Il risarcimento del danno da inadempimento di prestazioni d’opera professionali

Calabrò Arles 07/04/17
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Nell’ambito del tessuto codicistico, le prestazioni d’opera professionali sono disciplinate dagli artt. 2222 e ss. cc.

Con esse si intende il compimento di una determinata opera o servizio nei confronti di uno o più soggetti, i quali, a fronte di tale prestazione fornita con lavoro prevalentemente proprio e senza vincolo di subordinazione, sono tenuti a versare un corrispettivo(art 2222 cc).

Il legislatore prevede espressamente che ove il prestatore d’opera non proceda all’esecuzione del servizio secondo le condizioni stabilite dal contratto e a regola d’arte, il committente possa fissare un congruo termine, entro il quale il prestatore d’opera deve conformarsi. Trascorso inutilmente il temine fissato, il committente può recedere dal contratto, salvo il diritto al risarcimento del danno.

Giova precisare che, alla stregua di un’ormai consolidata giurisprudenza, il riferimento del legislatore alla prestazione “resa a regola d’arte”, va inteso nel senso che la medesima opera posta in essere dal prestatore debba essere eseguita con l’ordinaria diligenza del professionista medio, ex art. 1176 secondo comma cc. Tale ultima disposizione codicistica non introduce una tipologia di responsabilità diversificata rispetto all’ordinaria responsabilità del debitore(ex, art 1176, primo comma cc), ma, piuttosto, tende a specificare che, nell’adempimento delle obbligazioni inerenti l’esercizio di un’attività professionale, la diligenza debba valutarsi con riguardo alla natura dell’attività esercitata. Ai fini di tale valutazione torna utile il concetto di colpa enucleato dall’art 43 cp, a tenore del quale si distingue tra colpa generica(discendente da una condotta negligente, imprudente o imperita) e colpa specifica (derivante, per converso, dall’inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline).

Rilevante, ai fini della tematica che ci occupa, è, altresì, l’art. 2232 cc, in forza del quale il prestatore d’opera deve eseguire personalmente l’incarico assunto. Può, tuttavia, valersi, sotto la propria direzione e responsabilità, di sostituti e ausiliari (ove la collaborazione di altri soggetti sia consentita dal contratto o dagli usi).

Tale ultima disposizione va letta in combinato disposto con l’art. 1228 cc che, come è noto, postula che il debitore, avvalsosi dell’opera di terzi per l’adempimento della propria prestazione, risponda dei fatti dolosi o colposi compiuti da questi ultimi.

Proseguendo il percorso relativo alla valutazione delle disposizioni normative rilevanti ai fini dell’analisi della fattispecie in esame, non ci si può esimere dal menzionare l’art 2236 cc; norma, quest’ultima, che introduce una sorta di responsabilità attenuata del prestatore d’opera nell’eventualità in cui la prestazione implichi la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà. In tale ultima circostanza, infatti, costui non risponde dei danni, se non in caso di dolo o colpa grave.

E’ evidente come la ratio di tale disciplina affondi le sue radici nell’opportunità di evitare che, in determinate circostanze, il debitore vada incontro a responsabilità civile: talvolta, infatti, determinate prestazioni professionali attengono a particolari interventi o servizi che presentano un grado di difficoltà molto elevato. La soluzione di tali problemi tecnici di speciale gravosità implica uno sforzo ed un impegno notevolmente maggiori da parte del professionista e, al contempo, è innegabile il rilievo che queste attività professionali assumano nel contesto sociale. Ecco, pertanto, che, in tali circostanze, il legislatore opta per una soluzione che, allo stesso tempo, contemperi due  diverse esigenze: da un lato, evitare che il prestatore d’opera vada esente da responsabilità civile anche nell’eventualità in cui agisca con dolo, ovvero con grave negligenza, imprudenza o imperizia; dall’altro, fare in modo che, in ordine a tali prestazioni professionali di spiccato rilievo sociale, l’eventuale inadempimento dovuto al caso fortuito, alla forza maggiore ovvero a colpa lieve o ordinaria non sia attribuibile allo stesso debitore, il quale, pertanto, non risponderà di eventuali danni subiti dal creditore, ma sempre a patto, lo si ribadisce, che lo stesso prestatore d’opera non agisca con l’intenzione di non voler adempiere correttamente la prestazione, ovvero con grave negligenza, imprudenza o imperizia.

