Il concetto di fedeltà tra diritto e società. Parte II- La fedeltà nella storia

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Facendo seguito al primo elaborato offerto sul tema (Vedi Il concetto di fedeltà tra diritto e società. Un obbligo, un dovere, una scelta – Parte I) in questa disamina vedremo le evoluzioni del valore fedeltà in vari momenti storici ed il suo sacrificio e riadattamento in funzione di contesti politici, sociali e morali.

    Indice

  1. La fedeltà nella storia: le suggestioni terminologiche del diritto romano
  2. La fedeltà dal paradigma pagano a quello cristiano, sino alla modernità. La donna oggetto della fedeltà.
  3. La fedeltà nelle corti e nella politica.

1. La fedeltà nella storia: le suggestioni terminologiche del diritto romano

Con il diritto romano assistiamo ad un’evoluzione dell’istituto matrimoniale e del concetto di fedeltà coniugale che inevitabilmente contribuirà alla creazione del paradigma e del costrutto giuridico attuale.

Vale la pena notare come a tutt’oggi sopravvivono nel nostro lessico forme espressive direttamente discendenti da quell’epoca: per esempio, dei novelli promessi, tutt’oggi di dice che “hanno deciso di sposarsi”; orbene, nel diritto romano il matrimonio prendeva vita proprio dalla decisione dei due partner di dare vita ad una convivenza stabile caratterizzata dall’affectio maritalis, volontà vale a dire libera ed arbitraria di costituire un’unione con il coniuge[1], senza concedere i propri favori a nessun altro[2]. Il concetto dell’affectio maritalis è tutt’oggi ampiamente richiamato negli atti processuali per descrivere il venir meno, tra i coniugi, della condivisione matrimoniale.

Senza l’affectio maritalis e senza la volontà espressa liberamente e condivisa, si aveva mero concubinato. Ma all’interno di questa distinzione – affectio maritalis da una parte e mero concubinato dall’altra – si presenta esistere un’ampia gamma di sub-possibilità.

Vale a dire che l’elemento costitutivo del matrimonio romano era ab origine privo di riti particolari o atti solenni e discendeva da una parte, dalla convivenza o unione di fatto, dall’altra, dalla palesata volontà di vivere quell’unione con l’affectio maritalis.

Dall’assenza di riti solenni discendeva anche la facile possibilità di interrompere il coniugio, risultando idonea la mera interruzione della convivenza o dell’affectio maritalis. Ciò nonostante, il matrimonio era avvertito in maniera molto significativa nella società romana, perché la concezione romanistica dell’unione uomo donna era un fatto sociale prima che giuridico, quindi molto più sentito.

La forma di cui si è sin qui fatto cenno è il matrimonio sine manu, ossia priva del potere di manus del marito sulla moglie, ma basata sulla libera volontà della condivisione sorretta dall’affectio. Nel matrimonio sine manu il marito non vantava alcun potere sulla donna che restava legata all’autorità paterna e non poteva dunque avere alcuna prospettiva, per esempio, ereditaria sui beni del marito[3].

