Il concorso tra pubblico e privato nel sistema sanitario: focus normativo e giurisprudenziale

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 La progressiva riforma del SSN

La Carta costituzionale afferma il carattere sociale della salute e, di conseguenza, l’obbligo per lo Stato di promuovere iniziative e adottare precisi comportamenti volti alla sua tutela.

L’analisi della giurisprudenza – in particolare di quella costituzionale – consente di individuare l’ambito concreto di operatività del diritto alla salute e di delineare la sua progressiva evoluzione all’interno delle diverse fasi di riforma del SSN.

Il legislatore, difatti, anche in campo sanitario, si è spesso limitato a sanare le lacune normative dell’ordinamento, anziché prevenire l’insorgenza dei bisogni attraverso un modello organizzativo idoneo a fornire risposte adeguate e tempestive, così come è avvenuto, per oltre trent’anni, nella mancata attuazione del precetto di cui all’articolo 32 della Costituzione.

Invero, solo con la legge 23 dicembre 1978, n. 833[1], il legislatore riconosce la natura precettiva – e non meramente programmatica – del diritto alla tutela della salute costituzionalmente garantito.

Il sistema sanitario, antecedente la riforma del 1978, si fondava su un modello mutualistico-assicurativo, caratterizzato dalla presenza di una pluralità di enti e organizzazioni – che erogavano l’assistenza sanitaria sul territorio – e finanziato con i contributi versati dai lavoratori e dai loro datori di lavoro. Il concetto di salute era, dunque, fortemente correlato allo status di lavoratore (o di suo familiare) con la conseguente mancanza di copertura per coloro i quali fossero privi di una regolare posizione lavorativa[2]. Si registrava, dunque, una forte sperequazione tra gli assistiti, posta la disomogeneità delle prestazioni assicurate a seconda della mutua di appartenenza e del contesto geografico.

Questi elementi di debolezza del sistema mutualistico spinsero verso una radicale riforma dell’organizzazione sanitaria italiana che si ebbe, appunto, con la riforma del 1978, istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale e fondata su tre concetti chiave: territorio, partecipazione e prevenzione.

Dalla lettura dei primi tre articoli della legge emerge, ictu oculi, una nuova connotazione del diritto alla tutela della salute, più aderente ai principi costituzionali[3].

Il Servizio Sanitario Nazionale rappresenta una consistente – nonché rivoluzionaria – novità nel panorama istituzionale. Difatti, lo stesso è stato ideato come una organizzazione che, pur ricomprendendo una pluralità di strutture e soggetti, trova la sua identità nel perseguimento di una missione comune, riconosciuta nella tutela della salute.

La riforma, muovendo dall’esigenza di superare il sistema mutualistico, individuava quale titolare del diritto non più il lavoratore bensì il cittadino. A quest’ultimo andava perciò riconosciuto il diritto di pretendere dallo Stato le necessarie garanzie sanitarie e, quindi, il libero e indisturbato godimento di quel complesso di strutture e servizi propri del SSN, senza distinzione di condizioni individuali o sociali e secondo modalità improntate all’uguaglianza dei cittadini[4].

Il fabbisogno dei servizi e delle attività veniva enucleato dalla programmazione sanitaria e ciò avrebbe dovuto determinare l’entità del finanziamento. La gestione veniva concretamente affidata a nuove realtà giuridiche cosiddette Unità Sanitarie Locali (USL), di incerta qualificazione normativa[5], il cui riferimento istituzionale era il Comune singolo o associato ad altri. Le USL, in particolare, erano le “anime” del SSN, che si occupavano di garantire prestazioni sanitarie; non erano dotate di personalità giuridica ma avevano propri organi di gestione, quali l’assemblea generale – composta dal consiglio comunale o dai rappresentanti dei consigli comunali – e il comitato di gestione, che svolgeva compiti di amministrazione attiva.

Tuttavia, l’eccessiva ingerenza della politica nella gestione della Salute, ha determinato la crisi del sistema. Ben presto si sono configurati ostacoli insormontabili sul piano dell’efficacia e dell’efficienza dell’intervento decisionale e organizzativo, facendo sì che la qualità delle prestazioni e dei servizi precipitasse e che, di conseguenza, il nuovo impianto legislativo subisse forti limitazioni nella fase attuativa.

