Il giudice dell’esecuzione non ha il potere di modificare la misura della diminuzione di pena eseguita in fase di cognizione in applicazione dell’art. 444 c.p.p.

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(Annullamento con rinvio)

 

Il fatto

 

Il Tribunale di Milano, in funzione di giudice dell’esecuzione, preso atto del dissenso espresso dal Pubblico ministero su una richiesta avanzata alla luce della sentenza della Corte Costituzionale n. 40 del 23 gennaio 2019, rideterminava il trattamento sanzionatorio inflitto per il reato di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 1 e art. 80 con sentenza di applicazione pena pervenendo allo stesso risultato finale di anni cinque di reclusione ed Euro 20.000,00 di multa, così calcolato: pena base ridotta da dieci a nove anni di reclusione, diminuita per le circostanze attenuanti generiche, ritenute in sede di cognizione prevalenti sulla circostanza aggravante dell’ingente quantità, a sette anni, ulteriormente ridotti a cinque anni ex art. 444 cod. proc. pen..

Secondo il Tribunale, ferma la legalità della pena pecuniaria, alla luce del mutamento dei parametri normativi di riferimento, conseguenti alla pronuncia del giudice costituzionale, era congruo, in applicazione dei criteri di cui agli artt. 133 e 133 bis c.p., ridurre la pena base senza però effettuare una diminuzione nella massima estensione per le circostanze attenuanti generiche e per la scelta del rito, in ragione dell’assenza specifici elementi valorizzabili a tal fine tenuto conto del dato ponderale della sostanza stupefacente e della personalità del condannato.

 

I motivi addotti nel ricorso per Cassazione

 

Ricorre l’istante, a mezzo del difensore, chiedendo l’annullamento dell’ordinanza impugnata, denunciando la violazione di legge e il vizio della motivazione per mancanza di correlazione tra il trattamento sanzionatorio e quello derivante dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 40 del 2019.

Si evidenziava a tal proposito come il giudice dell’esecuzione, pur riducendo di un anno la pena base determinata in sede cognitiva, avrebbe, comunque, determinato un trattamento sanzionatorio illegale calcolando in termini peggiorativi la misura delle riduzione applicata sia per il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche sia per la scelta del rito posto che l’una e l’altra non erano state applicate nella misura massima così come statuito nella sentenza irrevocabile.

 

Le valutazioni giuridiche formulate dalla Cassazione

 

Il ricorso veniva ritenuto fondato per le seguenti ragioni.

Si osservava a tal proposito come la normativa sugli stupefacenti, in particolare la disciplina sanzionatoria della fattispecie di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, sia stata oggetto di plurimi interventi, del legislatore e della Corte Costituzionale che, da ultimo, con la sentenza n. 40 del 23 gennaio 2019, aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 1, – nel testo ante L. n. 49 del 2006 dichiarata incostituzionale in parte qua – nella parte in cui prevede un minimo edittale di otto anziché sei anni di reclusione.