Si poteva poi assistere al matrimonio cum manus: letteralmente il marito acquisiva la manus sulla moglie (anche qui, il richiamo lessicale ai nostri giorni non è improprio; prosegue nella tradizione popolare la concezione del “chiedere la mano della promessa al padre, che la concede”). A seguito di particolari riti celebrativi (per es. la confarreatio, chiamata perché gli sposi facevano offerta di una focaccia di farro a Giove Capitolino, è sicuramente il più antico, che la tradizione fa risalire allo stesso fondatore Romolo; per la celebrazione della confarreatio, riservato alle classi sociali più elevate, si richiedeva la presenza del Pontifex Maximus o del Flamen Dialis, e per questa ragione entrò presto in disuso, sostituita da altri rituali più pratici; o la coemptio, che altro non era se non una forma ed un riadattamento della commerciale mancipatio, il negozio usato per l’acquisto di cose di maggior valore (res mancipi); di fatto, in questo caso, la donna veniva acquistata per il tramite di una fittizia trattazione commerciale – coemptio deriva da cum, “con” ed emptio, “acquisto, compera” – nella quale il padre, metteva in atto la vendita così emancipando la figlia al di lei marito. In tal modo, la coemptio era quindi accessibile anche ai plebei, ai quali la confarreatio era invece preclusa) il marito acquisiva/acquistava autorità e potere sulla moglie. Tale potere era tale che lo stesso, autonomamente, avrebbe potuto esercitare il diritto allo stesso riconosciuto – si ritiene si tratti di una legge riconducibile al medesimo Romolo – di finanche uccidere la propria moglie nel caso avesse commesso adulterio (o avesse bevuto pubblicamente del vino!)[4]Nel matrimonio cum manu pertanto, la donna cessava di essere soggetta all’autorità paterna e passava a sottostare alla potestà maritale.

Ancora differenti risultavano gli sponsali in cui i coniugi, o i rispettivi pater familias, si promettevano in matrimonio attraverso il rito della sponsio, che non era altro che un vero e proprio contratto orale, vincolante, con il quale si prometteva il vincolo, nell’immediato futuro, matrimoniale con l’altra persona. E’ proprio dagli sponsali romani che trae origine la previsione codicistica, presente tutt’oggi nel nostro ordinamento, dell’art. 79 c.c.

L’istituto della promessa di matrimonio non è oggi vincolante in quanto la libertà di scegliere o meno di sposarsi è un diritto fondamentale della persona, irrinunciabile, non coercibile e non soggetto a disponibilità altrui. L’art. 79 c.c. stabilisce, infatti, che “la promessa di matrimonio non obbliga a contrarlo né ad eseguire ciò che si fosse convenuto per il caso di non adempimento[5].

Se tanto è vero, pure non possono tacersi le successive norme codicistiche che ben delineano il valore della promessa matrimoniale e che hanno tutto il sapore della tradizione romana, ancorché rimodernata: resta infatti tutt’oggi vigente la differenza tra promessa di matrimonio semplice (fidanzamento ufficiale di sapore assolutamente sociale) e promessa solenne (assunta con forma scritta – art. 84 c.c. – e con richiesta di pubblicazione del matrimonio – art. 93 c.c.) differenza dalle quali discendono differenti conseguenze per l’inadempimento. Ed infatti, in ipotesi di promessa semplice, a norma dell’art. 80 c.c., la parte che subisce il rifiuto può chiedere la restituzione dei doni legati alla promessa (come l’anello di fidanzamento) presentando richiesta entro un anno dal giorno della rottura del matrimonio (o anche in caso di morte della controparte). In ipotesi di promessa solenne invece alla quale non seguono le nozze senza giustificazione idonea, chi rifiuta le nozze dovrà non solo restituire i doni ma risarcire alla controparte i danni (spese sostenute ed obbligazioni contratte come l’acquisto dell’abito da sposa o l’anticipo sull’affitto della casa). Il fidanzato che avrà subito la rottura, potrà poi richiedere il risarcimento entro un anno dalla data di rottura della promessa di matrimonio.

E’ interessante constatare che non è ammissibile la richiesta di risarcimento se lo sposo o la sposa hanno deciso la rottura della promessa per giusti motivi quali infedeltà, ludopatia, alcolismo dell’altro, come previsto nell’art. 122, comma 3, c.c..

Sulla promessa di matrimonio risulta importante la corposa produzione giurisprudenziale sul valore da attribuire alla stessa (contratto? Vincolo giuridico? Illecito extra-contrattuale?) e che risponde fortemente dell’evoluzione dei costumi e del senso giuridico attribuito alla promessa sponsale nella modernità, soprattutto quando si recede per omessa fedeltà.

