Il contratto a tempo determinato: prima e dopo la c.d. Riforma Fornero (L. 92/2012)

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Sommario: 1. Definizioni e nozioni generali. – 2. Quadro normativo di riferimento. – 2.1. Il Collegato Lavoro ed il contratto a termine. – 3. Requisiti, forme durata del contratto. – 3.1. Il recesso ante tempus. – 4. Le novità della L. 92/2012.

 

Il contratto di lavoro a tempo determinato è una delle tipologie contrattuali che la legge n. 92 del 2012, (riforma Fornero) entrata in vigore nel nostro ordinamento in data 18 luglio 2012, è andata a “toccare” con alcune modificazioni che meritano un approfondimento.

Il 3 luglio 2012 sul supplemento ordinario alla Gazzetta Ufficiale n. 153, è stata pubblicata la legge 29 giugno 2012 n. 92.

Ma prima di entrare nel “merito” delle nuove disposizioni occorre fare un breve, ma doveroso, excursus normativo nell’ambito di cui trattiamo.

 

 

1. Definizioni e nozioni generali

 

Il contratto a termine è una tipologia contrattuale ove viene indicata la durata e la data del termine dello stesso rapporto di lavoro; viene stipulato tra il prestatore ed il datore di lavoro a fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo (come previsto dal decreto n. 368/2001 di cui si parlerà nel prosieguo) riferite anche alla ordinaria attività del datore di lavoro.

Come giurisprudenza sul tema ha precisato (1) l’apposizione di un termine al contratto di lavoro, consentita dall’art. 1 del d.lgs. 6 settembre 2001, n. 368, a fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo, che devono risultare specificate, a pena di inefficacia, in apposito atto scritto, impone al datore di lavoro l’onere di indicare in modo circostanziato e puntuale, al fine di assicurare la trasparenza e la veridicità di tali ragioni, nonché l’immodificabilità delle stesse nel corso del rapporto, le circostanze che contraddistinguono una particolare attività e che rendono conforme alle esigenze del datore di lavoro, nell’ambito di un determinato contesto aziendale, la prestazione a tempo determinato, sì da rendere evidente la specifica connessione fra la durata solo temporanea della prestazione e le esigenze produttive e organizzative che la stessa sia chiamata a realizzare e la utilizzazione del lavoratore assunto esclusivamente nell’ambito della specifica ragione indicata e in stretto collegamento con la stessa.

Spetta al giudice di merito accertare, con valutazione che, se correttamente motivata ed esente da vizi giuridici, resta esente dal sindacato di legittimità, la sussistenza di tali presupposti, valutando ogni elemento, ritualmente acquisito al processo, idoneo a dar riscontro alle ragioni specificatamente indicate con atto scritto ai fini dell’assunzione a termine, ivi compresi gli accordi collettivi intervenuti tra le parti sociali e richiamati nel contratto costitutivo del rapporto.

 

 

2. Quadro normativo di riferimento

 

La materia del contratto a tempo determinato ha avuto una evoluzione normativa abbastanza travagliata, in quanto la disciplina, all’origine, era contenuta nella legge n. 230 del 1962, poi innovata dal decreto legislativo n. 368 del 2001.

Altre modifiche nell’ambito del contratto a termine sono intervenute da parte del c.d. Collegato Lavoro, ovvero la legge n. 183 del 2010 (in vigore dal 24 novembre 2010) e dalla c.d. Riforma Fornero, ovvero la legge n. 92 del 2012.

Andiamo con ordine lasciando la trattazione delle novità della riforma Fornero all’ultimo paragrafo al fine di agevolare una migliore lettura.

L’ipotesi di contratto a termine contemplata dall’art. 1 c. 2 lett. cdella L. 230/62, si riferisce a opere e servizi che, pur potendo consistere in un’attività qualitativamente identica a quella ordinariamente esercitata dall’impresa, ne determinano un incremento particolarmente rilevante, in relazione a eventi isolati ed eccezionali, tali da non poter essere affrontati con la normale struttura organizzativa e produttiva, per quanto efficiente e adeguatamente programmata (2).

