Declaratoria d’incostituzionalità: al giudice dell’esecuzione il potere di riconoscere l’estinzione del reato

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Nel caso di declaratoria di incostituzionalità va riconosciuto al giudice dell’esecuzione il potere di intervenire anche in ordine alla sussistenza di cause estintive del reato, che il giudice della cognizione avrebbe avuto l’obbligo di dichiarare in presenza della norma costituzionalmente compatibile.

(Annullamento con rinvio)

(Orientamento confermato)

(Normativa di riferimento: C.p.p. art. 673)

Il fatto

La Corte di appello di Napoli, con ordinanza del 13/3/2017  rigettava la richiesta presentata dalla Procura Generale in sede di incidente di esecuzione ed avente ad oggetto la revoca della sentenza di condanna emessa dalla Corte medesima 9/4/2014, irrevocabile il 16/6/2015, quale conseguenza della declaratoria di incostituzionalità dell’art. 181 comma 1-bis d.lgs. 42/2004.

I motivi addotti nel ricorso per Cassazione

Avverso tale pronuncia l’istante proponeva ricorso per cassazione tramite il proprio difensore di fiducia, deducendo la violazione di legge ed il vizio di motivazione, lamentando che la Corte territoriale non avrebbe considerato l’applicabilità, nella fattispecie, dell’art. 30 l. 87/1953 così come interpretato dalla giurisprudenza di questa Corte, limitandone l’efficacia al trattamento sanzionatorio da scontare e non anche alla prescrizione.

Insisteva pertanto per raccoglimento del ricorso.

La posizione dalla Procura generale 

Dal canto suo il Procuratore generale, nella sua requisitoria scritta, concludeva per l’annullamento con rinvio dell’ordinanza impugnata.

Le valutazioni giuridiche della Corte di Cassazione

La Corte di Cassazione accoglieva il ricorso proposto alla stregua delle seguenti considerazioni.

Al riguardo si osservava prima di tutto come la questione da doversi affrontare riguardasse le conseguenze derivanti dalla sentenza n. 56 del 23 marzo 2016, con la quale la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art.. 181, comma 1-bis, del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell’articolo 10 della legge 6 luglio 2002, n. 137), nella parte in cui prevede «: a) ricadano su immobili od aree che, per le loro caratteristiche paesaggistiche siano stati dichiarati di notevole interesse pubblico con apposito provvedimento emanato in epoca antecedente alla realizzazione dei lavori; b) ricadano su immobili od aree tutelati per legge ai sensi dell’articolo 142 ed», sicché il reato originariamente contestato come delitto deve ora essere qualificato, in tali ipotesi, quale violazione di natura contravvenzionale (art. 181, comma 1 d.lgs. 422004) occorrendo in particolare verificare quali siano gli effetti dell’intervento della Corte costituzionale sulle sentenze di condanna già passate in giudicato con le quali l’imputato è stato condannato per condotte allora ancora qualificate come delittuose.

Premesso ciò, i giudici di Piazza Cavour osservavano come analoga questione fosse stata già affrontata e risolta recentemente da questa Corte in due coeve decisioni con articolate argomentazioni, condivise dal Collegio, alle quali si rinvia (Sez. 3, n. 38691 del 11/7/2017, Giordano, Rv. 271301; Sez. 3, n. 52438 del 11/07/2017, Scamardella, non massimata) prendendosi atto come nelle citate decisioni fosse stato sostanzialmente riconosciuto al giudice dell’esecuzione, quando ritualmente investito, il potere di intervenire – nella misura consentita da rapporti non esauriti e con l’esclusione di questi – sulla sentenza irrevocabile, privandola degli elementi definiti “inquinanti“, oggetto della declaratoria di incostituzionalità, che debbono essere eliminati ab origine perché tamquam non fuissent; nei medesimi termini, dunque, nei quali si sarebbe pronunciato il giudice della cognizione, qualora intervenuto successivamente alla sentenza della Corte costituzionale.