Orbene, è noto che la realtà romana si caratterizzava anche per la libertà con la quale si intrattenevano relazioni carnali. E’ dell’età augustea infatti la Lex Iulia de adulteriis coercendis, emanata con il preciso intento di porre un freno alla corruzione dei costumi, al concubinaggio, all’esercizio smodato del piacere carnale[6]. In tale legge veniva sanzionato l’adulterium ed il marito veniva in tal caso obbligato al ripudio della moglie adultera, pena esse egli stesso accusato di lenocinio[7].

Con la crisi dell’Impero Romano è la Chiesa ad imporsi come nuovo referente per la moralità e porsi come faro dedito a tacciare la dissolutezza[8].

2. La fedeltà dal paradigma pagano a quello cristiano, sino alla modernità. La donna oggetto della fedeltà.

La logica pagana e quella cristiana, prima in aperto contrasto per la ripetuta eccepita dissolutezza dei costumi del mondo romano, si fondono tra loro soprattutto per influenza della teologia agostiniana e a partire già dall’editto di Costantino le cause di divorzio, prima possibili anche solo per l’intervenuta assenza di affectio maritalis, si riducono drasticamente.

Ciò nonostante, anche in quest’epoca di significativi cambiamenti, sopravvive la previsione sull’adulterio della moglie, che invero ritroveremo sino a pochi decenni orsono nella nostra struttura legislativa, trascinandosi nei decenni.

L’art. 559 del codice penale italiano, dopotutto, sino a poco tempo fa, così prevedeva: “La moglie adultera è punita con la reclusione fino a un anno. Con la stessa pena è punito il correo dell’adultera. La pena è della reclusione fino a due anni nel caso di relazione adulterina. Il delitto è punibile a querela del marito[9].

La norma risentiva fortemente non solo di quella concezione della donna come responsabile dell’esclusività del proprio corpo in favore del marito, ma come già accennato, della certezza della paternità della prole. E per tale ragione, veniva gradata la gravità della colpa dell’adultera, prevedendosi fino ad un anno di reclusione nell’ipotesi di occasionale adulterio (un unico episodio) e fino a due anni per l’ipotesi di relazione adulterina (una relazione stabile e continuata).

Interessante anche il riferimento al correo, l’uomo, l’amante dell’adultera.

Non sorprende. In Sant’Agostino leggiamo così: “Ugualmente, se una donna che tradisce la fedeltà coniugale, è fedele all’amante, è in ogni caso una donna colpevole; ma se non lo è neppure all’amante, è peggiore. Però se essa si pente della colpa, e tornando alla castità coniugale scioglie l’accordo adulterino, mi sorprenderebbe se proprio l’amante la considerasse una traditrice”[10], risultando quest’ultimo, appunto, correo.

Pure dal sapore squisitamente conforme alla tradizione che abbiano narrato, la previsione, dell’ultimo comma, di punibilità del delitto solo a querela del marito, rimettendo nelle mani di quest’ultimo decidere se e quali sorti potessero gravare sul capo della moglie. La concezione della querela in esclusivo potere del marito richiama l’idea di potere di disposizione e più ampiamente potestà sulla moglie che abbiamo già narrato.

Occorrerà attendere il 1968 per vedere abrogata la norma. Ed infatti, si rammenterà che la Corte Costituzionale con le sentenze 19 dicembre 1968 n. 126 e 3 dicembre 1969 n. 147 hanno infine dichiarato costituzionalmente illegittimo l’articolo, oggi presente nei codici solo a futuro monito e memoria.

Ma ancor più gravemente, dovrà attendersi il recentissimo 5 settembre 1981 per vedere abolite altre due norme la cui esistenza nell’ordinamento era uno schiaffo all’uguaglianza tra i coniugi, all’uguaglianza tra sessi, alla Carta Costituzionale stessa, ai diritti umani.

Si tratta degli art. 544 e dell’art. 587 del Codice penale Rocco di epoca squisitamente fascista.