Costituisce presupposto della legittimità del termine finale apposto al contratto di lavoro ai sensi dell’art. 1, lettera c), della L. 230/62, l’esistenza di una stretta correlazione tra l’assunzione e le dedotte esigenze di carattere straordinario, fermo restando il potere dell’imprenditore di adibire il neo-assunto a mansioni diverse con la tecnica del c.d. scorrimento (3).

Come giurisprudenza recente sul tema ha precisato (4) nel sistema normativo introdotto dal d.lgs. n. 368/2001, l’assunzione con contratto di lavoro a tempo determinato è consentita a fronte di ragioni di carattere tecnico, organizzativo, produttivo o sostitutivo e postula, al fine di non cadere nella genericità e pena la conversione in rapporto di lavoro a tempo indeterminato, l’obbligo del datore di lavoro di adottare l’atto scritto e di specificare in esso le ragioni in concreto adottate.

Da segnalare nell’argomento che qui ci occupa è una sentenza della Corte di Giustizia (5) secondo cui “la clausola 5, punto 1, dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, concluso il 18 marzo 1999, che figura in allegato alla direttiva del Consiglio 28 giugno 1999, 1999/70/CE, relativa all’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato, dev’essere interpretata nel senso che la nozione di “stretta connessione oggettiva con un precedente contratto di lavoro a tempo indeterminato con il medesimo datore di lavoro”, di cui all’art. 14, n. 3, della legge sul lavoro a tempo parziale e sui contratti di lavoro a tempo determinato (Gesetz über Teilzeitarbeit und befristete Arbeitsverträge), del 21 dicembre 2000, dev’essere applicato alle fattispecie in cui un contratto a tempo determinato non sia stato immediatamente preceduto da un contratto a tempo indeterminato concluso con lo stesso datore di lavoro e un intervallo di vari anni separi tali contratti, qualora, per tutto il corso di tale periodo, il rapporto di lavoro iniziale sia stato proseguito per la stessa attività e con lo stesso datore di lavoro mediante una successione ininterrotta di contratti a tempo determinato. Spetta al giudice del rinvio interpretare le pertinenti disposizioni di diritto nazionale in modo quanto più possibile conforme a detta clausola 5, punto 1”.

Ancora la clausola 4, punto 1, dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, che figura nell’allegato alla direttiva 1999/70, è incondizionata e sufficientemente precisa da poter essere invocata nei confronti dello Stato membro da dipendenti pubblici avanti il giudice nazionale perché sia loro riconosciuto il diritto a un aumento stipendiale triennale già attribuito ai lavoratori a tempo indeterminato e ciò per il periodo compreso tra la scadenza del termine per la ricezione della direttiva e l’entrata in vigore della norma nazionale (non retroattiva) che recepisce la direttiva stessa, fatti salvi gli effetti delle norme nazionali in tema di prescrizione (6) .

 

2.1. Il Collegato Lavoro ed il contratto a termine

 

La normativa di riferimento in tale ambito è l’articolo 32 del Collegato lavoro, ovvero la legge n. 183/2010 il quale ha introdotto le seguenti novità, che così possono essere riassunte:

–         Comma 3, lett. a) Controversie sulla legittimità dell’apposizione del termine. Estende l’applicazione delle disposizioni di cui all’art. 6 della legge 15 luglio 1966, n. 604, come modificato dal comma 1 dello stesso art. tutti i licenziamenti che presuppongano controversie aventi ad oggetto sia la corretta qualificazione del rapporto di lavoro sia la legittimità dell’apposizione del termine al contratto.

