Diritto di abitare casa coniugale spetta solo nell’interesse dei figli non autosufficienti?

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Diritto di abitare casa coniugale: a fronte dell’interpretazione unanime della giurisprudenza nel non ritenere possibile procedere all’assegnazione della casa coniugale o dove si è volta la convivenza, al coniuge/convivente non proprietario in assenza di figli non autosufficienti, il presente contributo si pone l’obiettivo di esaminare la ratio e la funzione del diritto di abitazione ex art. 1022 c.c. in combinato alla previsione dell’art. 337 sexies c.c. al fine di prospettare una soluzione diversa, più in linea con il dettato normativo e più coerente con il principio personalistico e solidaristico che permea l’ordinamento giuridico, che vede il bisogno del coniuge o del convivente non proprietario assumere un ruolo di rilievo al pari dell’interesse dei figli, sebbene quest’ultimo debba essere valutato in via prioritaria ma, soprattutto non dipendente da quest’ultimo.

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Indice

1. Il diritto di abitazione

In via preliminare, si deve precisare che il diritto di abitazione, disciplinato dall’art. 1022 c.c. non coincide con il concetto di abitazione. Infatti, per abitazione si intende un luogo in cui una persona trascorre la maggiorparte del suo tempo ed è quindi connesso all’identificazione di un luogo fisico in cui individuare un certo soggetto al pari del concetto di residenza e dimora ex art. 3, DPR 30 maggio 1989 n. 223. Come si evince dal disposto dell’art. 1022 c.c., invece, il diritto di abitazione di un immobile consiste nel diritto di una persona di abitarlo “limitatamente ai bisogni suoi e della sua famiglia”. Ne consegue che la prospettiva da cui analizzare il diritto di abitazione è ben diversa dal concetto di abitazione per come inteso sopra. Invero, sebbene il diritto di abitazione sia strettamente connesso ad un immobile, data la stretta correlazione tra l’abitare e l’oggetto materiale su cui inevitabilmente si rapporto quest’ultimo, esso è finalizzato esclusivamente a garantire ad una persona di soddisfare i suoi bisogni e quelli della sua famiglia. Ne consegue, a forziori, che il diritto di abitazione sia garantito solo in questo senso e che, dunque, vige il divieto di fare un uso della casa in modo diverso dall’abitazione diretta del titolare del diritto e dei suoi familiari (cfr. Cass.civ. Sez. II, n. 14687 del 2014). A differenza dell’uso e dell’usufrutto, infatti, il diritto di abitazione risulta circoscritto alla soddisfazione del bisogno di abitare e pertanto i poteri del proprietario risultano meno compressi. Tanto è dimostrato che, ove, il bisogno personale e/o della famiglia venga ritenuto soddisfatto, anche il diritto del proprietario di fare uso e di godere dell’abitazione può trovare estrinsecazione e quindi potendo concorrere, non esistendo alcuna incompatibilità fra i medesimi, ove il primo, appunto, essenso prevalente, abbia raggiunto il grado di soddisfazione necessario a raggiungere la finalità predisposta per legge (bisogni).
Per come ricostruito dalla giurisprudenza, il diritto di abitazione non viene inquadrato nel rango dei diritti personali di godimento ma, nel genus dei diritti reali e nella specie in un diritto reale limitato su cosa altrui, sulla stessa scia del diritto di uso e dell’istituto dell’usucapione. Ne consegue che, anche nel caso del diritto di abitazione vi è una scissione tra il proprietario dell’immobile, che diviene nudo proprietario e chi ne trae godimento, il titolare del diritto di abitazione. Come tutti i diritti reali minori, anche il diritto di abitazione, quindi, va ad incidere, limitandone l’estensione, sui diritti e sui poteri del proprietario, almeno fino a quando il diritto di abitazione non si estingua (morte, rinuncia) oppure non si verifichi una violazione delle finalità del diritto stesso, l’abitare per i bisogni di una persona o di una sua famiglia. In particolare, la chiave di lettura dell’estensione di tale diritto, risiede proprio nel riferimento ai bisogni di una persona, intesa nellla sua individualità o con riferimento al nucleo familiare. Ne consegue che, l’ordinamento giuridico improntato alla tutela della persona da una parte e alla tutela della famiglia dall’altra ha predispsoto tutta una serie di strumenti giuridici atti a proteggere i medesimi. E’ nell’ottica della protezione della persona e della famiglia che deve intendersi tale diritto. Un esempio diretto di tale ottica finalistica la si rinviene in materia successoria ove l’art. 540 co. II c.c. delinea l’unica ipotesi di costituzione legale del diritto di abitazione il quale, prevede a favore del coniuge superstite, anche quando concorra con altri chiamati, il diritto di abitare la casa adibita a residenza familiare e il diritto di fare uso dei beni mobili che la corredano ex art. 1021 c.c. Chiaro è l’intento del legislatore, garantire cioè la continuità degli affetti e delle abitudini legate al rapporto di coniugio, che non può subire conseguenze pregiudizievoli ulteriori rispetto alla perdita del coniuge stesso.
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2. Il diritto di abitare la casa coniugale e l’interesse dei figli non autosufficienti