L’art. 544 c.p. prevedeva il c.d. matrimonio riparatore e recitava così: “Per i delitti preveduti dal capo primo e dall’articolo 530, il matrimonio che l’autore del reato contragga con la persona offesa estingue il reato, anche riguardo a coloro che sono concorsi nel reato medesimo; e, se vi è stata condanna, ne cessano l’esecuzione e gli effetti penali[11].

E’ il caso, assai noto, di Franca Viola[12].

La giovinetta, di straordinaria bellezza, appena diciassettenne, aveva attratto le attenzioni del figlio della famiglia mafiosa Melodia. Il giovane, frustrato dai molteplici rifiuti della donzella, assai poco sottomessa per i tempi e la realtà del paese, indifferente al potere (mafioso) di cui lo stesso non trascurava di vantarsi traendone profitto, nonché della forza economica e non solo della di lui famiglia, decise, in data 26 dicembre 1965, con l’aiuto di 12 complici, di rapirla, sequestrarla ai fini di renderla sua con la forza e l’ausilio dell’art. 544 c.p. A tal fine, si rendeva necessario esercitare la violenza e renderla il possesso carnale e la compromissione della purezza, illibatezza, inequivocabile agli occhi sociali. Per questa ragione, fu tenuta segregata per otto giorni inizialmente in un casolare al di fuori del paese, dove fu ripetutamente violentata, malmenata e lasciata a digiuno, con il preciso scopo di provarne, sottometterne e coartarne la volontà; poi fu condotta in casa della sorella di Melodia, al fine di rendere inequivocabile il protratto possesso carnale e il concubinaggio. Il giorno di Capodanno, il padre della ragazza fu contattato dai parenti di Melodia per la cosiddetta “paciata[13], ovvero per un incontro volto a mettere le famiglie davanti al fatto compiuto e far accettare ai genitori di Franca le nozze dei due giovani. In tal caso, nessun delitto si sarebbe mai potuto eccepire, attesa l’intervenuta riparazione del danno sofferto dalla donna con la celebrazione delle nozze.

Appare evidente come in questa logica risuoni fortemente quel concetto di illibatezza femminile, esclusività del corpo della donna, certezza della discendenza della prole che abbiamo già visto. Il matrimonio avrebbe fatto di Franca “una donna onesta”[14], non sussistendo pertanto più il requisito della punibilità.

Il padre e la madre di Franca, consapevoli delle volontà della figlia di non andare mai in sposa a quell’uomo, qualunque cosa fosse accaduta, d’accordo con la polizia, finsero di accettare le nozze riparatrici ed addirittura il fatto che Franca dovesse rimanere presso l’abitazione di Filippo, ma il giorno successivo, il 2 gennaio 1966 la polizia intervenne all’alba facendo irruzione nell’abitazione, liberando Franca ed arrestando Melodia ed i suoi complici. A quel punto, l’unica possibilità rimasta in capo al Madonia ed ai suoi complici, era gravemente sfumata ed in assenza di nozze riparatrici, ritrovavano validità e vigore i reati di sequestro, maltrattamenti, ed offesa alla moralità.

All’epoca dei fatti narrati, non esisteva ancora la previsione normativa del reato di stupro come a noi nota, vale a dire come delitto contro la persona, che dovrà attendere il 1996 per essere inserita nel nostro codice. Nel 1966 lo stupro era considerato reato meramente contro la moralità pubblica e il buon costume.

Melodia fu infine condannato il 17 dicembre 1966 a 11 anni di carcere, ridotti il 10 luglio 1967 al processo di appello di Palermo a 10 anni con l’aggiunta di 2 di soggiorno obbligato nei pressi di Modena.

La sentenza fu poi confermata in Cassazione il 30 maggio 1969.