–         Comma 3, lett. d) Azione di nullità del termine apposto. Applicazione delle medesime disposizioni di cui sopra anche all’azione di nullità del termine apposto in violazione delle disposizioni di cui agli artt. 1, 2 (disciplina aggiuntiva per il trasporto aereo ed i servizi aeroportuali) e 4 del D.lgs 368/2001, con termine decorrente dalla scadenza del medesimo.

–         Comma 4, lett. a) Contratti di lavoro a termine in corso di esecuzione alla data di entrata in vigore della legge di riforma. Estensione della disciplina della legge sui licenziamenti individuali, così come novellata, ai contratti di lavoro a termine stipulati ai sensi degli artt. 1, 2 e 4 del D.lgs 368/2001 in corso di esecuzione alla data di entrata in vigore della legge di riforma.

–         Comma 4, lett. b) Contratti di lavoro a termine già conclusi e, eventualmente, stipulati in applicazione di disposizioni di legge previgenti. Estensione della disciplina della legge sui licenziamenti individuali, così come novellata, ai contratti di lavoro a termine stipulati anche in applicazione di disposizioni di legge previgenti al decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368, già conclusi alla data di entrata in vigore del Collegato e con decorrenza dalle medesima.

–         Comma 5 Indennità onnicomprensiva. Nei casi di conversione del contratto a tempo determinato, il giudice condanna il datore di lavoro al solo risarcimento del lavoratore stabilendo un’indennità onnicomprensiva nella misura compresa tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nell’articolo 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604.

–         Comma 6 Ipotesi di riduzione dell’indennità. In presenza di contratti o accordi collettivi nazionali, territoriali o aziendali stipulati con le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, che prevedano l’assunzione, anche a tempo indeterminato, di lavoratori già occupati con contratto a termine nell’ambito di specifiche graduatorie, il limite massimo dell’indennità fissata dal comma 5 è ridotto della metà.

–         Comma 7 Disciplina di cui ai commi 5 e 6 e giudizi pendenti. Quanto statuito nei due commi precedenti trova applicazione rispetto a tutti i giudizi, compresi quelli pendenti alla data di entrata in vigore della riforma, con la specificazione per cui, in riferimento a questi ultimi, e ove necessario, ai soli fini della determinazione della indennità di cui ai commi 5 e 6, il giudice fissa alle parti un termine per l’eventuale integrazione della domanda e delle relative eccezioni ed esercita i poteri istruttori ai sensi dell’art. 421 del codice di procedura civile.

Numerose sono state, subito dopo l’approvazione e l’entrata in vigore della citata normativa le pronunce giurisprudenziali, che, pertanto, meritano di essere segnalate.

L’intento manifestato dal legislatore è chiaro e il comma 5 (dell’art. 32 ndr) non sembra offrire difficoltà interpretative particolari.

Lo scopo e l’effetto della disposizione sono di agevole individuazione: in tutti i casi in cui il giudice dichiari la conversione del rapporto a termine in rapporto a tempo indeterminato, per il periodo compreso fra l’interruzione del rapporto stesso (alla scadenza del termine dichiaro illegittimo) e la sentenza dichiarativa della nullità del termine, è dovuta al lavoratore, a titolo di risarcimento, soltanto un’indennità omnicomprensiva, dunque, esaustiva di qualsiasi pretesa risarcitoria o retributiva, da un minimo di 2,5 a un massimo di 12 mensilità della retribuzione globale di fatto in godimento all’epoca di risoluzione del contratto.

La predeterminazione del risarcimento da parte del legislatore in una somma omnicomprensiva rende irrilevante che il lavoratore abbia messo in mora il datore di lavoro, offrendogli le proprie prestazioni, poiché il danno è presunto e il risarcimento prestabilito, sia pure in misura graduabile fra un minimo e un massimo, secondo i criteri dettati dall’art. 8 della l. n. 604/1966. (Cfr. Corte app. Perugia 3 maggio 2011,  in Lav. nella giur. 2011, 849).

