Il divieto di restituzione fissato dall’art. 324, c. 7, c.p.p. trova applicazione anche al di fuori del procedimento di riesame

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(Ricorso rigettato)

(Riferimento normativo: Cod. proc. pen., art. 324, c. 7)

Il fatto

Il Tribunale di Foggia aveva confermato il decreto del Pubblico Ministero che a sua volta aveva rigettato la richiesta svolta dal liquidatore di una società in liquidazione, soggetto terzo rispetto al sequestro probatorio disposto a carico di un indagato per il reato di cui al D.Lgs. n. 504 del 1995, art. 40, comma 1, lett. b), per sottrazione al pagamento delle accise, di restituzione dei beni attinti dalla misura, ovverosia del gasolio ad uso agricolo e di sette cisterne interrate che lo contenevano, oltre alla colonnina con pistola erogatrice ed alla botola con leve dei due quadri elettrici.

Il Tribunale, in particolare, aveva ritenuto che l’assoggettabilità di detti beni a confisca obbligatoria precludesse, trattandosi di un principio generale applicabile non solo in sede di riesame ma altresì nell’ambito del procedimento ex art. 263 c.p.p., l’accoglimento della richiesta non potendo l’esaurimento delle finalità istruttorie ed il conseguente venir meno del vincolo di indisponibilità sulla res pregiudicare l’attuazione della misura di sicurezza.

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I motivi addotti nel ricorso per Cassazione

 

Avverso il suddetto provvedimento la società istante proponeva, per il tramite del proprio difensore, ricorso per Cassazione articolando un unico motivo con il quale si contestava in primo luogo la mancanza di motivazione sulla persistenza di esigenze probatorie che giustificassero il mantenimento del vincolo nonché si deduceva in ogni caso il vizio di violazione di legge riferito agli artt. 262 e 263 c.p.p., e art. 324 c.p.p., comma 7, sul rilievo che, essendo venute meno le specifiche esigenze probatorie che giustificavano l’apposizione del vincolo per essere state accertate dai finanzieri, sulla base del bilancio societario, anch’esso oggetto di sequestro, deficienze di carburante inferiori alla soglia di rilevanza penale ed occorrendo comunque procedere in concreto alla liquidazione della società, nessuna rilevanza poteva spiegare nel caso di specie la natura obbligatoria della confisca D.Lgs. n. 504 del 1995, ex art. 44, in assenza di un provvedimento di sequestro preventivo invocandosi al riguardo la sentenza di questa Corte n. 58050/2017 secondo la quale è inapplicabile al sequestro probatorio la disposizione dettata dall’art. 324 c.p.p., comma 7 per il sequestro preventivo, richiamata dall’art. 355 c.p.p., solo in quanto compatibile atteso che la disposizione suddetta prevede il mantenimento della confisca obbligatoria nell’ipotesi di revoca del sequestro preventivo.

Le valutazioni giuridiche formulate dalla Cassazione

Si evidenziava prima di tutto che la contestazione preliminare relativa all’assunta cessazione delle esigenze probatorie sottese alla misura in esame, di cui peraltro si lamentava l’omessa pronuncia da parte del Tribunale, dovesse ritenersi definitivamente superata dalla recente sentenza pronunciata dalle Sezioni Unite che ha definitivamente chiarito che il divieto di restituzione previsto dall’art. 324 c.p.p., comma 7, per i beni soggetti a confisca obbligatoria opera, oltre che con riguardo al sequestro preventivo, anche in caso di annullamento del decreto di sequestro probatorio (Sez. U, n. 40847 del 30/05/2019).

Tal che se ne faceva conseguire che i beni attinti dalla misura non potessero in nessun caso essere restituiti all’interessato neppure quando fossero venute meno le esigenze probatorie per le quali era stato disposto il sequestro con finalità di ricerca della prova.

Dal momento tuttavia che la stessa pronuncia citata affermava l’ulteriore principio secondo cui il divieto in questione riguarda soltanto le cose soggette a confisca obbligatoria ai sensi dell’art. 240 c.p., comma 2, restando escluse quelle soggette a confisca obbligatoria ai sensi di previsioni speciali, salvo che tali previsioni richiamino il predetto art. 240 c.p., comma 2 o, comunque, si riferiscano al prezzo del reato o a cose la fabbricazione, l’uso, il porto, la detenzione o l’alienazione delle quali costituisce reato, si trattava per la Corte di valutare se tale divieto sia operante nella specifica ipotesi di confisca obbligatoria disposta ai sensi del D.Lgs. n. 504 del 1995, art. 44 costituente norma speciale rispetto alla previsione generale contenuta nell’art. 240 c.p., comma 2.
Orbene, una volta fatto presente che, secondo quanto previsto dal D.Lgs. n. 504 del 1995, art. 44, anche a seguito delle modifiche apportate dal D.L. 26 ottobre 2019, n. 124, “i prodotti, le materie prime ed i mezzi comunque utilizzati per commettere le violazioni di cui agli artt. 40, 41 e 43 sono soggetti a confisca secondo le disposizioni legislative vigenti in materia doganale”, si notava che l’equivocità ingenerata dal termine “prodotti” con la formulazione dell’art. 240 c.p., comma 1 che disciplina la confisca facoltativa, avente ad oggetto le cose che servirono o furono destinate a commettere il reato e le cose che ne sono il “prodotto” o il profitto fosse, a ben guardare, secondo la Suprema Corte, soltanto apparente risultando, ad un’attenta lettura, che il termine impiegato dal legislatore del Testo Unico in materia di imposte sulla produzione e sui consumi non si riferisce al prodotto del reato, inteso come il risultato empirico dell’attività delittuosa, cioè le cose create, trasformate, adulterate o acquisite mediante il reato e, dunque, in altri termini, “il frutto che il colpevole ottiene direttamente dalla sua attività illecita” (Sez. U, n. 9149 del 03/07/1996 – dep. 17/10/1996)  ma è invece riferito al termine secondo l’accezione lessicale corrente come attesta lo stesso uso del plurale ovverosia ai prodotti petroliferi sottoposti ad accisa.