In virtù pertanto dell’art. 544 c.p., e prima dell’introduzione del delitto di stupro, per il colpevole di violenza carnale il reato si estingueva se lo stesso si rendeva disponibile a sposare la vittima, spesso minorenne, ed ella vi acconsentiva. A sollecitare la richiesta del matrimonio riparatore erano soprattutto i familiari della vittima che non vedevano altra strada per ripristinare il loro onore perduto. Ciò sia per non alimentare il vociare popolare in una società spesso ancora di mentalità patriarcale e maschilista, sia perché la ragazza non essendo più “illibata” (vergine) avrebbe avuto difficoltà, a causa della mentalità sopra accennata, a trovare marito. In uno con la reputazione, veniva compromesso il futuro della stessa.

Nei casi più atroci, rifiutate le nozze, la giovane veniva rifiutata anche dalla famiglia di origine, sulla quale gravava l’onta della sua non verginità; indi, veniva cacciata di casa, in una società culturalmente arretrata dove il lavoro femminile possibile era solo uno: la prostituzione.

A perdere l’onore, infatti, era solo la vittima e non il criminale che l’aveva violentata. Con ciò registrandosi ancora una volta quella significativa disparità di trattamento tra rapporto carnale intrattenuto – volente o nolente – dalla donna e la condotta dell’uomo, al quale si riconosceva anche il possesso violento e  ripetuto del corpo della donna salvo poi renderla una donna onesta.

Ne risulta inequivocabile la visione, a cui questa esposizione ci ha abituati, della donna come un oggetto e una proprietà, ragion per cui se la si “rompeva” violentandola, e guastandone conseguentemente la purezza, bisognava “tenersi i cocci” e pagare i “proprietari”, ossia la famiglia di lei, sposandola.

Dopotutto, in tempi non troppo lontani, era ancora uso, soprattutto nei paesi dell’entroterra, “esporre” il lenzuolo matrimoniale il giorno dopo le nozze, affinché fosse evidente a tutti che la sposa era giunta al talamo nuziale illibata.

Non basta. A fare da pendant alla norma sul matrimonio riparatore, vi era un’altra norma, l’art. 587, vigente sino al 1981, e che disciplinava il delitto d’onore.

Il delitto d’onore infatti era un tipo di omicidio commesso per difendere l’onore e per questo, sanzionato con una pena minore per l’assassino. La norma così recitava: “Chiunque cagiona la morte del coniuge, della figlia o della sorella, nell’atto in cui ne scopre la illegittima relazione carnale e nello stato d’ira determinato dall’offesa recata all’onor suo o della famiglia, è punito con la reclusione da tre a sette anni. Alla stessa pena soggiace chi, nelle dette circostanze, cagiona la morte della persona, che sia in illegittima relazione carnale col coniuge, con la figlia o con la sorella[15]”. Ne risultava diretta conseguenza che, in caso di omicidio per disonore, si accedeva ad un importante sconto di pena, parzialmente così lo Stato giustificando il delitto.

Nel 1981 giunge infine l’abrogazione delle citate norme[16], inconciliabili con lo stato civile e di diritto come consegnato ai giorni nostri, e si compie un passo in avanti verso la libertà femminile ed una nuova logica del matrimonio e del concetto di fedeltà coniugale.


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3. La fedeltà nelle corti e nella politica

Senza dimenticate il rigore con cui l’adulterio è descritto da Calvino – che sanzionava ogni forma di infedeltà tra coniugi, giungendo a ritenere che anche un occasionale tradimento era atto violativo del patto stretto non solo con il coniuge, ma con Dio e la società tutta[17] – già con l’Illuminismo e poi con la Rivoluzione francese cominciano ad affiorare due netti schieramenti interpretativi: quello dei progressisti e quello del conservatori.

E’ così che, durante la Rivoluzione, viene emanata la legge del 20 settembre 1792 che introdusse formalizzandola per la prima volta il divorzio senza colpa: esso poteva essere richiesto, indifferentemente da ognuno dei coniugi, ove l’altro si fosse macchiato di condanne alla pena detentive, abbandono del tetto coniugale, incapacità mentale, émigration[18] e per la prima volta affiora l’incompatibilità di carattere (incompatibilité d’humeur).