Orbene, dopo avere preso atto che la dichiarazione di incostituzionalità della norma, attinente il trattamento sanzionatorio, applicata dalla sentenza di condanna divenuta irrevocabile produce i suoi effetti anche sul giudicato dato che il giudice dell’esecuzione, nel caso in cui la pena inflitta non sia stata interamente espiata, in applicazione del disposto di cui alla L. n. 87 del 1953, art. 30, ha l’obbligo di non applicare le norme dichiarate incostituzionali e, per converso, di procedere, attraverso la procedura, del così detto incidente di esecuzione, alla rideterminazione della pena secondo la più favorevole normativa risultante dalla declaratoria di incostituzionalità così da rimuovere dall’universo giuridico tutti gli effetti pregiudizievoli derivanti da una sentenza penale di condanna fondata, sia pure in parte, sulla norma dichiarata incostituzionale salvo quelli irreversibili perché già compiuti e del tutto consumati. (Sez. Un., n. 18821 del 18.10.2013; Sez. Un. 29.5.2014), gli Ermellini evidenziavano come, coerentemente con gli esposti principi anche a seguito della pronuncia della sentenza n. 40/2019 della Corte costituzionale, che aveva indicato come conforme ai principi costituzionali il minimo edittale della fattispecie incriminatrice prevista dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73 riguardanti le droghe così dette pesanti di anni sei di reclusione anziché di anni otto, fosse divenuta necessaria la rideterminazione della pena inflitta, e non ancora interamente espiata, con sentenze, divenute irrevocabili, che avevano applicato la norma dichiarata incostituzionale fermo restando che, d’altra parte, la giurisprudenza di legittimità, occupandosi degli effetti prodotti dalla sentenza n. 32 del 2014 con cui la Corte costituzionale, dichiarando l’illegittimità costituzionale di alcune norme di legge, aveva modificato in melius il trattamento sanzionatorio dei reati concernenti le così dette droghe leggere, il cui minimo edittale da anni sei di reclusione era “tornato” ad anni due, aveva affermato il principio generale della illegalità della pena commisurata sulla base di una cornice edittale incostituzionale a prescindere dal fatto che la pena sia stata determinata in termini conformi alla cornice edittale costituzionale (Sez. Un. 26.2.2015; Sez. Un. 26.2.2015; Sez. Un. 26.2.2015) posto che la commisurazione della pena è finalizzata ad individuare, nell’ambito che il legislatore ha rimesso alla discrezionalità del giudice, la pena giusta in relazione ai parametri di cui all’art. 133 c.p., condizione necessaria per assicurare il rispetto del principio della personalità della responsabilità penale tenuto conto altresì del fatto che la più recente pronuncia costituzionale, pur lasciando inalterato il massimo edittale (anni venti di reclusione), aveva operato un intervento innovativo sul minimo edittale che era stato ritenuto costituzionale in misura ridotta di quasi un terzo (sei anni invece di otto) ed in tal modo aveva dichiarato la incostituzionalità di un parametro legale (il minimo edittale di anni otto di reclusione), individuandone un altro (anni sei di reclusione), diverso e più favorevole, conforme ai principi costituzionali.

Ebbene, tanto ciò basta, ad avviso dei giudici di piazza Cavour, per rendere necessaria la rideterminazione in melius della pena inflitta, da parte del giudice dell’esecuzione, tutte le volte in cui il giudice della cognizione ha commisurato la pena in misura prossima a quel minimo edittale, poi dichiarato incostituzionale dato che in tali casi è evidente che il giudizio, compiuto in sede di cognizione, parametrato su un dato normativo incostituzionale, non assicura la necessaria proporzione tra gravità del fatto e profilo soggettivo del reo, da una parte, e misura della pena, dall’altra.

Detto questo, quanto alla natura del giudizio riservato al giudice dell’esecuzione chiamato alla rideterminazione del trattamento sanzionatorio per adeguarlo alla cornice editale risultante dalla pronuncia di incostituzionalità, veniva precisato che non si tratta di una operazione di mera trasposizione matematica di quel giudizio (formulato in sede di cognizione) entro la nuova cornice edittale bensì di un nuovo giudizio commisurativo, da operare alla stregua dei principi di cui agli artt. 132 e 133 c.p. dal momento che il giudice dell’esecuzione non può esaurire il proprio compito delibativo confermando la pena già inflitta, perché rientrante nell’ambito sia della forbice punitiva della norma precedente sia di quella attualmente vigente, ma deve, al contrario, procedere ad una vera e propria rinnovazione in concreto della valutazione sanzionatoria secondo i criteri di cui agli artt. 132 e 133 c.p. con necessaria riduzione della pena, anche se non in misura predeterminata (cfr. Sez. 1, n. 2036 del 11/12/2019; Sez. 1, n. 51959 del 30/10/2019) fermo restando che, nel rideterminare la pena inflitta, costui non ha, comunque, il potere di modificare statuizioni coperte dal giudicato quali quelle afferenti al riconoscimento di elementi circostanziali attenuanti non attinti dalla decisione di legittimità, all’eventuale giudizio di bilanciamento ed alla misura delle relative diminuzioni di pena eseguite in fase di cognizione (Sez. 1, n. 49106 del 08/11/2019) mentre può, invece, in esito al nuovo giudizio sanzionatorio, confermare la pena già irrogata senza ridurla solo se la sentenza definitiva l’aveva quantificata in misura superiore al valore medio e prossimo al massimo rispetto alla cornice edittale previgente giacché, in tal caso, tenuto conto del mantenimento inalterato del massimo edittale, non sussiste quella condizione di sproporzione e di inadeguatezza della pena, rilevabile nei casi puniti con la reclusione nel minimo edittale pari ad otto anni, che ne impone un adeguamento al nuovo limite.