Ancora secondo la giurisprudenza di merito in applicazione della disposizione del Collegato lavoro, l’unica conseguenza in caso di nullità del termine per la totale mancanza delle ragioni tecniche, organizzative, produttive e sostitutive previste dall’art. 1 del d.lgs. n. 368/2001, è la condanna della società al pagamento delle mensilità: tale misura è congrua attesa la risoluzione definitiva del rapporto intervenuta ex lege.

Con la nuova disciplina non deve essere restituito il TFR in quanto il rapporto non è ricostituito e non rivive. (cfr. Trib. Milano 9 febbraio 2011 n. 618, in Lav. nella giur. 2011, con commento di Elisabetta Cassaneti e Sergio Spatato, 929)

La Cassazione ha ancora precisato che l’indennità prevista dall’art. 32, commi 5 e 6, l. 4 novembre 2010 n. 183, esclude qualsiasi altro credito, indennitario o risarcitorio, del lavoratore e si applica, alla stregua del comma 7, anche ai giudizi pendenti in Cassazione.

Non sono manifestamente infondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 32, commi 5 e 6, della legge citata, con riferimento agli artt. 3, 4, 24, 111 e 117, Cost. (cfr. Cass. 28 gennaio 2011, ord., n. 2112, in Orient. giur. lav. 2011, 39).

 

Il comma 5, dell’art. 32, l. n. 183/2010 non ha fatto venire meno il diritto del lavoratore di chiedere e ottenere la pronuncia della conversione del rapporto.

La novità, rispetto alla situazione precedente, sta nell’introduzione di un particolare regime risarcitorio che prevede il pagamento di un’indennità onnicomprensiva che si sostituisce e non si aggiunge alle conseguenze risarcitorie di diritto comune e quindi esaurisce in sé tutte le conseguenze – risarcitorie – dell’accertata legittimità del termine. (Trib. Roma 11 gennaio 2011, Giud. Sordi, in Lav. nella giur. 2011, 418).

In tema di rapporto di lavoro a termine, l’applicazione retroattiva dell’art. 32, comma 5, l. 4 novembre 2010 n. 183 – il quale ha stabilito che, in caso di conversione del contratto a tempo determinato, il giudice condanna il datore di lavoro al pagamento di una “indennità omnicomprensiva” compresa tra 2,5 e 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nell’art. 8 l. 15 luglio 1966 n. 604 – prevista dal successivo comma 7 del medesimo articolo in relazione a tutti i giudizi, compresi quelli pendenti alla data di entrata in vigore della legge, trova limite nel giudicato formatosi sulla domanda risarcitoria a seguito dell’impugnazione del solo capo relativo alla declaratoria di nullità del termine, e non anche della ulteriore statuizione relativa alla condanna al risarcimento del danno, essendo quest’ultima una statuizione avente individualità, specificità e autonomia proprie rispetto alle determinazioni concernenti la natura del rapporto. (Cass. 3 gennaio 2011 n. 65, Pres. Roselli Est. Zappia, in Orient. Giur. Lav. 2011, 107).

 

 

3. Requisiti, forma e durata del contratto

 

La forma del contratto a tempo determinato deve, obbligatoriamente, essere in forma scritta e vi devono essere indicate espressamente le indicazioni delle ragioni che legittimano il ricorso a tale forma contrattuale nonché della temporaneità del rapporto.

L’onere della forma scritta viene escluso solamente nelle ipotesi in cui il rapporto di lavoro sia di breve durata, ovvero non superiore a 12 giorni, e in altre ipotesi eccezionali previste dalla normativa..

Nel contratto deve, altresì, essere indicata la data del termine del rapporto o comunque, deve potersi desumere indirettamente in connessione ad un evento futuro certo (ad esempio il rientro del lavoratore sostituito).

Per quanto concerne la durata del contratto a termine essa non deve superare il limite di 36 mesi; sono, comunque, previste delle eccezioni, che possono portare all’aumento di tale limite per alcuni settori economici e categorie di lavoratori, quali ad esempio i dirigenti.