Un siffatto stato di cose – ulteriormente aggravato dalla mancata previsione di norme sanzionatorie dirette all’amministrazione dissennata – ha prodotto un esagerato incremento del debito pubblico, tanto da far diventare la sanità la spada di Damocle dei governi e dei cittadini.

La riforma, dunque, si avviò, in meno di vent’anni, al suo naturale fallimento provocato da due problemi sempre più incombenti sulla realtà: l’aumento incontrollato della spesa sanitaria e la sfiducia dei cittadini verso il servizio pubblico della Salute.

La riforma bis. La messa in campo dell’accreditamento istituzionale

Il sistema delineato dalla riforma del 1978 durò fino alla fine degli anni ottanta, quando – a causa dell’enorme indebitamento – venne ridotto il ruolo degli Enti locali e valorizzato quello delle Regioni[6], alle quali, tra l’altro, furono attribuiti poteri gestionali.

Il contenimento della spesa sanitaria indirizzava il sistema verso una conduzione di tipo manageriale, orientata alla valutazione dei risultati prodotti e alla qualità dei servizi erogati. Infatti, la riforma realizzata dal Governo di allora con il d.lgs.  30 dicembre 1992, n. 502[7], modificato e integrato dal d.lgs. 7 dicembre 1993, n. 517[8], si imperniava sulla rivisitazione del sistema di finanziamento alla luce dell’individuazione di livelli uniformi di assistenza che fossero funzionali alle risorse disponibili, definite annualmente dalla legge finanziaria. Sorgeva così l’attuale modello di aziendalizzazione del sistema sanitario, improntato a principi di efficacia, di efficienza, di economicità e di competitività[9].

Peraltro è necessario ricordare che la succitata riforma ha, anche, il merito di aver introdotto nel panorama normativo italiano l’accreditamento istituzionale delle prestazioni sanitarie – in sostituzione del precedente sistema del convenzionamento[10] – attraverso il quale il SSN può avvalersi del privato richiedente, nel perseguimento dell’interesse generale della salute. Da quel momento una funzione inequivocabilmente pubblica, quale quella della tutela della salute, può essere esercitata tanto da un soggetto pubblico quanto da un soggetto privato, purché, quest’ultimo, dimostri il possesso di determinati standard qualitativi.

La cosiddetta aziendalizzazione del SSN produce la prima separazione del concetto di erogazione da quello di garanzia della prestazione.

L’AUSL, difatti, ha il compito di assicurare i LEA ai cittadini che fanno riferimento a essa per ambito territoriale, mediante l’erogazione diretta delle prestazioni ovvero mediante una programmazione di interventi che coinvolgono presidi diversi.

La norma fondamentale che riassume e indirizza il disegno riformatore, in tema di erogazione delle prestazioni sanitarie, è il comma 5 dell’articolo 8 del D.lgs. n. 502/92, il quale, oltre a indicare i servizi che debbono essere assicurati obbligatoriamente dalle AUSL[11], prevede anche che l’azienda – per assicurare tali servizi – possa avvalersi “dei propri presidi, nonché delle aziende e degli istituti ed enti di cui all’art. 4, delle istituzioni sanitarie pubbliche, ivi compresi gli ospedali militari, o private e dei professionisti. Con tali soggetti l’Unità Sanitaria locale intrattiene appositi rapporti fondati sulla corresponsione di un corrispettivo predeterminato a fronte della prestazione resa”.

Una volta individuati i criteri – applicando i quali le strutture private devono assicurare le medesime garanzie qualitative delle strutture pubbliche – e, definita la programmazione della spesa che dovrà sostenersi secondo i tariffari predeterminati dalle Regioni su indicazione del Ministero, è il cittadino-utente, in attuazione del principio della libera scelta del medico e/o del luogo di cura, che concretizza de facto una “competizione” tra strutture pubbliche e private.

Il D.lgs. 502/92, si fonda interamente su un modello di piena concorrenza tra gli operatori della salute. I principi alla base del succitato modello sono la parità tra strutture pubbliche e private, in competizione tra loro, e la libertà di scelta degli utenti. L’accreditamento istituzionale, alla luce di questa impostazione, risulta completamente avulso dal sistema della programmazione sanitaria; in cui, invece, il pubblico assume un ruolo preminente, anche come erogatore diretto dei servizi, e il privato mantiene una posizione tutt’al più sussidiaria.