Gli Ermellini, in questa decisione, evidenziavano in particolar modo che, quale strumento per risolvere i problemi posti dalle declaratorie di incostituzionalità che attengono al mutato trattamento sanzionatorio, ma che si possono estendere alla sussistenza di cause estintive del reato, che il giudice della cognizione avrebbe avuto l’obbligo di dichiarare in presenza della norma costituzionalmente compatibile, le citate decisioni individuassero l’art. 30, comma quarto, della legge n. 87 del 1953, ritenuto di maggiore ampiezza, per quanto di interesse nel caso specifico, rispetto alla norma codicistica di cui all’art. 673 cod. proc. pen. atteso che, in siffatti casi, il giudice dell’esecuzione non si imbatte nello sbarramento previsto dal combinato disposto di cui agli artt. 673 e 676 cod. proc. pen., in quanto, siccome la causa estintiva non era stata dichiarata dal giudice della cognizione per effetto dell’applicazione della norma ratione temporis vigente ma poi dichiarata invalida perché incostituzionale, l’intervenuta declaratoria di incostituzionalità, rimossa con efficacia ex tunc la disposizione “inquinante“, impone al giudice dell’esecuzione la rideterminazione della pena, se al momento del giudizio non era maturata alcuna causa estintiva o, nel caso contrario, di dichiararla, ora per allora, rimanendo assorbita la questione del trattamento sanzionatorio dalla rimozione del giudicato di condanna e dei suoi effetti, come esige l’art. 30, comma quarto, legge n. 187 del 1953.

Posto ciò, venendo a trattare il caso sottoposto al loro vaglio giudiziale, i giudici di legittimità ordinaria mettevano in risalto come la prescrizione, per i reati contravvenzionali, fosse stata già dichiarata nel giudizio del merito ma la Corte territoriale, tuttavia, pur richiamando la giurisprudenza di questa Corte e le disposizioni in concreto applicabili, aveva ritenuto di non poter intervenire sulla sentenza di condanna in quanto l’intervento della Corte costituzionale spiega i suoi effetti esclusivamente sul trattamento sanzionatorio aggiungendo altresì l’ulteriore considerazione secondo la quale all’accoglimento della richiesta della Procura Generale osterebbe l’intangibilità del giudicato e l’inapplicabilità dell’art. 673 cod. proc. pen., perché limitata all’abolizione della norma la revoca della sentenza definitiva e dell’art. 30 legge 87/1953 perché investe i soli effetti penali della condanna tra i quali non rientrano la sanzione, che della condanna è una conseguenza e la prescrizione che non è un effetto penale della stessa.

Ebbene, tale iter argomentativo veniva ritenuto non condivisibile da parte della Cassazione poiché in contrasto con i richiamati principi enunciati nelle decisioni summenzionate le quali, proprio sulla base delle disposizioni applicate, dopo articolata disamina della giurisprudenza costituzionale e di legittimità, vi individuava la base normativa sulla quale poggia la possibilità, per il giudice dell’esecuzione, di dichiarare “ora per allora“, entro i limiti specificati, la prescrizione del reato, incidendo così sul “giudicato della pena” senza tuttavia scalfire il “giudicato sull’accertamento“, restando non intaccato in alcun modo l’accertamento del fatto, nei suoi elementi costitutivi e la sua riferibilità all’imputato (così, Sez. 3, n. 38691 del 11/7/2017, Giordano, Rv. 271301, cit.).

Conclusioni

La sentenza si appalesa condivisibile perché si innesta lungo il solco di un orientamento nomofilattico consolidato.

Va da sé quindi che ove il giudice dell’esecuzione, chiamato a decidere a seguito di declaratoria di incostituzionalità di una norma, non dovesse rilevare la prescrizione di un reato, o altra causa estintiva del medesimo, che avrebbe dovuto dedurre il giudice della cognizione per effetto dell’applicazione della norma ratione temporis vigente ma poi dichiarata invalida perché incostituzionale, dovrà proporsi ricorso per Cassazione avvalendosi all’uopo di quanto enunciato dalla Cassazione in questa pronuncia (e in quelle precedenti).

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