(Ricorso dichiarato inammissibile)
(Normativa di riferimento: C.p. art. 629)
Il fatto e i motivi addotti nel ricorso per Cassazione
T. R. e T. G., tramite il difensore, ricorrevano per cassazione avverso la sentenza 1 dicembre 2016 con la quale la Corte d’Appello di Potenza li aveva a sua volta condannati alla pena di anni tre e mesi quattro di reclusione ed euro 600 di multa per la violazione degli articoli: 110, 81, 582, 629, 628 codice penale.
La difesa chiedeva l’annullamento della decisione impugnata deducendo i seguenti motivi: 1) violazione degli artt. 192 e 533 cod. proc. pen. nonché vizio di mancanza e genericità della motivazione perché la Corte d’Appello, da un lato, avrebbe affrontato il tema della credibilità del testimone L., in termini riduttivi, avendo affermato che la parte offesa (costituitosi parte civile) non avrebbe avuto alcun interesse ad imbastire una falsa accusa a carico degli imputati, dall’altro, non avrebbe correttamente apprezzato le contraddizioni in cui è incorso il testimone T. che all’epoca dei fatti era in preda ad un momento di forte depressione per un grave lutto in famiglia e dunque la decisione de qua non avrebbe rispettato il principio per il quale la condanna può essere pronunciata solo nel caso in cui la responsabilità si ponga “oltre ogni ragionevole dubbio”; 2) erronea applicazione dell’art. 629 cod. pen., attesa l’inesistenza del profitto ingiusto, nonché erronea applicazione dell’art. 393 cod. pen. nel cui ambito doveva essere considerata la condotta degli imputati stante il fatto che la Corte d’Appello non avrebbe tenuto nella dovuta considerazione il tenore del testo della quietanza sottoscritta dalla persona offesa e le modalità della sua redazione nel senso che questo scritto, per un verso, non poteva essere considerato una “quietanza” di pagamento, per altro verso, non poteva neppure essere considerato “profitto” rilevante ex art. 629 cod. pen. perché l’azione non ha avuto incidenza in via immediata e diretta sul patrimonio della persona offesa determinandone una diminuzione.
Le valutazioni giuridiche formulate dalla Cassazione
Il primo motivo di ricorso veniva dichiarato inammissibile perché, ad avviso della Corte, sostanziandosi nella denuncia di un vizio della motivazione, non rispettava i limiti posti dagli articoli 581 lett. c) e 606 comma 1 lett. e) cod. proc. pen. e ciò anche in ragione del fatto che la Corte territoriale aveva indicato in modo specifico le ragioni per le quali era ritenuto credibile la persona offesa, evidenziando la convergenza del suo dichiarato con ulteriori elementi di prova anche di natura documentale.
Al riguardo si osservava tra l’altro come il richiamo alla violazione dell’art. 533 cod. proc. per violazione del principio dell’”oltre ragionevole dubbio” introdotto nell’art. 533 cod. proc. pen. dalla legge n. 46 del 2006, non avesse mutato la natura del sindacato della Corte di cassazione sulla motivazione della sentenza, che non può essere utilizzato per valorizzare e rendere decisiva la duplicità di ricostruzioni alternative del medesimo fatto, eventualmente emerse in sede di merito e segnalate dalla difesa, una volta che tale duplicità sia stata oggetto di attenta disamina da parte del giudice dell’appello; infatti, sempre secondo quanto ravvisato nella pronuncia in commento, la Corte di legittimità è chiamata esclusivamente ad un controllo sulla persistenza o meno di una motivazione effettiva per mezzo di una valutazione unitaria e globale dei singoli atti e dei motivi di ricorso su di essi imperniati, non potendo la sua valutazione sconfinare nel merito [Cass. sez. 2 n. 29480 del 7.2.2017, rv 270519].
Anche il secondo motivo di ricorso era dichiarato inammissibile giacchè la Corte territoriale aveva escluso l’applicabilità dell’art. 393 cod. pen., stante l’assenza del presupposto dell’esistenza di un diritto da poter far valere da parte degli imputati fermo restando che le modalità del fatto integravano comunque il delitto di cui all’art. 629 cod. pen., ancorchè la vittima fosse stata costretta a firmare una quietanza per un pagamento mai ricevuto.
I giudici di Piazza Cavour, infatti, inquadravano la fattispecie sottoposta al loro scrutinio giudiziale come un’estorsione di tipo patrimoniale che, come enunciato in questa stessa pronuncia, si realizza quando al soggetto passivo sia imposto di porsi in rapporto negoziale di natura patrimoniale con l’agente o con altri soggetti atteso che in tal caso l’elemento dell’ingiusto profitto con altrui danno è implicito nel fatto stesso che il contraente-vittima sia costretto al rapporto, consistente anche in un negozio giuridico unilaterale (come il rilascio di una quietanza di pagamento) in violazione della propria autonomia negoziale, impedendogli di perseguire i propri interessi economici nel modo e nelle forme ritenute più confacenti ed opportune.
Conclusioni
La sentenza è condivisibile.
L’elemento dell’ingiusto profitto con altrui danno che, come è noto, integra uno degli elementi costitutivi del delitto di estorsione, può consistere nel danno conseguente al mancato conseguimento di una utilità economica perché colui che può conseguirla è stato costretto a rinunciarvi.
Una lettura di tale elemento costituito del delitto di estorsione in questi termini, difatti, si palesa confacente alla tipologia dei beni giuridici che l’art. 629 c.p. tende a tutelare ossia, oltre all’inviolabilità del patrimonio, anche la libertà personale (così: Cass. pen., sez. II, 86/173388) la quale può essere appunto violata qualora taluno sia costretto a rinunciare ad un proprio diritto perchè costretto a farlo.
Il giudizio su questa pronuncia, dunque, si ribadisce, non può che essere positivo.
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