Dopo questa breve panoramica relativa alle fonti normative di disciplina delle prestazioni d’opera professionale, è ora possibile, a questo punto, accennare ad una teoria che, nel panorama dottrinale e giurisprudenziale, per tanti anni ha tenuto banco, ma che, ormai, sembra essere in via di superamento: si allude alla dicotomia obbligazione di mezzi-obbligazione di risultati.

Secondo l’impostazione tradizionale, le obbligazioni di mezzi sono connesse a determinate prestazioni che, ai fini dell’adempimento, non devono garantire necessariamente un determinato risultato positivo: l’importante, in tali tipi di obbligazioni, è che il debitore informi la propria prestazione alle regole della diligenza postulate dall’art. 1176, secondo comma cc(si ponga mente, a tal proposito, all’opera professionale dell’avvocato, ovvero, sempre a mero titolo esemplificativo, si pensi alla prestazione posta in essere dal medico).

Le obbligazioni di risultato, invece, alla stregua dell’orientamento tradizionale, hanno ad oggetto quelle prestazioni che devono necessariamente garantire un determinato risultato, non essendo sufficiente, ai fini dell’adempimento della prestazione, che il debitore informi la propria condotta alle regole della diligenza, prudenza e perizia. L’esempio classico, riferito a tali tipi di obbligazioni, è fornito dal contratto di appalto, cioè dall’accordo con il quale una parte assume, con organizzazione dei mezzi necessari e con gestione a proprio rischio, il compimento di un’opera o di un servizio, verso un corrispettivo in denaro.

Preme rilevare come tale binomio (obbligazioni di mezzi-obbligazioni di risultato) di recente sia stato messo in discussione dalla Corte regolatrice, la quale, nella sua massima espressione nomofilattica, non ha mancato di evidenziare che, a ben vedere, anche nelle obbligazioni di mezzi, si celi, in realtà, l’intento di raggiungere un determinato risultato. Alla stregua di quanto statuito dalla Suprema Corte, ciò che rileva, ai fini della valutazione di un corretto adempimento, lo si ricava dalla lettura coordinata degli artt. 1176 e 1218 e ss. cc. Ai fini di tale indagine, si assume, non va attribuita alcuna rilevanza a tale distinzione, la quale, tuttalpiù, assumerà una valenza meramente definitoria o accademica.

Orbene, tracciati in questi termini le coordinate ermeneutiche lungo le quali si è sviluppato il dibattito relativo alla dicotomia obbligazioni di mezzo-obbligazioni di risultato, è giunto ora il momento di addentrarsi nella disamina della questione del risarcimento del danno da inadempimento di prestazioni di opera professionale.

A tal fine, per evidenti ragioni di logica espositiva, appare opportuno procedere alla prospettazione di due differenti scenari.

E’ possibile, infatti, che il prestatore d’opera e il proprio cliente stipulino un determinato contratto, ovvero è altrettanto ipotizzabile, come spesso accade, che tra prestatore d’opera e cliente non venga posto in essere alcun programma negoziale predefinito.

Nella prima evenienza, è pacifico, nell’attuale panorama dottrinale e giurisprudenziale, come tale rapporto contrattuale sia attratto nella sfera di disciplina di cui agli artt. 1218 e ss. cc. Il prestatore d’opera che non esegue esattamente la prestazione dovuta è tenuto al risarcimento del danno se non prova che l’inadempimento o il ritardo sia stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile. L’onere della prova, pertanto, incombe sullo stesso prestatore d’opera, il quale, in giudizio, onde non incorrere in responsabilità da inadempimento, dovrà dimostrare che quest’ultimo non sia ad egli imputabile.

Ai fini di tale dimostrazione, si registrano due tesi contrapposte: la teoria oggettiva postula che il debitore, oltre a dover dimostrare di aver agito con l’ordinaria diligenza, prudenza e perizia, debba, altresì, provare il fattore esterno (caso fortuito, forza maggiore, ecc.) che, inserendosi nel decorso causale, gli abbia impedito di poter eseguire correttamente la propria prestazione. La concezione soggettiva, invece, ai fini della prova liberatoria, esige unicamente la dimostrazione che il debitore abbia informato la propria condotta alle regole dell’ordinaria diligenza, non dovendo egli provare anche i fattori esterni alla sua sfera di volontà che gli abbiano impedito di ottemperare correttamente alla prestazione dovuta.