Il termine apposto al contratto può essere prorogato una sola volta per la stessa attività lavorativa, e previo consenso del prestatore di lavoro, solamente nella ipotesi in cui la durata iniziale del contratto sia inferiore a 3 anni.

L’onere che giustifica le ragioni della proroga è in capo al datore di lavoro.

Il rapporto può anche proseguire, temporaneamente, dopo la scadenza del termine per un breve intervallo di tempo, ovvero:

–         fino a 20 giorni dopo la scadenza per i contratti che abbiano durata inferiore a 6 mesi;

–         fino a 30 giorno dopo la scadenza per i contratti che abbiano durata pari oppure superiore a 6 mesi.

In tali casi il datore di lavoro deve corrispondere al prestatore una maggiorazione del 20% della retribuzione fino al decimo giorno successivo alla scadenza del termine e del 40%  nel periodo ulteriore di prosecuzione fino al 30simo giorno.

Dopo questi termini il rapporto di lavoro deve essere interrotto; in caso contrario il decreto legislativo n. 368 del 2001 considera il rapporto di lavoro automaticamente convertito in contratto di lavoro a tempo indeterminato a partire dalla scadenza (7).

Secondo giurisprudenza sul tema (8) le “ragioni oggettive” che, ai sensi dell’art. 4 D.Lgs. 6/9/01 n. 368, giustificano la proroga di un contratto a tempo determinato devono essere intese nel senso di circostanze sopravvenute rispetto al momento della originaria stipulazione del contratto. Deve pertanto ritenersi nulla una proroga motivata da ragioni già presenti ab initio, con conseguente conversione del rapporto a tempo indeterminato (nella specie la durata del rapporto era stata inizialmente determinata in un periodo inferiore all’aspettativa obbligatoria per maternità della lavoratrice sostituita e, alla scadenza, il contratto era stato prorogato motivando con il mero protrarsi della assenza).

 

 

3.1.  Il recesso ante tempus

 

Sia la dottrina che la giurisprudenza sostengono che i contratti a tempo determinato e quelli assistiti da clausola di durata minima garantita possano essere risolti ante tempus (ovvero prima della scadenza contrattualmente prevista) da ciascuna delle parti unicamente in presenza di fattispecie che configurino l’esistenza di una giusta causa risolutoria.

Il rapporto di lavoro a tempo determinato, infatti,  come previsto dal decreto legislativo del 6 settembre 2001, n. 368, e successive modifiche ed integrazioni) cessa:

–         per scadenza del termine originario o successivamente prorogato previsto nel contratto individuale di lavoro. In tale ipotesi, il rapporto di lavoro si estingue automaticamente, senza necessità di alcuna manifestazione di volontà delle parti (9) e non occorre neppure il preavviso, poiché le parti sono già consapevoli che il rapporto è destinato ad estinguersi con la scadenza del termine;

–         ovvero, prima della scadenza del termine, per licenziamento/dimissioni per giusta causa, mutuo consenso o impossibilità sopravvenuta della prestazione.

Secondo quanto precisato dalla Corte di Cassazione con la sentenza del 10 febbraio 2009, n. 3276, (in Guida lav., 2009, n. 12, 24) “il rapporto di lavoro a tempo determinato, al di fuori del recesso per giusta causa ex art. 2119 c.c., può essere risolto anticipatamente non per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell’art. 3 della legge n. 604/1966, ma solo se ricorrono le ipotesi di risoluzione del contratto previste dagli artt. 1453 ss. c.c.

Ne consegue che, qualora il datore di lavoro proceda ad una riorganizzazione del proprio assetto produttivo, non può avvalersi di tale fatto per risolvere in anticipo un contratto di lavoro a tempo determinato”. (10).