Si è detto che il diritto di abitazione si contraddistingue per la specifica finalità a cui è diretto e per il quale sussiste traendone la sua ratio: la soddisfazione di bisogni personali di una persona e di quelli della sua famiglia. Si è fatto, inoltre, specifico riferimento all’unica impotesi di diritto di abitazione stabilito per legge e consistente nel diritto del coniuge superstite nell’abitare la casa coniugale a riprova del fatto che l’ordinamento ha come obiettivo quello di assicurare la tutela del rapporto di coiugio e dal quale discendono esigenze di vita particolari, legami concreti e sentimentali che non possono essere recisi da un evento naturale, quale la morte di uno dei due coniugi, contro il quale nulla può la volontà umana. Quest’ultimo inciso costituisce la base di partenza per procedere con l’analisi del diritto di abitazione della casa coniugale nei casi di separazione e divorzio, eveni quest’ultimo che incidono fortemente sui rapporti personali e relazionali dei coniugi fino a reciderli quasi del tutto nel caso del divorzio e che sicuramente non possono inquadrarsi in eventi naturali indipendenti dalla volontà dei medesimi, anzi, ben può affermarsi il contrario. Dunque, nel caso in cui la casa adibita alla conduzione della vita coniugale sia in proprietà di uno dei coniugi e intervenga tra loro la separazione, il coniuge non proprietario ha il diritto di continuare ad abitarvi? Secondo quanto emerge dalla giurisprudenza tale diritto dipende, in linea generale, dall’esistenza o meno di figli non autosufficienti. Infatti, come si evince dalla recente sentenza della Cassazione del 2022, n. 26272 vertente sulla perdita del diritto di abitazione e sul contestuale automento dell’assegno di mantenimento, si può dedurre che, in assenza di figli, l’ordinamento non riconosce in capo al coniuge non proprietario il diritto di continuare ad abitare la casa coniugale ma, la perdita dello stesso costituisce un valore economico da dover considerare nella determinazione del quantum del mantenimento, in coerenza con quanto stabilito dalla meno recente sentenza della Cassazione n. 15772 del 2005 “l’assegnazione della casa familiare incide sulla posizione economica dei coniugi separati con figli o senza e ciò va tenuto presente nella determinazione dell’assegno di mantenimento”. Di converso, è principio ormai noto, come già accennato sopra, che il diritto di abitazione venga riconosciuto al coniuge non proprietario ma collocatario dei figli quando questi risultino non autosufficienti. Ne consegue che l’esigenza prioritaria è tutelare la sana crescita della prole che sarebbe fortemente minata dal cambiamento del luogo in cui sta crescendo. In tal caso, vige un regime differente, in capo al proprietario della casa permane una nuda proprietà destinata a riespandersi al venir meno dell’uso del bene da parte dell’ex coniuge o ex convivente (nel caso di rapporto di convivenza) mentre in relazione alla parte opposta è come se si verificasse una scissione tra chi risulta essere formalmente il destinatario del diritto di abitazione e cioè l’ex coniuge/convivente e il centro degli interessi che il diritto intende soddisfare, il bisogno della prole. Tanto è dimostrato dall’impossibilità per l’ex coniuge/convivente quando non vi siano figli minori o quando questi siano maggiorenni e  in grado si sostenersi autonomamente, di richiedere l’assegnazione della casa familiare, con l’unica possibilità, quando vi siano i requisiti e quando questi risultino provati di ricevere un esborso monetario, che può consistere in un esborso pro quota nel caso di contribuzione all’acquisto e/o alla ristrutturazione dell’immobile e/o nell’incremento dell’assegno di mantenimento. Solo l’interesse dei figli, quindi, può giustificare la limitazione ai diritti e ai poteri del proprietario o titolare di altri diritti sulla casa. Ne consegue che i bisogni dell’ex coniuge/convivente non assumono alcun rilievo.
Ma, tale conclusione può ritenersi coerente con le finalità espresse dal diritto di abitazione ex art. 1022 c.c. e con l’assetto valoriale costituzionale in relazione alla tutela della famiglia nell’ottica delle persone che la compongono e non più come istituto, in relazione al principio valvola della solidarietà sociale?