La giurisprudenza di quegli anni, in particolare quella della Corte costituzionale[12], si è soffermata sull’esistenza di un vero e proprio diritto all’accreditamento in capo alle strutture sanitarie in possesso dei requisiti richiesti. Le Regioni Lombardia, Emilia Romagna e Sicilia, avevano sollevato la questione di legittimità costituzionale in ordine all’art. 6, comma 6, Legge 724/94[13], sostenendo che la succitata norma sanciva il diritto all’accreditamento di alcune strutture in possesso dei requisiti tecnici previsti dalla legge, sicché ciò comportava un utilizzo incompleto delle strutture pubbliche.  Sostenevano, inoltre, che, in virtù dell’aumento degli operatori accreditati al SSN, i costi del mantenimento delle strutture sanitarie pubbliche, derivanti delle prestazioni degli erogatori privati, avrebbero portato ad una dilatazione della spesa sanitaria.

Il Giudice delle leggi, con la sentenza n. 416/1995, ha dichiarato la manifesta infondatezza della questione e la conseguente legittimità della norma, precisando, che “l’accreditamento delle strutture sanitarie consiste nel riconoscimento, ad opera delle regioni, del possesso, in capo ad organismi sanitari di cura, di specifici requisiti – c.d. standard di qualificazione – e si risolve nell’iscrizione in un elenco al quale gli utenti delle prestazioni sanitarie possono attingere, l’art. 6, 6º comma, l. 23 dicembre 1994 n. 724 che prevede un diritto di accreditamento – automatico per il biennio 1995-1996 – delle strutture in possesso dei requisiti di cui all’art. 8, 4º comma, d. lgs. 30 dicembre 1992 n. 502, come stabiliti con atto di indirizzo e coordinamento governativo emanato d’intesa con la conferenza permanente stato-regioni, non contrasta con gli art. 117, 118 e 119 cost.; tale sistema non altera, infatti, gli equilibri attualmente esistenti nel settore, né incide, scavalcandoli, sui poteri amministrativi regionali, in quanto il diritto è pur sempre subordinato all’accettazione del nuovo meccanismo della remunerazione delle prestazioni su base di tariffe ed all’espletamento dei poteri di autotutela e di verifica regionale sul rispetto della predetta condizione e sul permanere dei requisiti, salva inoltre la facoltà delle regioni di aumentare, con nuovi accertamenti, il numero degli accreditamenti in atto”. Pertanto, in ordine al rilascio del medesimo accreditamento, non avrebbe dovuto sussistere alcun margine di discrezionalità da parte della pubblica amministrazione procedente.

Invero, così inteso, l’accreditamento si sostanzia nell’autorizzazione all’esercizio dell’attività sanitaria, essendo, entrambi gli istituti, soggetti a medesimi requisiti, con la conseguenza che il loro possesso è sufficiente all’erogare prestazioni sanitarie in nome e per conto del SSN. In un siffatto sistema fortemente aperto, l’Amministrazione, dunque, è titolare di una discrezionalità meramente tecnica, non potendo, di fatto, porre barriere all’ingresso dei privati a fronte del rispetto dei requisiti normativi.

Il d.P.R. 14 gennaio 1997

Il legislatore, già nel 1997 con atto di indirizzo e coordinamento del 14 gennaio[14], riporta il baricentro del sistema nell’ottica della programmazione sanitaria, disponendo che l’accreditamento istituzionale delle strutture sanitarie debba essere funzionale alle scelte di programmazione[15].

Il predetto decreto presidenziale – espressamente richiesto dall’articolo 8 del D.lgs. 502/92 – individuava i requisiti minimi strutturali, tecnologici e organizzativi necessari alle strutture, pubbliche e private, al fine di ottenere l’autorizzazione all’esercizio delle attività sanitarie. Il medesimo decreto disponeva, altresì, che le Regioni determinassero gli standard qualitativi, costituenti i requisiti ulteriori per l’accreditamento delle strutture pubbliche e private in possesso dei requisiti minimi per l’autorizzazione.

Inizia, dunque, a chiarirsi che l’accreditamento è un elemento ulteriore rispetto all’autorizzazione, la quale è solo il presupposto indispensabile per poter esercitare un’attività sanitaria. L’accreditamento, invece, consente di agire per conto del SSN e, pertanto, può essere concesso solo a fronte del comprovato possesso di ulteriori requisiti.

