di quanto già affermato dalla Cassazione in diverse pronunce,  l’elemento dell’ingiusto profitto con altrui danno è implicito nel fatto stesso che il contraente-vittima sia costretto al rapporto in violazione della propria autonomia negoziale, essendogli impedito di perseguire i propri interessi economici nel modo e nelle forme ritenute più confacenti ed opportune.

E’ dunque sconsigliabile intraprendere una linea difensiva che, al contrario, sostenga l’insussistenza di questo elemento costitutivo di siffatto illecito penale solo perché l’elemento dell’ingiusto profitto con altrui danno non sia emerso in modo espresso.

Ad ogni modo, il giudizio in ordine a quanto statuito in cotale provvedimento, proprio perché contribuisce a fare chiarezza su codesta tematica giuridica, non può che essere positivo.

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Sentenza collegata

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Avv. Di Tullio D’Elisiis Antonio

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