Il recesso anticipato del datore, per motivi diversi dalla giusta causa, comporta per il lavoratore a termine il diritto al solo risarcimento del danno, da parametrarsi alle retribuzioni che lo stesso avrebbe percepito fino alla naturale scadenza del termine, con esclusione dei compensi di natura occasionale o risarcitoria (11).

 

 

4. Le novità della L. 92/2012

 

La riforma della legge n. 92 del 2012, c.d. Riforma Fornero ha introdotto, per quanto concerne il rapporto di lavoro a tempo determinato, l’ipotesi di un termine finale “acausale” non menzionata dal precedente decreto legislativo n. 368 del 2001 e nemmeno dai successivi interventi modificativi.

La legge ha lasciato inalterato il primo comma del citato decreto n. 368/2001 che consente, come noto, l’apposizione del termine a fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo, ancorché riferibili alla ordinaria attività del datore di lavoro, ma ha inserito il comma 1-bis che esclude la sussistenza di tali ragioni nel caso di stipulazione del primo contratto di lavoro a termine di durata non superiore a 12 mesi e non prorogabile.

L’esclusione del requisito della sussistenza di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo, è anche ammessa in due ulteriori ipotesi, ovvero:

–         nei casi previsti dalla contrattazione collettiva in cui l’assunzione avvenga nell’ambito di particolari processi produttivi (12);

–         nella ipotesi di prima missione nell’ambito di un contratto di somministrazione a tempo determinato.

Dottrina sul tema (13) ha precisato che l’introduzione della acausalità del termine è in linea con quanto già affermato dalla Corte di Giustizia europea (14) secondo la quale l’Accordo quadro siglato dalle Parti Sociali europee non aveva l’obiettivo di contrastare i contratti a termine in quanto tali, bensì la loro reiterazione.

Per tale motivo, il primo (o unico) contratto di lavoro a tempo può essere stipulato indipendentemente dall’esistenza di “ragioni obiettive” che andrebbero identificate solo nel caso di rinnovo del contratto (clausola 5, punto 1, lett. a, Accordo).

Continua ancora la sopra menzionata dottrina affermando che la Corte con la sentenza del 23 aprile 2009 ha temperato il principio della acausalità stabilendo che le “ragioni obiettive” che consentono la reiterazione non possono che riferirsi a esigenze “provvisorie” del datore di lavoro e non a quelle “permanenti e durevoli” (15).

Il novellato articolo 1 del decreto n. 368 prevede tre ipotesi di utilizzo del contratto a termine:

–         in base alla vecchia previsione, in presenza di ragioni di carattere tecnico/produttivo/organizzativo/sostitutivo anche ordinarie (non a caso nota come “causalone”);

–         previa indicazione da parte dei contratti collettivi, tutte le volte che ricorrono le nuove ipotesi di cui al secondo periodo del comma 1-bis, nel limite del 6% del totale dei lavoratori occupati;

–         ogni qual volta l’azienda decida di ricorre all’assunzioni a termine in assenza di una causa obiettiva che giustifichi il tempo determinato, per qualunque tipo di mansione, per un massimo di un anno.

Le modifiche introdotte al comma 3 dell’articolo 5, decreto n. 368 del 2001, prevedono che in caso di riassunzione di un lavoratore a termine, è necessario rispettare l’intervallo di 60 giorni, se il precedente contratto a termine ha avuto una durata non superiore a sei mesi (precedentemente l’intervallo era di 10 giorni); di 90 giorni se la durata del precedente contratto era superiore a 6 mesi (precedentemente era di 20 giorni).

Ai contratti collettivi è demandata la possibilità di prevedere che i termini di cui sopra possono essere ridotti a 20, ovvero 30, ma solamente nel caso l’assunzione avvenga a fronte dei processi organizzativi di cui al comma 1-bis dell’articolo 1.

L’innalzamento dei termini da rispettare nell’intervallo tra un contratto e il successivo, risponde efficacemente all’obiettivo di limitare/scoraggiare fortemente la reiterazione dei contratti a tempo secondo l’ottica espressa dalla Corte di Giustizia europea, innanzi esaminata (16).