Il gasolio agricolo agevolato destinato ad uso diverso da quello consentito, oggetto del disposto sequestro, fuoriesce pertanto dall’ambito della confisca facoltativa e rientra invece in quella obbligatoria tra i beni “il cui uso costituisce reato” ricompresi nella disciplina di cui all’art. 240 c.p., comma 2, n. 2) (Sez. 3, n. 40532 del 12/10/2007) così come la stessa sorte seguono le cisterne interrate ed i relativi dispositivi trattandosi delle cose servite per attuare il mutamento di destinazione del prodotto in tutto o in parte esente dall’accisa (Sez. U, n. 14287 del 11/04/2006 – dep. 21/04/2006; Sez. 3, n. 18843 del 24/01/2019).

Del resto, sempre secondo gli Ermellini, il rinvio testuale da parte dell’art. 44. T.U. alla confisca secondo le norme vigenti in materia doganale comporta la conseguente applicabilità del D.P.R. 23 gennaio 1973, n. 43, art. 301, come sostituito dalla L. 30 dicembre 1991, n. 413, art. 11, comma 19, secondo cui la confisca deve essere sempre ordinata anche in assenza di una pronuncia di condanna (Sez. 3, n. 22001 del 13/03/2018).

Tal che se ne faceva conseguire che, malgrado la finalità immanente al sequestro probatorio di mantenere immutate le caratteristiche dei beni attinti per il tempo necessario all’accertamento dei fatti, la disposizione di cui all’art. 324 c.p.p., comma 7, prevale comunque sulle esigenze lato sensu istruttorie trovando la ratio della previsione normativa giustificazione nella finalità di impedire che, rientrando l’autore dell’illecito nella disponibilità della res, possa nuovamente commettere il reato rispetto al quale l’ablazione della medesima costituisce, nella valutazione discrezionale del legislatore, lo strumento più idoneo per ripristinare l’ordine giuridico violato ed attuare la potestà punitiva dello Stato attesa l’indubbia natura sanzionatoria della confisca de qua e ciò indipendentemente dalle ragioni che abbiano originariamente determinato l’adozione della misura. Discende del resto da tale finalità il principio in forza del quale cui il divieto di restituzione fissato dall’art. 324 c.p.p., comma 7, debba trovare applicazione anche al di fuori del procedimento di riesame, pur in mancanza di una espressa previsione in tal senso, non potendo i beni di cui all’art. 240 c.p., comma 2, rientrare nella disponibilità di colui che vanti su di essi un diritto reale o un potere di fatto perché oggetto della misura di sicurezza obbligatoria in conseguenza della loro particolare natura.

Il ricorso veniva pertanto rigettato nonché si condannava il ricorrente, a norma dell’art. 616 c.p.p., al pagamento delle spese processuali.

Conclusioni

La decisione in esame è assai interessante nella parte in cui è ivi postulato che il divieto di restituzione fissato dall’art. 324 c.p.p., comma 7 (“Si applicano le disposizioni dell’articolo 309, commi 9, 9-bis e 10. La revoca del provvedimento di sequestro può essere parziale e non può essere disposta nei casi indicati nell’articolo 240 comma 2 del codice penale”), debba trovare applicazione anche al di fuori del procedimento di riesame, pur in mancanza di una espressa previsione in tal senso, non potendo i beni di cui all’art. 240 c.p., comma 2, rientrare nella disponibilità di colui che vanti su di essi un diritto reale o un potere di fatto perché oggetto della misura di sicurezza obbligatoria in conseguenza della loro particolare natura.

Orbene, pur condividendosi in linea di principio questo approdo ermeneutico in quanto, come ravvisato dalla stessa Cassazione in questa pronuncia, aderente alla ratio di questa previsione normativa ossia impedire che, rientrando l’autore dell’illecito nella disponibilità della res, costui possa nuovamente commettere il reato, sarebbe però opportuno, ad avviso di chi scrive, che su tale questione intervenga il legislatore per colmare tale vuoto normativo: solo in tal modo, difatti, si eviterebbe il pericolo che su tale tematica possano insorgere contrasti giurisprudenziali.

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Sentenza collegata

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Avv. Di Tullio D’Elisiis Antonio

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