A fronte di ciò, si metteva in risalto il fatto come i medesimi principi siano applicabili ove la pena sia stata infitta con sentenza emessa ai sensi dell’art. 444 c.p.p.  ma con le seguenti precisazioni.

Si rilevava a tal proposito prima di tutto che, al fine di conseguire dal giudice dell’esecuzione la rinnovata commisurazione della pena inflitta con la sentenza irrevocabile di patteggiamento in adeguamento alla diversa previsione sanzionatoria per il delitto di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 1, divenuta vigente a seguito della pronuncia della Corte costituzionale n. 40 del 23/01/2019, le parti devono fare ricorso allo schema procedurale stabilito dallo art. 188 disp. att. c.p.p. e in tal senso depongono le indicazioni ermeneutiche offerte dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 37107 del 26/2/2015, con la quale è stato stabilito che, fermo restando il giudizio di responsabilità e di accertamento e comparazione delle circostanze, la pena applicata su richiesta delle parti per i delitti previsti dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73 in relazione alle droghe c.d. leggere, ossia incluse nelle tabelle II e IV del predetto decreto, con pronuncia divenuta irrevocabile prima della sentenza della Corte Costituzionale n. 32 del 2014, deve essere necessariamente rideterminata in sede di esecuzione mediante la “rinegoziazione” dell’accordo tra le parti, ratificato dal giudice dell’esecuzione, che viene investito di incidente di esecuzione, attivato dal condannato o dal pubblico ministero mentre, soltanto in caso di mancato accordo, detto giudice dovrà provvedere di sua iniziativa ad individuare la pena congrua in riferimento ai ripristinati limiti edittali di pena facendo ricorso ai criteri di cui agli artt. 132 e 133 cod. pen..

In relazione a quanto appena esposto, gli Ermellini osservavano come la soluzione così formulata valorizzi la natura irrevocabile della definizione pattizia del procedimento (sulla irreversibilità dell’accordo ex art. 444 c.p.p., comma 1, sez. 5, n. 44456 del 27/06/2012) e preservi la volontà delle parti che hanno proceduto di loro comune iniziativa all’individuazione del trattamento punitivo ritenuto congruo dal giudice della cognizione a norma dell’art. 444 c.p.p., comma 2, mantenendosi dunque inalterata la natura negoziata dell’accordo e demandandosi alle parti di rinnovarlo alla luce del mutato quadro normativo di riferimento, prevedendo un intervento decisorio del giudice dell’esecuzione di verifica della congruità e correttezza del calcolo, in analogia con gli stessi poteri conferitigli in sede di cognizione, e di autonoma determinazione soltanto in via suppletiva a fronte d’insuperabile dissenso tra le parti; in altri termini, è stato individuato, nella previsione dell’art. 188 disp. att. c.p.p., il modello di procedimento adattabile al diverso tema della riconduzione a legalità della pena detentiva per conformarla allo stato della legislazione penale, risultante da pronuncia di incostituzionalità della disposizione costituente il parametro normativo di commisurazione della pena in base al quale era stata commisurata la pena già definitiva, ma non ancora espiata.

Il giudice richiesto di recepire il rinnovato negoziato proveniente dalle parti può quindi esprimere un motivato dissenso sull’esito di tale pattuizione e procedere in via autonoma all’individuazione della nuova e più favorevole pena per il reato atteso che lo strumento processuale di cui all’art. 188 disp. att. c.p.p. consente, in primo luogo, di intervenire sulla pena illegale della sentenza di patteggiamento irrevocabile assicurando alle parti la possibilità di rinnovare l’accordo rispettando l’essenza stessa dell’istituto dell’applicazione della pena su richiesta atteso che, seguendo le regole procedurali dell’art. 188 disp. att. c.p.p. – in quanto compatibili – il condannato e il pubblico ministero possono sottoporre al giudice dell’esecuzione un nuovo accordo sulla pena, quantificata in base ai criteri edittali operanti a seguito della sentenza costituzionale n. 40 del 2019.