 

 

TABELLA RIASSUNTIVA

 

 

Durata massima di 36 mesi con aliquota aggiuntiva pari all’1,4% per finanziare ASPI.

 

In caso di riproposizione al lavoratore devono passare almeno 90 giorni (prima 20) oppure 60 giorni  (prima 10) nel caso di contratto di durata superiore o pari a 6 mesi.

 

Nel computo dei 3 anni oltre i quali non è più possibile assumere con contratto a tempo determinato rientrano d’ora in avanti anche i periodi di attività prestata dal lavoratore attraverso la c.d. somministrazione.

 

Causale non obbligatoria in caso di primo contratto, non prorogabile e di durata massima fino a 12 mesi.

 

 

Schema riassuntivo (17)

 

Per quanto concerne il primo contratto a termine e la prima missione nell’ambito di un contratto in somministrazione a tempo determinato, di durata non superiore a 12 mesi, viene eliminata la necessità di causali ( il c.d. “causalone”, vale a dire l’indicazione delle ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo per le quali si ricorre a questo tipo di contratto).

 

Il contratto a tempo determinato, in questo modo, se stipulato al di fuori delle causali non può diventare oggetto di proroga.

 

La legge ha chiaramente previsto alternative a queste misura, tutte definibili naturalmente in sede precontrattuale.

 

Viene poi aumentato l’intervallo minimo tra un contratto e l’altro che varia a seconda se il contratto abbia durata inferiore o superiore a sei mesi, passando i termini da 10 a 60 giorni e da 20 a 90 giorni, in assenza di contrattazione collettiva, decorsi dodici mesi, il Ministero del lavoro individuerà con decreto le specifiche condizioni in cui potranno operare delle riduzioni.

 

Un nodo cruciale della riforma  del lavoro è stato determinare la durata massima del contratto a tempo determinato che è stata fissata a 36 mesi, altre tempistiche sottoposte a revisione sono state quelle legate al termine massimo per l’ impugnazione stragiudiziale, che passa da 60 a 120 giorni.

 

 

 

Manuela Rinaldi   
Avvocato foro Avezzano Aq – Dottoranda in Diritto dell’Economia e dell’Impresa Università La Sapienza, Roma, Proff. Maresca – Santoro Passarelli; Tutor di Diritto del Lavoro c/o Università Telematica Internazionale Uninettuno (UTIU) Docente prof. A. Maresca; Docente in corsi di Alta Formazione Professionale e Master e in corsi per aziende; già docente a contratto a.a. 2009/2010 Diritto del Lavoro e Diritto Sindacale Univ. Teramo, facoltà Giurisprudenza, corso Laurea Magistrale ciclo unico, c/o sede distaccata di Avezzano, Aq 

 

 

 

_________ 

(1) Cass., 11 maggio 2011, n. 10346, in Lav. nella giur., 2011, 737.

(2) Cass., 8 luglio 1995, n. 7507, pres. Donnaruma, est. Miani, in D&L, 1996, 119, nota MUGGIA, Il contratto a termine ovvero il rigore apparente.

(3) Pret. Milano, 2 luglio 1996, est. Peragallo, in D&L, 1997, 98.

(4) Cass., 18 aprile 2011, n. 8836, in Lav. nella giur., 2011, 739.

(5) Corte di Giustizia CE 10/3/2011, Causa C-109/09, Pres. Cunha Rodrigues, Est. Lindh, in Orient. Giur. Lav., 2011, 47.

(6) Sul punto cfr. Corte di Giustizia CE 22/12/2010, Cause C-444/09 e 456/09, pres. Cunha Rodrigues, rel. Caoimh, in D&L, 2010, con nota di Nicola Zampieri, Lo stato dell’arte sull’abuso del contratto a termine nel pubblico impiego contrattualizzato, 955.

