Il diritto di impugnazione può essere esercitato da ciascun difensore

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La Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza in commento, ha affermato come il diritto d’impugnazione possa “essere esercitato autonomamente da ciascun difensore di uno stesso imputato, con la proposizione di autonomi atti”. 

Nel caso di specie, il Supremo Consesso ha cassato il provvedimento emesso dal Tribunale c.d. della Libertà posto che i giudici de libertate avevano erroneamente qualificato l’atto di impugnazione del co-difensore, espressamente indicato quale “appello ex art. 310 c.p.p.”, come “motivi aggiunti” e dunque, li aveva “dichiarati inammissibili per la novità delle questioni formulate rispetto all’atto di appello”. 

I Giudici di “Piazza Cavour” sono pervenuti a siffatta conclusione decisoria posto che, salvo il caso in cui siano decorsi i termini per impugnare “e non sia stato comunque emesso il provvedimento di merito a seguito dell’appello proposto da uno dei difensore”,:

  1. “l’impugnazione è proponibile autonomamente dai due distinti difensori che l’art. 96 cod. proc. pen. consente all’imputato di nominare”;

  2. ciascuno dei difensori “può proporre diversi ed autonomi motivi di appello, senza che la proposizione del primo appello abbia effetti preclusivi in ordine alla possibilità di deduzione di autonomi e diversi motivi da parte dell’altro difensore”. 

Ebbene, tale pronuncia è pienamente condivisibile. 

Tale approccio ermeneutico, difatti, ribadisce quell’orientamento nomofilattico secondo cui l’impugnazione può essere proposta “dai due distinti difensori che l’art. 96 c.p.p. consente all’imputato di nominare”[1] posto che la nomina di due difensori “costituisce concreto esercizio del diritto di difesa che può essere garantito solo se entrambi siano posti in grado di esercitare il loro mandato”[2]. 

Inoltre, tale filone interpretativo è preferibile in quanto consono al dettato comunitario. 

Infatti, com’è noto, l’art. 2 del protocollo VII della CEDU, seppur per il giudizio di cognizione e non quello cautelare, riconosce all’imputato  “il diritto di sottoporre ad un tribunale della giurisdizione superiore la dichiarazione di colpa o la condanna”. 

Difatti, sebbene l’art. 6 della CEDU non imponga “agli Stati contraenti di istituire Corti d’appello o di cassazione” [3], tuttavia, se “tali giurisdizioni esistono”[4], le garanzie dell’art. 6 ovvero quelle inerenti il giusto processo, “devono essere rispettate”[5]. 

Del resto, l’art. 13 della CEDU, dal canto, riconosce per tutti procedimenti, qualora i diritti e le libertà riconosciuti nella presente Convenzione siano stati violati, il “diritto di presentare un ricorso avanti ad una magistratura nazionale”. 

Da ciò consegue che limitare la possibilità di ricorrere soltanto ad uno dei difensori, violerebbe questo diritto dato che, affinchè possa aversi un ricorso effettivo, è necessario che l’autorità giudiziaria investita del gravame tratti il merito della doglianza e offra il rimedio adeguato [6]. 

L’esercizio di questa pretesa giuridica, infatti, non deve essere ostacolata “in maniera ingiustificata da azioni od omissioni delle autorità dello Stato convenuto” [7]. 

Tra l’altro, non vi sono particolari problemi giuridico – dogmatici affinchè tale diritto possa essere riconosciuto anche in sede cautelare. 

In effetti, l’art. 5, co. IV, della CEDU, intitolata diritto “alla libertà e alla sicurezza”, com’è notorio, statuisce che ogni “persona vittima di arresto o di detenzione eseguiti in violazione alle disposizioni di questo articolo ha diritto ad un indennizzo”.

Tale regola giuridica, quindi, è applicabile al detenuto sottoposto a provvedimento cautelare. 

A sostegno di questo assunto, per giunta, v’è una pronuncia emessa dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo con la quale è stato affermato che:

  1.  l’ art. 5, par. 4, della Convenzione “si riferisce solo alle vie di ricorso che devono essere disponibili durante la detenzione di un individuo, affinché questi possa ottenere relativamente alla legittimità della sua detenzione un controllo giudiziario rapido in grado di comportare, se del caso, la sua remissione in libertà” [8];

  2.   l’ art. 5, par. 4, della Convenzione, invece, non riguarda le “vie di ricorso diverse che possano consentire di verificare la legittimità di una detenzione già conclusa” [9].

 

Tra l’altro, anche sotto il diverso aspetto inerente il significato da conferire alla locuzione “trattamenti inumani o degradanti” adottato nell’art. 3 della CEDU, la Corte Europea ha affermato che la norma de qua “impone allo Stato di accertarsi che ogni persona reclusa sia detenuta in condizioni compatibili con il rispetto della dignità umana, che le modalità di esecuzione del provvedimento non provochino all’interessato uno sconforto e un malessere di intensità tale da eccedere l’inevitabile livello di sofferenza legato alla detenzione e che, tenuto conto delle necessità pratiche della reclusione, la salute e il benessere del detenuto siano assicurati in modo adeguato, in particolare attraverso la somministrazione delle necessarie cure mediche”[10]. 

Quindi, questa norma giuridica non compie distinzione alcuna sullo status di detenzione. 

Infine, ad ulteriore conferma della fondatezza di tale approdo ermeneutico, v’è l’ulteriore considerazione secondo la quale, limitare il diritto di impugnazione a solo uno dei difensori, rappresenterebbe una chiara violazione del diritto di difesa. 

Invero, l’art. 6, co. III, lett. c), CEDU, come è noto, conferisce all’accusato il diritto di farsi assistere da un difensore di propria scelta e dunque, anche quello di farsi rappresentare da più difensori, qualora lo stesso indagato reputi ciò opportuno e ovviamente tale possibilità sia prevista dal diritto domestico. 

Il fatto che tale regola non sia una mera affermazione di principio, inoltre, è evidente sulla scorta di quell’orientamento ermeneutico comunitario secondo cui lo “Stato ha l’obbligo di rendere effettivo il diritto all’assistenza di un difensore, anche nominato d’ufficio, nel processo penale” [11]. 

Di talché ne consegue che una drastica limitazione del diritto di difesa nei termini suesposti, indubbiamente determina una chiara violazione del precetto normativo previsto dall’art. 6 della CEDU. 

Infine, tale orientamento nomofilattico è sicuramente conforme anche al dettato costituzionale posto che l’art. 111, co. VII, Cost. conferisce espressamente a chiunque, il diritto di ricorrere per Cassazione per violazione di legge, contro “le sentenze e contro i provvedimenti sulla libertà personale”. 

[1] Cass. pen., sez. V, 5/06/96, n. 2804. 

[2] Cass. pen., sez. III, 11/04/00, n. 6615. 

[3] Corte EDU, 23/10/96, n. 21920. 

[4] Ibidem. 

[5] Ibidem. 

[6] Corte EDU, sez. III, 2/02/06, n. 15535. In senso conforme Corte europea dir. uomo  sez. grande chambre, 26/10/00, n. 30210: L’art. 13 della Convenzione esige “un ricorso interno che renda possibile l’esame di una doglianza sostenibile fondata sulla Convenzione e offra una riparazione adeguata”. 

[7] C. EDU, sez. grande chambre, 9/10/03, n. 48321.                          

 [8] ibidem. 

[9] Ibidem. 

[10] C. EDU, sez. grande chambre, 26/10/00, n. 30210. 

[11] C. EDU, sez. II, 7/10/08, n. 35228.

Avv. Di Tullio D’Elisiis Antonio

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