Fecondazione eterologa: la Consulta non decide e rimette gli atti ai Tribunali

Redazione 24/05/12
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Anna Costagliola

La Corte Costituzionale si è pronunciata sulla questione di legittimità costituzionale sollevata dai Tribunali di Firenze, Catania e Milano relativamente al divieto di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo sancito dalla L. 40/2004, restituendo gli atti ai giudici rimettenti per valutare la questione alla luce della sopravvenuta sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo del 3 novembre 2011, n. 5781/00, sulla stessa tematica.

Si tratta, in sostanza, di una sentenza tecnica, che si limita a rimettere ai giudici a quo gli atti posti a fondamento della questione di legittimità costituzionale sollevata nei confronti della L. 40/2004 relativamente al divieto di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo da questa sancito.

Si ricorda, in proposito, che la L. 40/2004 consente il ricorso alla procreazione medica assistita solo «qualora non vi siano altri metodi terapeutici efficaci per rimuovere le cause di sterilità o infertilità». Sono vietate la clonazione umana, e soprattutto la fecondazione eterologa (art. 4), ovvero quella effettuata utilizzando il seme di un donatore esterno. E’ proprio su questo punto che, a seguito del ricorso di diverse coppie, sono state avanzate dagli indicati Tribunali questioni di legittimità in rapporto alle norme della Carta costituzionale, sottolineandosi il rischio di irragionevoli disparità di trattamento fra le coppie che per soddisfare il loro desiderio di diventare genitori possono ricorrere a tecniche di fecondazione di tipo omologo, mediante l’impiego di gameti appartenenti alla coppia, e quelle che, invece, sono costrette a ricorrere alla donazione di uno o entrambi i gameti da parte di un soggetto esterno. La discriminazione sorgerebbe, dunque, in quanto solo alcune coppie infertili, con problemi risolvibili con tecniche di tipo omologo, possono legittimamente avvalersi del rimedio della fecondazione assistita.

Sulla questione della legittimità del divieto di fecondazione eterologa è intervenuta anche la Corte europea dei diritti dell’uomo (1° aprile 2010) su ricorso di due coppie austriache sterili che contestavano la legge del proprio Paese, stabilendo che il divieto assoluto di fecondazione eterologa non è compatibile con la Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU), comportando una lesione del diritto alla vita familiare ed una infrazione al divieto di discriminazione, in violazione dell’art. 8 di detta Convenzione, che sancisce il rispetto della vita privata e familiare. Per la Corte di Strasburgo, infatti, l’art. 8 della CEDU va inteso in un’accezione ampia, in grado di ricomprendere anche la scelta di diventare genitori, per cui il diritto di avvalersi di tecniche di procreazione medicalmente assistita allo scopo di concepire un bambino costituisce espressione della vita privata e familiare. Tanto premesso, persone che si trovano in una stessa situazione di infertilità non possono essere trattate diversamente solo in ragione della diversa tecnica di fecondazione da praticare, con la logica conseguenza che, se un Paese consente la fecondazione omologa, non può vietare quella eterologa.

Successivamente, la Grande Camera della Corte europea dei diritti umani, al cui giudizio collegiale è ricorsa l’Austria, con una netta inversione di rotta, ha di fatto dato ragione al Governo austriaco, affermando che il divieto del ricorso alla fecondazione eterologa non comporta una violazione dell’art. 8 della CEDU. Anzi, con il legittimare le pratiche di fecondazione eterologa, che prevedono l’intervento di una terza persona che fornisce ovuli o spermatozoi, si rischierebbe di dar vita a legami inusuali sotto il profilo biologico (sent. 3 novembre 2011, n. 5781/00).

Era inevitabile, a questo punto, che tale ultima pronuncia, con cui si è affermata in sostanza la prevalenza del principio di diritto relativo alla certezza dell’identità, fosse destinata a spiegare effetto anche nel nostro Paese, avendo la Corte costituzionale sospeso le questioni sollevate innanzi a sé proprio in attesa della decisione della Grande Camera. Ci si aspettava da più parti che, di fronte ai ricorsi presentati contro la L. 40/2004, imperniati sull’aspetto discriminatorio della stessa e invocanti il rispetto del principio di eguaglianza e del diritto alla salute, la Corte costituzionale si facesse portavoce, nel nostro ordinamento, dell’orientamento espresso dalla Corte europea.

La intervenuta decisione della Consulta, invece, non ha preso una netta posizione sulla questione, in quanto non ha bocciato la questione di incostituzionalità né ha dato via libera definitivo alla L. 40/2004, ma ha semplicemente invitato i Tribunali ricorrenti a considerare la sentenza della Camera Grande della Corte di Strasburgo, rivalutando la questione alla luce del principio ivi enunciato per decidere se riproporre il giudizio di costituzionalità alla Consulta, perché secondo loro continua a sussistere un contrasto con la Costituzione italiana, o invece considerare che, sulla scorta della sentenza europea, l’incostituzionalità non esiste più. In sostanza occorre valutare se la ratio decidendi sottesa alla sentenza della Corte europea può essere considerata valida anche per il divieto di fecondazione eterologa di cui alla legge del 2004.

I giudici a quo sono stati dunque chiamati ad interpretare la norma interna in modo conforme alla disposizione internazionale avvalendosi di tutti i normali strumenti di ermeneutica giuridica; solo qualora ciò non sia possibile, egli deve investire la Corte costituzionale delle relative questioni di legittimità costituzionale rispetto al parametro dell’art. 117, co. 1, Cost. Effetto proprio delle sentenze della Corte europea che, interpretando la Convenzione, integrano il parametro interposto nel giudizio di legittimità costituzionale relativo al profilo dell’art. 117, co. 1, Cost., è infatti quello di orientare l’interpretazione dei giudici italiani in modo da garantire il rispetto, da parte del diritto nazionale, della Convenzione europea.

Nella tanto attesa sentenza, la Consulta ha pertanto imposto la sperimentazione da parte del giudice nazionale dell’interpretazione conforme alla C.E.D.U., con l’attivazione dello strumento dell’incidente di costituzionalità soltanto ove tale preliminare approccio interpretativo dovesse fallire. L’esito della vicenda non sembra tuttavia scontato, in quanto è vero che la sentenza di Strasburgo ha sancito la legittimità del divieto di fecondazione eterologa, ma in modo parziale, prescrivendosi infatti ai singoli Stati di adeguare la propria legislazione ai progressi delle tecniche. Il fatto che la Corte di Strasburgo abbia invitato esplicitamente tutti i Paesi aderenti alla CEDU ad adeguarsi ai cambiamenti della società potrebbe interpretarsi come un chiaro monito all’Italia. I casi portati all’attenzione della Corte costituzionale presentano, infatti, profili differenti rispetto alla vicenda austriaca, per i quali si chiede l’eliminazione delle discriminazioni oggi esistenti tra coppie infertili dal punto di vista sanitario e il riconoscimento di un diritto di autodeterminazione e di scelta sulla propria vita familiare. Rispondendosi all’invito della Corte europea, la modifica della L. 40/2004 su questo punto risponderebbe a criteri di ragionevolezza e di tutela in osservanza dei principi della Costituzione italiana di non discriminazione, sui quali la pronuncia di Strasburgo non si è espressa.

 

 

 

 

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