Cosa distingue l’attività ispettiva da quella di indagine preliminare

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Il fatto

Il Tribunale di Siena dichiarava l’imputato colpevole del reato di cui agli artt. 71, comma 1, e 87, n. 1), lett. b), d.lgs. n. 81 del 2008, e, previa applicazione delle circostanze attenuanti generiche, lo condannava alla pena di 3.000,00 euro di ammenda.

I motivi addotti nel ricorso per Cassazione

Avverso il provvedimento summenzionato era proposto ricorso per Cassazione con cui erano dedotti i seguenti motivi: 1) erronea applicazione degli artt. 71, comma 1, e 87, n. 1), lett. b), d.lgs. n. 81 del 2008, nonché degli artt. 63, 191, 194, 195, comma 4, cod. proc. pen. per mancanza di prova della propria qualifica di “datore di lavoro“; 2) travisamento della visura camerale dalla quale risultava che l’impresa dell’imputato non era più operativa dal 2013, in quanto fallita, e della testimonianza di quest’ultimo nella parte in cui costui aveva riferito di non sapere a chi appartenessero i beni strumentali (betoniera a frullino) rinvenuti in occasione della verifica.

Le valutazioni giuridiche formulate dalla Cassazione

Il ricorso era ritenuto infondato per le seguenti ragioni.

Quanto al primo motivo, in punto di diritto, una volta osservato che, secondo l’art. 220, disp. att. c.p.p., «quando nel corso di attività ispettive o di vigilanza previste da leggi o decreti emergono indizi di reato, gli atti necessari per assicurare le fonti di prova e raccogliere quant’altro possa servire per l’applicazione della legge penale sono compiuti con l’osservanza delle disposizioni del codice», gli Ermellini facevano presente che il confine tra l’attività ispettiva e quella di indagine preliminare è segnato dalla mera possibilità di attribuire comunque rilevanza penale al fatto che emerge dall’inchiesta amministrativa e nel momento in cui emerge, a prescindere dalla circostanza che esso possa essere riferito ad una persona determinata (Sez. U, n. 45477 del 28/11/2001; Sez. 3, n. 31223 del 04/06/2019; Sez. 2, n. 2601 del 13/12/2005).

Orbene, a fronte di ciò, il fatto che l’attività ispettiva era stata effettuata nella fattispecie in esame da un maresciallo dei carabinieri, in quanto tale ufficiale di polizia giudiziaria (art. 55, comma 1, lett. b, cod. proc. pen.), ad avviso del Supremo Consesso, non qualificava l’attività ispettiva e di vigilanza posta in essere come indagine preliminare ai sensi del codice di rito.

Invero, anche gli ispettori del lavoro, nei limiti del servizio a cui sono destinati, e secondo le attribuzioni ad essi conferite dalle singole leggi e dai regolamenti, sono ufficiali di polizia giudiziaria (art. 8, d.P.R. 19 marzo 1955, n. 520, Riorganizzazione centrale e periferica del Ministero del lavoro e della previdenza sociale), così come sono altresì ufficiali di polizia giudiziaria gli addetti ai servizi di ciascuna unità sanitaria locale, nonché ai dipartimenti di prevenzione, in relazione alle funzioni ispettive e di controllo da essi esercitate relativamente all’applicazione della legislazione sulla sicurezza del lavoro (art. 21, legge 23 dicembre 1978, n. 833).

Ciò che rileva, dunque, per la Corte di legittimità, è esclusivamente lo svolgimento di un’attività ispettiva o di vigilanza nel corso della quale possano emergere indizi di reato; l’attività di indagine preliminare, invece, presuppone l’esistenza di una “notitia criminis”.

Di conseguenza, in relazione alla considerazioni giuridiche sin qui enunciate, ad avviso dei giudici di piazza Cavour, la questione posta dal ricorrente riguardava l’individuazione del momento esatto nel quale l’UPG aveva accertato l’esistenza della violazione penalmente rilevante trattandosi, dunque, di una questione di fatto che logicamente precede quella relativa alla inutilizzabilità della prova e che non può essere proposta per la prima volta in sede di legittimità se richiede valutazioni di fatto su cui è necessario il previo vaglio, in contraddittorio, da parte del giudice di merito (cfr. Sez. 6, n. 18889 del 28/02/2017; Sez. 6, n. 43534 del 24/04/2012; Sez. 6, n. 21877 del 24/05/2011; Sez. 4, n. 2586 del 17/12/2010).