Venendo ai profili squisitamente risarcitori, il creditore, ex art 1223 cc, ove riesca a fornir prova del danno, potrà chiedere il risotro della perdita subita (cc.dd. danno emergente), nonché del mancato guadagno (cc.dd. lucro cessante), purchè siano conseguenza immediata e diretta dell’inadempimento. Egli, sempre nell’eventualità in cui riesca a provarlo, potrà, altresì, rivendicare il danno non patrimoniale (sub specie di danno morale): su tale punto specifico, infatti, tornano utili gli insegnamenti del giudice della nomofilachia, il quale, nelle storiche sentenze dell’anno 2008, non ha mancato di rilevare come il danno non patrimoniale possa trovare cittadinanza anche nell’ambito della responsabilità contrattuale. Inoltre, se l’inadempimento o il ritardo non dipende da dolo del debitore, il risarcimento va limitato al danno che poteva prevedersi nel tempo in cui è sorta l’obbligazione (art 1225 cc). Ove la quantificazione del danno non sia possibile(perlomeno nel suo preciso ammontare), il codificatore attribuisce al giudicante il potere-dovere di liquidarlo con valutazione equitativa, tenendo conto, pertanto, di tutte le circostanze emergenti nel caso concreto. Se a cagionar il danno abbia concorso anche lo stesso creditore, il risarcimento va diminuito secondo la gravità della colpa e l’entità delle conseguenze che ne sono derivate, mentre il risarcimento non è affatto dovuto in relazione ai danni che il creditore avrebbe potuto evitare utilizzando l’ordinaria diligenza (art 1127 cc).

In riferimento al termine prescrizionale relativo all’azione da responsabilità contrattuale, ex art 1218 e ss. cc., esso va inteso nell’ordinario termine decennale di prescrizione, decorrente dal momento in cui il contratto è stato stipulato.

Bene, come già anticipato, oltre all’eventualità in cui tra prestatore d’opera e la propria controparte venga stipulato un contratto, nella prassi si registra anche un’ulteriore ipotesi: è possibile, infatti, che tra questi ultimi non venga predefinito per iscritto alcun programma negoziale.

In tale evenienza, alla stregua di un orientamento ormai assolutamente minoritario, ai fini di un’eventuale azione risarcitoria, il debitore dovrebbe agire ex artt. 2043 e ss. cc., con ciò che ne conseguirebbe in termini di onus probandi, danni risarcibili e termine prescrizionale.

Tale orientamento non pare assumere particolare pregio, prestando il fianco, invero, a diversi rilievi critici.

In primis, non sembra potersi sottacere come la responsabilità aquiliana sia anche denominata “responsabilità dell’estraneo”: un’autorevole voce dottrinale evidenzia come tale responsabilità contrattuale trovi la propria genesi in base ad un contatto del tutto fortuito venutosi a creare tra soggetti, che, sino ad allora, erano, l’uno nei confronti dell’altro, completamente estranei.

Il rapporto tra prestatore d’opera e il proprio cliente, per converso, lungi dall’atteggiarsi come un rapporto tra estranei, assume, a ben vedere, i connotati di un vero e proprio “contatto sociale qualificato”: costoro non possono considerasi, l’uno nei confronti dell’altro, alla stregua di un qualsivoglia quisque de populo, proprio perché tra essi si ingenera una sorta di alleanza basata sulla reciproca fiducia, un legittimo affidamento a che il contegno della propria controparte si informi a lealtà, correttezza, buona fede.

Tali considerazioni, allora, fanno propendere per un ulteriore approdo ermeneutico: l’eventuale responsabilità da inadempimento del prestatore d’opera dovrà essere attratta nell’orbita gravitazionale di cui agli artt. 1218 e ss cc, rientrando nel novero di quelle “prestazioni dovute” a cui si riferisce la predetta disposizione codicistica. Il legislatore, infatti, lungi dal pretendere la stipulazione per iscritto di un determinato contratto, ai fini della proponibilità della relativa azione da responsabilità contrattuale, postula esclusivamente che la prestazione dovuta dal debitore non sia stata eseguita correttamente. Per “prestazione dovuta” non può intendersi solo quella avente origine da un accordo scritto tra creditore e debitore, ma anche quella scaturente da un accordo verbale che sia il frutto di un contatto sociale qualificato, di un rapporto instauratosi tra il prestatore d’opera e la propria controparte (si ponga mente, a mero titolo esemplificativo, al rapporto tra avvocato e cliente, ovvero tra l’agente o l’intermediario finanziario e il proprio cliente).