In particolare, le Regioni, a norma del decreto de quo, nell’individuare i requisiti necessari per l’accreditamento, dovranno attenersi a quattro criteri:

1) la funzionalità dell’accreditamento in base alle scelte di programmazione regionale;

2) l’unicità del regime di accreditamento delle strutture, ossia garantire la qualità delle prestazioni e non operare discriminazioni tra soggetto pubblico e privato;

3) l’unicità degli standard di dotazione;

4) il risultato positivo che le strutture devono presentare rispetto al controllo di qualità[16].

In questa nuova veste l’accreditamento cessa di essere un diritto. L’articolo 2, comma 7, difatti, afferma che la qualità di soggetto accreditato non costituisce vincolo affinché le Aziende e gli Enti del SSN corrispondano la remunerazione per le prestazioni dallo stesso erogate, ma solo un potenziale status, sulla base del quale il soggetto titolare del servizio valuterà se e quando avvalersi delle prestazioni dello stesso.

La giurisprudenza amministrativa[17], in merito, ha affermato che il d.P.R. 14 maggio 1997 ha individuato in modo preciso la funzione teleologica dell’accreditamento, la quale deve risultare funzionale alle scelte di programmazione regionale. L’accreditamento non può più essere considerato alla stregua di un diritto, posto che il d.P.R. citato ha delineato un assetto caratterizzato da un’accresciuta discrezionalità amministrativa – non più meramente tecnica – in ordine all’adozione dei provvedimenti necessari alla concessione del medesimo.

La possibilità di accreditare nuove strutture sanitarie, invero, è subordinata alle scelte programmatiche effettuate dalla Regione sulla scorta dell’effettivo bisogno assistenziale.

La svolta introdotta dal D.lgs. 19 giugno 1999, n. 229

La riforma del 1998-1999[18] porta a compimento l’inversione di tendenza con lo scopo di regolamentare l’accesso dei soggetti accreditati al sistema dell’erogazione delle prestazioni salutari per conto del SSN, anche mediante una diversa valorizzazione dei compiti delle Regioni.

Difatti, l’articolo 8-bis, d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 502, così modificato dall’articolo 8, d.lgs. n. 229/1999, prevede oggi, al comma 1, che le Regioni assicurino i livelli essenziali e uniformi previsti dall’articolo 1 del medesimo decreto, avvalendosi dei “presidi direttamente gestiti dalle aziende unità sanitarie locali, delle aziende ospedaliere, delle aziende universitarie e degli istituti di ricovero e cura a carattere scientifico, nonché di soggetti accreditati ai sensi dell’articolo 8-quater, nel rispetto degli accordi contrattuali di cui all’articolo 8-quinquies[19].

Il mutamento di rotta, tra l’altro, viene repentinamente accolto dalla giurisprudenza amministrativa[20], la quale afferma che l’articolo 8, comma 7, d.lgs. n. 502/92, attribuendo alla potestà regionale il compito di rideterminare il fabbisogno di attività convenzionate, necessarie per assicurare i livelli obbligatori e uniformi di assistenza, introduce un sistema fortemente limitato, nell’adozione dei provvedimenti necessari per il passaggio al sistema dell’accreditamento.

In tale prospettiva, la cosiddetta riforma Bindi ha previsto che la realizzazione di strutture sanitarie e l’esercizio dell’attività sanitaria, per conto del Servizio Sanitario Nazionale e a carico del medesimo, siano il risultato di un percorso denominato delle “tre A”, che si concretizza:

1) nell’adozione dei provvedimenti di autorizzazione (alla realizzazione di strutture e all’esercizio di attività sanitarie e socio-sanitarie) di cui all’art. 8-ter, d.lgs. n. 502/1992 (adottati previa verifica di compatibilità effettuata in rapporto al fabbisogno complessivo e alla localizzazione territoriale delle strutture presenti in ambito regionale);

2) nell’adozione dei provvedimenti di accreditamento istituzionale di cui al successivo art. 8-quater (rilasciati previa verifica della rispondenza dei soggetti istanti ai requisiti ulteriori di qualificazione e della compatibilità dei nuovi atti con la programmazione sanitaria regionale);

3) nella stipula degli accordi contrattuali secondo la disciplina dell’art. 8-quinquies (segnatamente, il comma 2 parla di «accordi» con le strutture pubbliche, e di «contratti» con le strutture private)[21].

In sostanza, l’accreditamento istituzionale – da atto vincolato, finalizzato all’immissione di soggetti pubblici e privati nel SSN – si trasforma in uno degli elementi di un procedimento complesso, volto al contingentamento delle risorse e alla connessa limitazione del numero dei soggetti erogatori di prestazioni sanitarie. La consistenza numerica degli accreditati appare, dunque, strettamente relazionata (sic condizionata!) all’effettivo fabbisogno epidemiologico espresso nella singola Regione[22].