In secondo luogo, la rideterminazione della pena presuppone necessariamente una richiesta, proposta, normalmente, dal condannato e a cui il pubblico ministero può o meno aderire, ma non è escluso che l’iniziativa parta dal pubblico ministero anch’egli interessato all’eliminazione di una pena illegale in ragione delle sue funzioni istituzionali, come riconosciuto dalle Sezioni Unite (cfr. Sez. U, n. 42858 del 29/05/2014) visto che, in caso di mancato accordo per dissenso del pubblico ministero, l’art. 188 cit. prevede che il giudice dell’esecuzione possa comunque accogliere la richiesta, qualora ritenga il dissenso ingiustificato; allo stesso modo, se il pubblico ministero resta inerte, deve ritenersi che il giudice possa ugualmente accogliere la proposta del condannato, potendo valutarsi la sua inerzia come un implicito dissenso.

Il giudice dell’esecuzione, infine, ha il potere di valutare la congruità della pena richiesta, soluzione indirettamente confermata dalla Corte costituzionale che, proprio in relazione alla procedura di cui all’art. 188 cit., ha affermato che al giudice dell’esecuzione spetta non soltanto il potere-dovere di verificare in concreto la sussistenza dei presupposti per l’applicazione della disciplina del reato continuato, ma anche di valutare la “congruità” della pena indicata dalle parti ai fini di quanto previsto dall’art. 27 Cost., comma 3, (Corte Cost., sent. n. 37 del 1996).

Orbene, alla luce delle considerazioni sin qui esposte, i giudici di piazza Cavour evidenziavano come l’ordinanza impugnata avesse fatto buon governo degli illustrati principi sia laddove aveva rideterminato in termini più favorevoli al condannato la misura della pena base sia laddove aveva commisurato l’intervento sulla pena alla diminuzione correlata alle attenuanti generiche.

La pena base, difatti, è stata parametrata al nuovo limite edittale con la riduzione da dieci a nove anni di reclusione così come, parimenti, da una parte, la diminuzione per le attenuanti ex art. 62 bis c.p. è stata calcolata rispettando ragionevolmente la proporzione seguita dal giudice della cognizione alla luce dei criteri di cui all’art. 133 c.p., dall’altra, la sentenza divenuta irrevocabile ha ridotto la pena base in misura inferiore alla estensione massima di un terzo (da dieci anni a sette anni e sei mesi, quindi superiore di dieci mesi alla soglia minima di sei anni e otto mesi mentre, l’ordinanza impugnata ha applicato una riduzione inferiore a quella massima consentita diminuendo la nuova pena base da nove a sette anni (superiore di un anno alla soglia minima di sei anni).

Veniva invece stimata erronea la scelta del Tribunale di applicare una misura della diminuzione ex art. 444 c.p.p. diversa e più sfavorevole rispetto a quella di un terzo concordata dalle parti e ratificata dal giudice della cognizione con statuizione non toccata neanche indirettamente dalla pronuncia di incostituzionalità e, per tale ragione, coperta dal giudicato in ragione della sua natura esclusivamente processuale.

La diminuzione di cui all’art. 444 c.p.p., nonostante non sia stabilita in misura fissa ma sia rimessa alla discrezionalità delle parti che, sia pure all’interno di un range predefinito fino a un terzo, possono diversamente modularla nell’osservanza del limite di anni due o cinque di reclusione con maggiori benefici nel primo caso previsti dall’art. 445 cod. proc. pen., invero, non è in alcun modo equiparabile alle circostanze attenuanti generiche, per quanto anche esse possono comportare la diminuzione della pena fino ad un terzo con un meccanismo in apparenza simile atteso che soltanto la diminuzione di cui all’art. 444 c.p.p. ha un carattere premiale inscindibilmente legato alla scelta processuale compiuta dall’imputato mentre, una volta perfezionatosi l’accordo formale sul rito, l’unico potere spettante al giudice (cui è riservata la verifica della correttezza della cornice giuridica dei fatti) sul merito della richiesta attiene alla valutazione della congruità della pena finale oggetto della richiesta; al contrario, le “circostanze” in senso tecnico, anche quando non hanno un contenuto oggetto di predeterminazione legale astratta e quindi difettano di tipicità, come quelle previste dall’art. 62 bis c.p., non sono concedibili ad arbitrio del giudice il quale deve darne sempre adeguata giustificazione (cfr. Sez. 6, n. 5542 del 02/04/1996, e più di recente, ex plurimis, Sez. 1, n. 46568, 18/05/2017, che ha ribadito il principio per cui, “in tema di attenuanti generiche, la meritevolezza dell’adeguamento della pena, in considerazione di peculiari e non codificabili connotazioni del fatto o del soggetto, non può mai essere data per presunta, ma necessita di apposita motivazione dalla quale emergano, in positivo, gli elementi che sono stati ritenuti atti a giustificare la mitigazione del trattamento sanzionatorio”).