Il divorzio francese è un istituto che risentirà di numerosi momenti di crisi, strettamente connessi alle pagine della storia. Non dimentichiamo infatti che sopravvisse nel Codice Napoleonico, contrapponendosi a forze di segno opposto che ne volevano l’abrogazione, per un evidente interesse personale dell’Imperatore (Napoleone Bonaparte, coniugato con Giuseppina – prima moglie di Napoleone e che regnò al suo fianco dal 1804 al 1809 – divorziò dall’amata Joséphine, imperatrice dei francesi che accettò il divorzio “per il bene della Francia“, cui non poteva garantire un erede al trono) e vedrà l’abolizione solo con la Restaurazione[19], per poi essere reintrodotto nel 1884[20]. Una storia certo assai travagliata.

Eppure, è proprio sotto il codice Napoleonico che la fedeltà si scinde dal divorzio acquistando un’autonomia tutta particolare: ed infatti, durante la reggenza Napoleonica si tolleravano le avventure galanti, ma nessuna indulgenza era riservata alla donne che si fossero rese colpevoli di mettere al mondo un figlio illegittimo, atteso che tale prole inquinava irrimediabilmente la discendenza maschile.

Pertanto, diminuisce nella coscienza sociale il valore della potestà matrimoniale, ma nessuna deroga si ammette nei confronti della tutela della certezza della linea ereditaria. In tal senso, l’uomo adultero nulla poteva mai rischiare e nella ricerca del piacere e delle avventure galanti gode di complicità. Ma tali avventure dovevano essere vissute senza ricerca di paternità, riconducendo la procreazione come momento solo ed esclusivamente del letto coniugale[21].

Una rettifica di modalità che poneva un freno alla tradizione del Re Sole, al quale si attribuivano più di 50 amanti, tutte ammesse a Corte, e che dalla Corona avevano tratto enormi privilegi in uno con un numero considerevole di figli illegittimi, buona parte dei quali pur riconosciuti, vivevano malamente il loro status di illegittimi. Sebbene il Re Sole fosse riuscito a mantenere abbastanza fermo il suo potere, nonostante la condotta assai discutibile moralmente ed eticamente, rispondendo agli attacchi che tale licenziosità non gli risparmiarono, era evidente che nel tempo una restrizione a tanta dissolutezza sarebbe presto giunta.

Il rigore avverso l’incertezza della discendenza, o persino il suo inquinamento (far passare per legittimi e concepiti nel letto coniugale figli nati da relazioni con altri partner pur di garantire la prosecuzione della stirpe o della casata) era presente anche nei paesi di Common Law. La condanna era generalizzata, e coinvolgeva non solo l’infedeltà della moglie ma anche quella del marito, sebbene la castità di quest’ultimo fuori dal letto coniugale era considerata solo come finzione sociale, ritenendo che l’adulterio era certamente compiuto ma adeguatamente celato dietro la rinomata discrezione inglese.

E’ nei paesi di Common Law – non solo inglese ma anche di matrice americana – che si introduce una distinzione terminologica tra obbligo di fedeltà e dovere di fedeltà spingendosi più verso l’utilizzo lessicale della seconda perifrasi. La fedeltà vale a dire non è considerata un’obbligazione matrimoniale; piuttosto la violazione del dovere di fedeltà è sanzionata in modo differente a secondo che si tratti di fornicazione (quella dell’uomo inteso come mero rapporto sessuale) o di adultery (il tradimento della donna).

Il lessico è assai interessante: si riconosce all’uomo la possibilità di cedere dinnanzi alla libidine ed al desiderio dell’altro; non uguale concezione è applicata ed applicabile alla donna che non può rispondere ad un istinto primario, cui esito è un mero rapporto carnale. La donna, a differenza del’uomo, compie sempre adulterio, tradimento. Peraltro, se evidente appare il torto fatto alla donna, non meno forte è il torto fatto all’uomo, ritenuto implicitamente incapace o del tutto disinteressato a stringere relazioni extraconiugali dettate da affectio ma solo e meramente carnali. Ne consegue che l’adulterio femminile è un furto ed un atto contrario alla coscienza sociale, per esso penalmente rilevante e punibile nelle forme più disparate.