L’interpretazione giurisprudenziale sul punto è univoca, nel senso di riconoscere il diritto di abitazione solo nell’ottica di tutelare l’interesse dei figli non autosufficienti. Tale approdo ermeneutico trae la sua base giuridica dal disposto dell’art. 337 sexies c.c., dedicato proprio all’assegnazione della casa familiare il quale, recita: “Il godimento della casa familiare è attribuito tenendo prioritariamente conto dell’interesse dei figli. Dell’assegnazione il giudice tiene conto nella regolazione dei rapporti economici tra i genitori, considerato l’eventuale titolo di proprietà. Il diritto al godimento della casa familiare viene meno nel caso che l’assegnatario non abiti o cessi di abitare stabilmente nella casa familiare o conviva more uxorio o contragga nuovo matrimonio. Il provvedimento di assegnazione e quello di revoca sono trascrivibili e opponibili a terzi ai sensi dell’articolo 2643. In presenza di figli minori, ciascuno dei genitori è obbligato a comunicare all’altro, entro il termine perentorio di trenta giorni, l’avvenuto cambiamento di residenza o di domicilio. La mancata comunicazione obbliga al risarcimento del danno eventualmente verificatosi a carico del coniuge o dei figli per la difficoltà di reperire il soggetto”. Ci si soffermi sul contenuto di tale disposizione mantenendo da sfondo quanto affrontato in tema di diritto di abitazione ex art. 1022 c.c., con la consapevolezza che una norma speciale quale è il disposto dell’art. 337 sexies deroga ad una norma generale quale è la prima. Sebbene, in tal caso bisogna fare riferimento solo alla disposizione speciale comunque l’analisi della sua disposizione non ci pare in linea con quanto viene ritenuto valevole dalla giurisprudenza. In altre parole, dall’esame dell’art. 337 sexies c.c., secondo l’opinione di chi scrive, non si esclude la possibilità di procedere ad assegnare la casa coniugale all’ex coniuge non proprietario, anche a prescindere dalla presenza di figli e quindi non si esclude la rilevanza dei suoi bisogni. Infatti, già dal primo inciso la norma non fa altro che stabilire una guida sulla valutazione degli interessi sostanziali del caso concreto. In particolare, si fa riferimento all’interesse dei figli che deve essere tenuto in considerazione in via prioritaria e di converso non esclude la valutazione degli ulteriori interessi, anzi, la presuppone. La norma prosegue con l’introduzione del criterio della regolazione dei rapporti economici tra i genitori che deve basarsi tenendo in considerazione sia l’avvenuta assegnazione della casa che del titolo di proprietà. Particolare attenzione è da dedicare al terzo inciso dove si stabilisce il venir meno del diritto al godimento della casa familiare con riferimento ad eventuali situazioni che vadano a mutare le condizioni, di bisogno, dell’assegnatario e in particolare quando quest’ultimo non abiti più o cessi di abitare in maniera stabile nella casa familiare o quando avvii una convivenza more uxorio, oppure contragga nuovo matrimonio. Come si può agevolmente capire, quest’ultimo inciso fa riferimento a mutamenti sostanziali della condizione personale dell’assegnatario. Infatti, la legge presume che, sia nel caso in cui vi sia l’abbandono della casa familiare, in via assoluta o in maniera stabile, sia nel caso dell’instaurazione di un nuovo progetto di vita relazionale con una nuova persona, l’assegnatario non abbia più quei bisogni personali posti a fondamento del diritto di abitare la casa coniugale insito nel provvedimento di assegnazione. Inoltre, centrale è la situazione personale dell’assegnatario a prescindere dalla presenza o meno di figli, tanto è dimostrato dall’assenza di riferimenti a quest’ultimi. Ancora, si può affermare che proprio la cessazione del diritto di abitare la casa coniugale in presenza di determinati mutamenti nella condizione dell’assegnatario o di scelte che ne dimostrino la cessazione dell’interesse, quale è l’abbandono della casa, è indicativo del fatto che l’interesse dei figli, sebbene sia da valutare in via prioritaria, comunque non costituisce a priori quello da dover tutelare nel caso concreto, altrimenti non si prevederebbe una simile impostazione, incentrata sulla perdita automatica del diritto di abitare la casa coniugale al verificarsi delle suddette circostanze, gli ulteriori incisi della norma esulano dal focus dell’argomento che si sta affrontando perchè riguardano effetti ulteriori e diversi inerenti altri tipi di rapporti (con i terzi rispetto all’opponibilità dell’assegnazione se trascritta e tra i genitori e i figli nel caso di mutamento residenza o di domicilio). Di converso, come affermato dalla giurisprudenza, in presenza di figli non autosufficienti nel caso dell’instaurazione di una nuova convivenza da parte dell’assegnatario, il diritto di abitare la casa coniugale e con esso il provvedimento di assegnazione non viene meno in maniera automatica ma, solo a fronte dell’esame del caso concreto e del bilanciamento degli interessi coinvolti e degli effetti concreti derivanti dalle scelte poste in essere, sia con riferimento alla decisione di convivere dell’assegnatario, sia con riferimento a quelli che si verificherebbero nei confronti dei figli a seguito della revoca dell’assegnazione della casa coniugale.