La giurisprudenza amministrativa successiva al riordino del ’99, dal canto suo, non ha avuto alcuna difficoltà a ripristinare il vecchio schema della concessione e a imputare al privato accreditato una situazione di interesse legittimo[23].

In particolare, i Giudici di Palazzo Spada hanno affermato che non esiste un vero e proprio diritto all’accreditamento con il SSR, poiché il riconoscimento del medesimo resta pur sempre subordinato all’esito di attività discrezionali, quali la ricognizione del fabbisogno assistenziale e la programmazione sanitaria regionale. In un sistema così delineato, la Regione assume il potere-dovere di effettuare i controlli e le verifiche circa l’effettivo possesso, da parte del soggetto richiedente, dei requisiti “strutturali, tecnologici e organizzativi minimi”, nonché l’obbligo di retribuire le prestazioni erogate dal medesimo soggetto con il sistema della remunerazione-prestazione.

Il succitato assunto giurisprudenziale, in sostanza, consacra lo stabile inserimento delle strutture private, autorizzate e accreditate, nel sistema della salute codificando il ruolo complementare, giuridicamente tutelato, dell’imprenditore privato autorizzato a esercitare nel campo salutare, insieme al servizio pubblico[24].

Da quanto sinora esposto emerge che il soggetto privato accreditato – sebbene rimanga strutturalmente e organizzativamente un’impresa, tesa, dunque, alla realizzazione di un utile – sul piano funzionale, limitatamente all’ambito e alle prestazioni oggetto di accreditamento, diventa parte integrante del Sistema Sanitario Regionale: alla originaria concessione si affianca un rapporto contrattuale che configura il privato concessionario quale organo pubblico parificato alle strutture pubbliche stricto sensu.

[1] Italia. Legge 23 Dicembre 1978, n. 833. Istituzione del Servizio Sanitario Nazionale. Gazzetta Ufficiale – Supplemento Ordinario n. 360, 28 dicembre 1978.

[2] Il soggetto privo di una regolare posizione lavorativa, in caso di malattia, non poteva far altro che rivolgersi, a proprie spese, alle strutture sanitarie private.  Oppure in caso di certificata povertà affidarsi alle istituzioni di beneficenza, prevalentemente a carattere religioso, o – se iscritto nel cosiddetto “elenco dei poveri” – accedere alle prestazioni sanitarie gratuite rese agli iscritti.

[3] In particolare, ci si riferisce all’universalità, all’eguaglianza, alla uniformità, alla globalità delle prestazioni e alla socialità dell’intervento sanitario.

[4] JORIO E., Diritto della sanità e dell’assistenza sociale, Maggioli, Bologna, 2013

[5] L’articolo 15 della legge n. 833/78 che disciplina le USL, non conteneva elementi sufficienti a delineare le loro caratteristiche funzionali e la loro configurazione giuridica, in quanto rinviava alla potestas legislativa regionale il compito di legiferare nel dettaglio – ai sensi anche dell’allora vigente art. 117 Cost. – senza, tuttavia, pronunciarsi circa i principi fondamentali cui il legislatore regionale avrebbe dovuto attenersi.

[6] La legge 4 aprile 1991, n. 111 decretò la soppressione dei comitati di gestione per far posto agli amministratori straordinari delle unità sanitarie locali di nomina regionale.

[7] Italia. Decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502. Riordino della disciplina in materia sanitaria, a norma dell’articolo 1 della legge 23 ottobre 1992, n. 421. Gazzetta Ufficiale – Supplemento Ordinario n. 305, 30 dicembre 1992.

[8] Italia. Decreto legislativo 7 dicembre 1993, n. 517. Modificazioni al DL.vo 30 dicembre 1992, n. 502, recante riordino della disciplina in materia sanitaria, a norma dell’art. 1 della Legge 23 ottobre 1992, n. 421”. Gazzetta Ufficiale – Serie Generale n. 293, 15 dicembre 1993.

[9] BOTTARI C., Tutela della salute ed organizzazione sanitaria, Torino, Giappichelli, 2011.