Si pensi alla magistrale rappresentazione che ne fornisce oltremare Hawthorne autore del noto romanzo, pubblicato nel 1850 e tradotto i moltissime lingue, rappresentando un classico della letteratura statunitense, ed giunto a noi con il titolo La Lettera Scarlatta. Ed infatti, la protagonista, da anni vedova bianca, vale a dire donna ritualmente spostata ma che non ha notizie del marito da moltissimi anni e per questo costretta ad una vita di solitudine e senza speranza d’esser madre, s’innamora di un uomo della comunità e conseguentemente, commette adulterio. Dalla relazione nasce una bimba di cui la madre non rileverà mai la discendenza con il preciso intento di tutelare l’uomo che ama e la figlia stessa: non conoscendo la condanna alla quale andrà incontro, la protagonista infatti vuole garantire alla figlia la sopravvivenza di almeno uno dei due genitori, affinché, in ipotesi di sua condanna a morte, il padre, seppure a distanza possa continuare a vegliare sulla minore.

Invece, come primo atto di condanna, viene imposta la lettera scarlatta, un’enorme A iniziale di Adultera, e costretta ad una difficilissima prigionia[22]. A nulla rileva l’assenza annosa del marito. E quindi l’assenza dell’unico individuo che potesse legittimamente condannare il tradimento subito.

L’adulterio è comunque compiuto e per questo punito.

E’ solo nel XX secolo che si assiste alla sempre più pressante discrasia della triologia terminologica costituita dalla fedeltà – filiazione certa – matrimonio e quindi adulterio/divorzio.

Il paradigma sino a quel momento conosciuto nell’istituto matrimoniale, nell’inquadramento delle figure della moglie e del marito, ed  il paradigma della fornicazione vs adulterio, riceve uno scossone che deriva dal mondo scientifico e non consente vuelta atràs, vale a dire ritorno.

E’ l’avvento del controllo della fecondità femminile con la diffusione di metodi contraccettivi, ulteriormente gravato, da lì a poco, dalla procreazione slegata dall’atto sessuale: giungono e si diffondono le tecniche di riproduzione artificiale che spezzano la triade sessualità – concepimento – procreazione.

Il rapporto sessuale, e certamente il rapporto sessuale tra uomo e donna, non costituisce più la sola formula procreativa e di concepimento di prole: la procreazione assurge finalmente a libera e consapevole scelta di coppia e il rapporto non può più essere inteso come vincolato alla prosecuzione della specie.

Non basta. Con la Riforma del diritto di famiglia si raggiunge la totale parificazione tra figli naturali e figli nati in costanza di matrimonio.

Se la procreazione e la filiazione in generale è slegata dal matrimonio e dall’esclusività del rapporto coniugale come luogo idoneo alla prosecuzione della specie, cosa rimane della fedeltà?

>>>Segue: Il concetto di fedeltà tra diritto e società. La fedeltà giuridica oggi – Parte III

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Note

[1] Il sintagma in questione, di uso corrente e che fa riferimento al contempo all’affetto e alla fedeltà coniugale, si riconnette testualmente alla costituzione giustinianea conservata nel Codex (C. 5.17.11), il cui contenuto è stato poi rifuso in I. 3.1.2a.

[2] Cfr. M.P. BACCARI, Persone e famiglia: concetti e principi giuridici contra le astrazioni e l’individualismo, in Revista Brasileira de direito comparado, 27, 2005, p. 38 ss.; C. FAYER, La familia romana: aspetti giuridici ed antiquari, I, Roma 2005, p. 17 ss.; M.P. BACCARI, Matrimonio e donna, Torino 2013, p. 42 ss.