(7) Ai sensi dell’art. 2 della legge n. 230 del 1962, le circostanze idonee a legittimare la proroga del contratto di lavoro a tempo determinato (il cui onere probatorio grava, ai sensi dell’art. 3 della stessa legge, sul datore di lavoro) devono essere ontologicamente diverse da quelle che hanno giustificato l’originaria apposizione del termine e devono rivestire i caratteri della contingenza e della imprevedibilità, tenendo presente, con riguardo a quest’ultima (da accertarsi alla stregua del criterio della diligenza media osservabile dall’imprenditore), che deve ritenersi prevedibile qualsiasi situazione di cui l’imprenditore possa – anche in via di mera probabilità – rappresentarsi l’ulteriore sviluppo secondo l’”id quod plerumque accidit”. (Nella specie, alla luce dell’enunciato principio, la S.C. ha confermato l’impugnata sentenza con la quale era stata dichiarata la nullità dell’apposizione del termine di proroga al contratto a termine con la conseguente trasformazione di tale contratto in contratto a tempo indeterminato, sul presupposto della congruità e logicità della relativa motivazione con cui erano state esaminate le risultanze processuali, dalle quali non era emerso in modo chiaro il supposto collegamento delle manifestazioni autunnali indicate dalla datrice di lavoro con l’incremento della specifica attività lavorativa dell’azienda, apprezzandosi, altresì, l’irrilevanza delle circostanze di fatto addotte in sede di prova orale, il cui accertamento non avrebbe comunque comportato la dimostrazione dell’imprevedibilità degli eventi capaci di legittimare la proroga). (Rigetta App. Roma, 3 novembre 2003). (Cass. 21/11/2006 n. 24655, Pres. Sciarelli, Est. Vidiri, in Dir. e prat. lav., 2007, 1799 e in Lav. nella giur., 2007, 516).

(8) Trib. Milano, 31 marzo 2006, in D&L, 2006, 454.

(9) Cfr. Cass., 2 settembre 2011, n. 18068, secondo cui la mera inerzia del lavoratore dopo la scadenza del termine illegittimo non può essere indicativa di una risoluzione consensuale del rapporto.

(10) Cfr. anche Trib. Bolzano, 3 ottobre 2008, ivi, 2008, n. 50, 27, secondo cui “la facoltà di recesso ante tempusdal contratto di lavoro a tempo determinato è consentita solo nell’ipotesi di ricorrenza di giusta causa e non anche di giustificato motivo (soggettivo ovvero oggettivo)”.

(11) Cass., 1 luglio 2004, n. 12092, in Foro it., Rep., 2004, voce Lavoro (rapporto), n. 913.

(12)  Avvio di una nuova attività, lancio di un prodotto/servizio innovativo; implementazione di un rilevante cambiamento tecnologico; fase supplementare di un significativo progetto di ricerca e sviluppo; rinnovo/proroga di una commessa consistente.

(13)  Cfr. sul punto Serra A., La riforma Fornero – Monti e il nuovo contratto a tempo determinato, in Nel merito.it del 28 giugno 2012  http://www.nelmerito.com/index.php?option=com_content&task=view&id=1717&Itemid=1

(14) Cfr. sentenza 23 aprile 2009.

(15) Diversamente, ci si troverebbe in contrasto non solo con la clausola 5 dell’Accordo volta a prevenire gli abusi, ma anche con la premessa che fonda l’Accordo stesso, e cioè che i contratti a tempo indeterminato rappresentano la forma comune di rapporto di lavoro Cfr. Serra A., ult. op. cit.

(16) Cfr. Serra A., ult. op. cit.

(17) Per approfondire l’argomento della riforma Fornero si veda anche la circolare n. 18/2012 del 18 luglio 2012 del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali con oggetto: “L. 28 giugno 2012 n. 92 (cd. Riforma Lavoro) – tipologie contrattuali e altre disposizioni – prime indicazioni operative.

Rinaldi Manuela

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