3. Considerazioni conclusive

Come si è avuto modo di osservare, l’esame della disposizione dell’art. 337 sexies c.c. in relazione alla logica insita nel diritto di abitazione ex art. 1022 c.c. in combinato alla previsione stabilita per legge ex art. 540 co. II c.c. ci consente di affermare che non è normativamente corretto incentrare l’assegnazione della casa familiare sulla base della presenza o meno di figli non autosufficienti, pena lo svuotamento della ratio e della funzione del diritto di abitazione di cui l’assegnazione è estrinsecazione. Non solo, procedere in tal senso risulta non coerente con la stessa disposizione dell’art. 337 sexies c.c. che, come si è dimostrato, non postula né alcun automatismo, né alcuna esclusione di centri di interessi, né tanto meno sancisce il connubio che la giurisprudenza sembra aver abbracciato in maniera consolidata: no figli no assegnazione! Bisogna, invece, mantenere fede non solo alla norma in sé ma, anche all’assetto finalistico insito nel diritto di abitazione in generale e pertanto procedere alla valutazione del caso concreto tenendo in considerazione le linee guida dettate dall’art. 337 sexies c.c.. Nulla, infatti, esclude che il coniuge non proprietario si trovi nell’effettivo bisogno di continuare ad abitare la casa coniugale perchè impossibilitato, per motivazioni diverse, a trovarne una nuova e ridurre questo suo stato di bisogno ad un semplice rimborso monetario sarebbe, non solo non in linea con la ratio del diritto di abitazione ma, anche non coerente con il principio personalistico e solidaristico su cui si fonda l’intero ordinamento giuridico e soprattutto non coerente con la previsione normativa stessa. Si auspica, quindi, un’apertura della giurisprudenza verso il riconoscimento del diritto di abitare la casa coniugale in capo al coniuge assegnatario non proprietario anche in assenza di figli, ove le esigenze del caso concreto dimostrino l’effettivo stato di bisogno del medesimo non superabile attraverso il ricorso ad esborsi di tipo monetario.

Francesca Fuscaldo

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