[3] Sulla posizione del pater familias, G. CICOGNA, La patria potestà in diritto romano, in Studi Senesi, 59, 1945, p. 44 ss.; G. LONGO, voce Patria potestà (diritto romano), in NNDI, 12, Torino 1965, p. 575 ss.; A. M. RABELLO, Effetti personali della ‘patria potestas’, Milano 1979, p.71 ss.

[4] In particolare, in R. ASTOLFI, Il matrimonio nel diritto romano classico, cit., p. 137 ss.; S. PULIATTI, Incesti crimina. Regime giuridico da Augusto a Giustiniano, Milano 2001, 1 ss.; R. FIORI, La struttura del matrimonio romano, in BIDR, 105, 2011, p. 209 ss.

[5] Codice Civile, Libro Primo – Delle persone e della famiglia, Titolo VI, Del Matrimonio, Capo I – Della promessa di matrimonio, art. 79, unico comma.

[6] Ricordiamo la lex Iulia de maritandis ordinibus, del 18 a.C., completata dalla lex Papia Poppaea nuptialis del 9 d.C. e la lex Iulia de adulteriis, del 18 a.C., con cui venivano imposte sanzioni penali; v. R. ASTOLFI, Il matrimonio nel diritto romano classico, cit., p. 137 ss.

[7] Cfr. G. Lagomarsino, L’esclusione della fedeltà coniugale prima e dopo la riforma del diritto di famiglia, con riferimento all’esclusione canonica della fedeltà nel nostro ordinamento, in Il diritto delle persone e della famiglia, Rivista Trimestrale, Vol. XLIV, Aprile-Giugno 2015, p. 719

[8] Cfr. L. Cracco Ruggini, La sessualità nell’etica pagano-cristiana tardoantica, in Comportamenti e immaginario della sessualità nell’Alto Medievo, LIII Settimane di Studio Fondazione Centro Italiano di Studi dell’Alto Medioevo, Spoleto, 2006, p. 11

[9] Codice Penale, Libro secondo Dei delitti in particolare, Titolo XI – Dei delitti contro la famiglia, Capo I – Dei delitti contro il matrimonio, art. 559, comma 1-3.

[10] Vedi nota 17

[11] Codice Penale, Libro Secondo, Dei delitti in particolare, Titolo IX – Dei delitti contro la moralità pubblica e il buon costume, Capo III – Disposizioni comuni ai capi precedenti, art. 544 – abrogato

[12] Marta Boneschi, Di testa loro: dieci italiane che hanno fatto il Novecento, Milano, Mondadori, 2002

[13] Maria Pia Di Bella, Dire o tacere in Sicilia. Viaggio alle radici dell’omertà, Roma, Armando Editore, 2011, pp. 167-186.

[14] Vedi nota 18

[15]Codice penale, Libro secondo- Dei delitti in particolare, Titolo XII – Dei delitti conto la persona, Capo I – Dei delitti contro la vita e l’incolumità individuale, art. 587 abrogato

[16] Legge 5 agosto 1981 n.442 su gazzettaufficiale.it, Gazzetta Ufficiale della repubblica Italiana 10 agosto 1981; vedi anche Abrogazione della rilevanza penale della causa d’onore, GU Serie Generale n.218 del 10-08-1981.

[17] J. Witte Jr., John Calvin on marriage and family life, 2007, http://ssrn.com/abstract=1014729

[18] L’èmigration fu un fenomeno sociale che si presentò proprio durante la Rivoluzione Francese e generalmente attribuito alla classe aristocratica la quale fuggiva dal paese sottraendosi ai propri obblighi; tale fuga era sanzionata con la morte civile (e non solo).

[19] Loi Bonald del 08 maggio 1816

[20] Loi Naquet del 27 luglio 1884

[21] P.Ariés, G. Duby, La vita privata. L’ottocento, Laterza, Roma-Bari, 1991, p. 110

[22] Nathaniel Hawthorne, La lettera scarlatta, Enrico Terrinoni (Curatore), Feltrinelli, 2014

Cettina Marcellino

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