Orbene, dopo aver tracciato i tratti salienti della tematica in esame e dopo aver, quindi, acquisito determinate necessarie cognizioni, è ora possibile, a questo punto, addentrarsi nella disamina di una questione problematica che, soprattutto nell’ultimo anno, è tornata prepotentemente alla ribalta, dando vita, con stimolo ineguagliabile, ad un accesissimo dibattito accademico, nonché a qualche già avvertito contrasto giurisprudenziale: ci si riferisce alla responsabilità del sanitario, alla luce della novella introdotta dalla l. 189/2012(nota come “legge Balduzzi”).

Prima di entrare in medias res ed esaminare la disciplina introdotta da tale disposizione legislativa, appare necessario, per una chiara finalità di ragionevolezza espositiva, delineare, sia pure in estrema sintesi, il quadro giurisprudenziale e dottrinale finora rinvenibile.

L’orientamento in assoluto maggioritario propende nell’attrarre la responsabilità del sanitario nella sfera di disciplina di cui agli artt. 1218 e ss. cc. A tale soluzione si giunge proprio in virtù delle argomentazioni (che si è già avuto modo di esporre) concernenti la teoria del “contatto sociale qualificato” (argomentazioni a cui si rinvia). Pertanto sia nell’ipotesi in cui tra sanitario e paziente sia stato stipulato un contratto, sia nell’eventualità in cui tra quest’ultimi non via sia stato alcun programma negoziale predeterminato, ugualmente il sanitario, unitamente alla struttura ospedaliera in cui presta servizio, potrà essere citato in giudizio, ex art 1218 e ss. cc, rispondendo, ovviamente, anche per un’eventuale risarcimento danni, in solido, ex art 2055 cc, con la stessa struttura ospedaliera. Varranno ovviamente anche per il sanitario le considerazioni già svolte in riferimento all’inversione dell’onere della prova, al termine prescrizionale e al risarcimento dei soli danni prevedibili. Nel caso la prestazione si appalesi di particolare difficoltà tecnica egli (sul versante civilistico) potrà godere dell’agevolazione probatoria enucleata dalla cc.dd. responsabilità attenuata, ex art 2236 cc.

Ora, se queste sono le coordinate interpretative consolidatesi nell’ambito del diritto vivente, allo stato attuale, dopo l’entrata in vigore della “legge Balduzzi”, si discute appassionatamente in ordine all’eventuale messa in discussione di tali ricostruzioni.

Come è noto, tale disposizione legislativa prevede, infatti, che l’esercente la professione sanitaria, il quale nello svolgimento della propria attività si attenga alle linee guida e alle buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica, non risponde penalmente per colpa lieve. La medesima disposizione soggiunge, inoltre, che in tali casi resta comunque fermo l’obbligo di cui all’art 2043 del codice civile e che il giudice, anche nella determinazione del danno, debba tenere debitamente conto della condotta tenuta dallo stesso sanitario.

Bene, il primo nodo interpretativo da sciogliere attiene al fatto se l’attenuata responsabilità(riferita ai soli casi di dolo o colpa grave) riguardi solo l’ambito penalistico, ovvero se il sanitario, nel caso di colpa lieve, possa andare esente anche da responsabilità civile.

Sul punto, a ben vedere, pare non si possano nutrire particolari dubbi ermeneutici: soccorre all’esegeta la stentorea chiarezza del dato letterale, laddove si prescrive testualmente che “l’esercente la professione sanitaria (…) non risponde penalmente per colpa lieve”.

Il legislatore, quindi, volutamente restringe il campo dell’attenuazione della responsabilità del medico solo al versante penalistico.