[10] Il regime di convenzionamento di cui alla Legge n. 833/78 prevedeva che i privati potessero erogare servizi sanitari previa stipula di una convenzione con il SSN. La posizione del privato era meramente sussidiaria e l’amministrazione godeva di un ampio margine di discrezionalità, sicché erano convenzionate solo quelle strutture necessarie al raggiungimento di parametri quantitativi che le Aziende pubbliche non riuscivano a raggiungere.

[11] Il citato comma 5 dell’articolo 8 si riferisce alle “prestazioni specialistiche, ivi comprese quelle riabilitative, di diagnostica strumentale e di laboratorio e ospedaliere”.

[12] Corte Cost., 28 luglio 1995, n. 416, in Cons. Stato, 1995, p. 1331.

[13] Il succitato comma stabiliva che: “A decorrere dalla data di entrata in funzione del sistema di pagamento delle prestazioni sulla base di tariffe predeterminate dalla Regione cessano i rapporti convenzionali in atto ed entrano in vigore i nuovi rapporti fondati sull’accreditamento, sulla remunerazione delle prestazioni e sull’adozione del sistema di verifica della qualità previsti all’art. 8, comma 7, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502 e successive modificazioni ed integrazioni. La facoltà di libera scelta da parte dell’assistito si esercita nei confronti di tutte le strutture ed i professionisti accreditati dal Servizio sanitario nazionale in quanto risultino effettivamente in possesso dei requisiti previsti dalla normativa vigente e accettino il sistema della remunerazione a prestazione. Fermo restando il diritto all’accreditamento delle strutture in possesso dei requisiti di cui all’art. 8, comma 4, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502 e successive modificazioni, per il biennio 1995-1996 l’accreditamento opera comunque nei confronti dei soggetti convenzionati e dei soggetti eroganti prestazioni di alta specialità in regime di assistenza indiretta regolata da leggi regionali alla data di entrata in vigore del citato decreto legislativo n. 502 del 1992, che accettino il sistema della remunerazione a prestazione sulla base delle citate tariffe”.

[14] Italia. Decreto del Presidente della Repubblica 14 gennaio 1997, in Gazzetta Ufficiale Supplemento Ordinario n. 42 del 20 febbraio 1997.

[15] In particolare, l’articolo 2, comma 5, lett. a), del succitato D.P.R. prevedeva che l’accreditamento della singola struttura fosse funzionale alle scelte di programmazione regionale, nell’ambito delle linee di programmazione nazionale.

 

[16] D’ONOFRIO P, L’accreditamento nel sistema socio-sanitario: profili giuridici, in BOTTARI C. (a cura di), Terzo settore e servizi socio-sanitari: tra gare pubbliche e accreditamento, 2013, Giappichelli, Torino.

[17] Cons. Stato, Ad. Plen., 2 maggio 2006.

 

[18] Italia. Decreto Legislativo 19 giugno 1999, n. 229. Norme per la razionalizzazione del Servizio Sanitario Nazionale, a norma dell’articolo 1 della Legge 30 novembre 1998, n. 419. Gazzetta Ufficiale – Supplemento Ordinario n. 165, 16 luglio 1999.

[19] Il successivo comma 3 aggiunge che “La realizzazione di strutture sanitarie e l’esercizio di attività sanitarie, l’esercizio di attività sanitarie per conto del Servizio sanitario nazionale e l’esercizio di attività sanitarie a carico del Servizio sanitario nazionale sono subordinate, rispettivamente, al rilascio delle autorizzazioni di cui all’articolo 8-ter, dell’accreditamento istituzionale di cui all’articolo 8-quater, nonché alla stipulazione degli accordi contrattuali di cui all’articolo 8- quinquies (…)”.

[20] Cons. Stato, Sez. IV, 20 luglio 1998 n. 1097, in Cons. Stato, 1998, I, 1124.

 

[21] TARULLO S., Concorrenza ed evidenza pubblica nel sistema degli accreditamenti sanitari tra regole nazionali ed assetti comunitari, in Munus, Rivista giuridica dei servizi pubblici, 1/2012, pp. 21-62.

[22] In tal senso, l’art. 8 quater, commi 7 e 8, dispone che la richiesta di accreditamento da parte di strutture, nuove o già attivate, possa intervenire in via provvisoria ovvero per il tempo necessario alla Regione per verificare il volume delle attività svolte e la qualità delle prestazioni erogate

[23] Cons. di Stato, Sez. V, 29 gennaio 2008, n. 1988; Cons. di Stato, n. 915/2010.

[24] JORIO E., Op. cit.

 

Avv. Corti Serena

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