Il ricorso, sul punto, per la Corte, era del tutto silente, oltre che generico, avendo posto la questione in termini assertivi di errata applicazione delle norme sostanziali e processuali indicate nel titolo del primo motivo senza alcun riferimento alla concreta dinamica dell’accertamento.

Ciò posto, il secondo motivo era reputato inammissibile perché reputato manifestamente infondato e proposto al di fuori dei casi consentiti dalla legge nella fase di legittimità.

Difatti, era a tal proposito fatta presente, una volta dedotto che, nella logica decisoria, le risultanze della visura camerale hanno un peso decisivo, insieme con il comportamento tenuto dall’imputato che ha adempiuto alle prescrizioni imposte, come il ricorrente avesse dedotto il travisamento della visura ma, in violazione del principio di autosufficienza del ricorso, non aveva allegato il documento al ricorso.

Invece, quando si deduce la omessa valutazione o il travisamento del contenuto di specifici atti del processo penale, evidenziava la Suprema Corte nella decisione qui in commento, è onere del ricorrente, in virtù del principio di “autosufficienza del ricorso“, suffragare la validità del suo assunto mediante la completa trascrizione dell’integrale contenuto degli atti medesimi (ovviamente nei limiti di quanto era già stato dedotto in sede di appello), dovendosi ritenere precluso al giudice di legittimità il loro esame diretto a meno che il “fumus” del vizio dedotto non emerga all’evidenza dalla stessa articolazione del ricorso (Sez. 2, n. 20677 dell’11/04/2017; Sez. 4, n. 46979 del 10/11/2015; Sez. F. n. 37368 del 13/09/2007).

Per la Cassazione, è necessario, pertanto: a) identificare l’atto processuale omesso o travisato; b) individuare l’elemento fattuale o il dato probatorio che da tale atto emerge e che risulta incompatibile con la ricostruzione svolta nella sentenza; c) dare la prova della verità dell’elemento fattuale o del dato probatorio invocato, nonché della effettiva esistenza dell’atto processuale su cui tale prova si fonda; d) indicare le ragioni per cui l’atto inficia e compromette, in modo decisivo, la tenuta logica e l’intera coerenza della motivazione, introducendo profili di radicale “incompatibilità” all’interno dell’impianto argomentativo del provvedimento impugnato (Sez. 6, n. 45036 del 02/12/2010).

All’opposto, il comportamento tenuto dall’imputato, che aveva adempiuto alle prescrizioni, non può, per la Suprema Corte, essere liquidato come “tutt’altro che univoco“, trattandosi di condotta che dimostrava l’effettiva titolarità dell’impresa da parte del ricorrente.

Il ricorso proposto, di conseguenza, era rigettato e il ricorrente condannato al pagamento delle spese processuali.

Conclusioni

La decisione in esame desta un certo interesse in quanto, con essa, è precisata la distinzione tra attività ispettiva e quella di indagine preliminare.

Difatti, in tale pronuncia, sulla scorta di plurimi precedenti conformi, si afferma che il confine tra l’attività ispettiva e quella di indagine preliminare è segnato dalla mera possibilità di attribuire comunque rilevanza penale al fatto che emerge dall’inchiesta amministrativa e nel momento in cui emerge, a prescindere dalla circostanza che esso possa essere riferito ad una persona determinata, in guisa tale che rileva, per l’attività ispettiva, esclusivamente lo svolgimento di un’attività ispettiva o di vigilanza nel corso della quale possano emergere indizi di reato mentre l’attività di indagine preliminare, invece, presuppone l’esistenza di una “notitia criminis”.

Tale pronuncia, quindi, può essere presa nella dovuta considerazione ogni volta si debba verificare se una data attività sia configurabile come attività ispettiva ovvero attività di indagine preliminare.

Il giudizio in ordine a quanto statuito in siffatta sentenza, proprio perché contribuisce a fare chiarezza su codesta problematica giuridica, dunque, non può che essere positivo.

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