Un’ulteriore questione venutasi a creare concerne l’ambito di responsabilità civile dello stesso sanitario e cioè se egli, per l’eventuale inadempimento, debba continuare a rispondere ai sensi dell’art 1218 e ss. cc., ovvero se il richiamo del legislatore all’art 2043 cc debba intendersi come un’esplicita volontà di configurare la responsabilità del sanitario alla stregua di responsabilità aquiliana.

Sul punto, la Suprema Corte rileva che quella del legislatore debba considerarsi una “mera svista”, non potendosi mettere in discussione i postulati consolidatisi da un’ultradecennale giurisprudenza: tali principi si sono ormai cristallizzati nella struttura del diritto vivente e, assume il giudice della nomofilachia, difficilmente possono essere messi in discussione da una disposizione normativa la cui esegesi, tra l’altro, rimane comunque ambigua.

Orbene, non pare potersi accedere a tale conclusione: ancorché autorevolmente sostenuta, la tesi in esame sembra disinteressarsi vuoi della littera legis, il cui significato appare inequivocabile, vuoi della stessa ratio sottesa alla disciplina in esame.

Non sembra revocabile in dubbio, infatti, come il richiamo esplicito all’art 2043 cc non possa considerarsi alla stregua di una sorta di “svista”: l’intento del legislatore appare, in realtà, chiaro ed è rappresentato dall’opportunità di far gravare l’onere probatorio non più sul sanitario, bensì sullo stesso paziente che assuma di aver subito il danno. Il rapporto medico-paziente, allora, sul versante civilistico, dall’entrata in vigore della “legge Balduzzi”, dovrà essere attratto nella sfera di disciplina della responsabilità aquiliana, anche per ciò che ne consegue in ordine ai danni risarcibili e al termine prescrizionale.

A tale conclusione si giunge, altresì, mediante un’ulteriore argomentazione, di ordine teleologico: non vi è dubbio, infatti, come la ratio dell’intervento legislativo risieda nella necessità di contrastare il cd. fenomeno della medicina difensiva. Il dilagare delle cause (finanche temerarie) intentate ai fini risarcitori doveva essere in un certo senso attenuato, perlomeno in relazione a quelle liti pretestuose, promosse anche in assenza di danni effettivi e solo con l’intento di beneficiare della favorevole disciplina sino ad allora vigente.

Ecco spiegato, allora, l’intervento del legislatore, il quale, sussumendo la responsabilità del sanitario nell’orbita gravitazionale di cui all’art. 2043 cc, tenta, anche mediante tale strumento rimediale, di contrastare siffatto dilagante fenomeno.

Da ultimo, per completezza espositiva, preme evidenziare come, sul tema specifico della responsabilità civile e penale del sanitario, la cd “riforma Gelli”, a seguito della recente pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale è, ora, ufficialmente, legge dello Stato (L. n. 24/2017).

Quest’ultima disposzione normativa, che porta con sé delle novità di assoluto rileivo in materia di sicurezza delle cure, persona assistita e responsabilità professionale degli esercenti le professioni sanitarie, entrerà in vigore il prossimo 1° aprile 2017, segnando tuttavia l’inizio di una attuazione “a tappe” della riforma che, in base alle scadenze fissate (per l’emanazione dei decreti e dei provvedimenti dettati dal provvedimento), richiederà diversi mesi affinché possa dispiegare appieno i suoi effetti. 

Volendo entrare, in estrema sintesi, nel merito di tali novelle legislative, preme segnalare come sia innanzitutto la responsabilità penale dei medici ad essere oggetto di modifica rispetto alla vigente normativa in materia: essa, infatti, dal 1 aprile 2017, sarà esclusa per imperizia laddove il sanitario riesca a dimostrare di essersi attenuto alle linee guida validate e pubblicate online dall’Istituto superiore di sanità.

Ma vi è di più: anche la responsabilità civile è stata oggetto di ridefinizione.

Da un lato, tutti coloro i quali operano a qualsiasi titolo presso una struttura sanitaria, risponderanno nei confronti dei pazienti ai sensi dell’articolo 2043 cc (responsabilità extracontrattuale); dall’altro, le strutture sanitarie, private o pubbliche, continueranno a rispondere per responsabilità contrattuale, con tuttò ciò che ne consengue in termini di inversione dell’onere probatorio, nesso eziologico tra condotta e danno e danni rarircibili.

 

Milano, 20 marzo 2017

Calabrò Arles

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