In particolare, veniva altresì rilevato come la diminuzione ex art. 444 c.p.p. si configuri a tal punto come effetto tipico del rito previsto dalla legge come obbligatorio e non facoltativó che il giudice ha l’obbligo di rigettare la richiesta di patteggiamento mancante del computo della diminuzione “fino a un terzo” della pena (Sez. 3, n. 9888 del 14/01/2009; Sez. 4, n. 18669 del 31/01/2013).

A fronte di ciò, la natura negoziale del patteggiamento e quella processuale della diminuente prevista dall’art. 444 c.p.p., a loro volta, non vengono meno neanche in fase di esecuzione dove permane l’esigenza di rispettare la volontà delle parti che ha condizionato l’esito del giudizio di cognizione e da qui l’esigenza della disciplina dettata dall’art. 188 disp. att. c.p.p. per l’applicazione della continuazione in fase di esecuzione tra reati giudicati con più sentenze di applicazione della pena su richiesta delle parti pronunciate in procedimenti distinti.

In questa eventualità, osservava il Supremo Consesso, l’imputato e il pubblico ministero possono chiedere l’applicazione della disciplina del concorso formale o del reato continuato solo con un nuovo accordo che rispetti il limite di pena di due o cinque anni al di sotto del quale il rito è consentito fermo restando che, in coerenza con la natura negoziale del patteggiamento, è possibile incidere sul giudicato solo qualora intervenga tra le parti un nuovo accordo che contempli tutti i reati autonomamente definiti su richiesta delle parti in modo tale che si garantisca il rispetto del beneficio processuale senza pregiudicare le scelte processuali sul rito effettuate in fase di cognizione e l’accordo, così raggiunto, sostituisce quelli precedenti anche ai fini del termine di estinzione previsto dall’art. 445 c.p.p., comma 2, che, a mente dell’art. 137 disp. att. c.p.p., comma 1, decorre nuovamente per tutti i reati dalla data in cui è divenuta irrevocabile l’ultima sentenza (Sez. 1, n. 38446 del 16/09/2008).

La Suprema Corte, di conseguenza, alla luce delle considerazioni sin qui esposte, affermava il principio secondo cui il giudice dell’esecuzione, nel rideterminare la pena inflitta con condanna anteriormente divenuta irrevocabile per conformarla alla sentenza della Corte Costituzionale n. 40 del 23 gennaio 2019, non ha il potere di modificare la misura della diminuzione di pena eseguita in fase di cognizione in applicazione dell’art. 444 c.p.p..

L’ordinanza impugnata veniva, conseguentemente, annullata con rinvio per nuovo giudizio al Tribunale di Milano.

 

Conclusioni

 

La decisione in questione è assai interessante in quanto è ivi stabilito che il giudice dell’esecuzione, nel rideterminare la pena inflitta con condanna anteriormente divenuta irrevocabile per conformarla alla sentenza della Corte Costituzionale n. 40 del 23 gennaio 2019, non ha il potere di modificare la misura della diminuzione di pena eseguita in fase di cognizione in applicazione dell’art. 444 c.p.p..

Pertanto, nel caso di pena comminata con condanna passata in giudicato prima dell’emissione della sentenza n. 40 del 2019 con cui la Consulta ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 73, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza), nella parte in cui in cui prevede la pena minima edittale della reclusione nella misura di otto anni anziché di sei anni, il giudice dell’esecuzione non ha il potere di modificare la misura della diminuzione di pena eseguita in fase di cognizione in applicazione dell’art. 444 c.p.p..

Questa pronuncia, pertanto, deve essere presa nella dovuta considerazione qualora si voglia richiedere la determinazione della pena in sede di esecuzione al fine di evitare una strategia difensiva che ben difficilmente potrebbe trovare accoglimento in sede giudiziale.

Il giudizio in ordine a quanto statuito in siffatta sentenza, proprio perché fa chiarezza su tale tematica procedurale, dunque, non può che essere positivo.

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Avv. Di Tullio D’Elisiis Antonio

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