Lucia Nacciarone
Con la sentenza n. 28465 del 2 luglio 2013 i giudici di legittimità hanno confermato la condanna per aver violato le disposizioni concernenti l’espulsione amministrativa di cui all’art. 13 del D.Lgs. 286/1998, nonché per i reati di resistenza a p.u. e lesioni personali.
L’imputato, reo di esser rientrato in Italia prima della scadenza del divieto, (nella fattispecie passati quattro anni e nove mesi dall’intervenuta espulsione invece che i cinque prescritti dalla direttiva rimpatri UE), dovrà ora scontare la pena di nove mesi di reclusione.
Inutile per la difesa invocare l’abolitio criminis, sulla base delle intervenute modifiche susseguitesi nel tempo al testo della normativa richiamata. In particolare, sottolineano i giudici che prima della legge 189/2002 era previsto che la durata del divieto di rientro sul territorio nazionale, successivamente all’emissione del provvedimento di espulsione, fosse di cinque e non di dieci anni.
Sul punto, poi la stessa Cassazione aveva precisato: «Il rientro nel territorio dello Stato dello straniero espulso che non abbia una speciale autorizzazione non è più previsto come reato, ove avvenga oltre il quinquennio dall’espulsione, perché la norma incriminatrice, ponendo un divieto di rientro per un decennio, deve essere disapplicata per contrasto con le disposizioni della direttiva 2008/115/CE del 16 dicembre 2008 del Parlamento e del Consiglio dell’Unione europea, che hanno acquistato efficacia diretta e che prevedono che il divieto di reingresso non possa valere per un periodo superiore a cinque anni».
Pertanto, proseguono i giudici, l’art. 13 nella parte in cui fissa in dieci anni la durata del divieto di reingresso nel territorio dello Stato per lo straniero che ne sia stato espulso contrasta con la direttiva, che ha acquisito diretta efficacia nell’ordinamento nazionale nel 2010, secondo cui la durata del divieto di ingresso non può superare i cinque anni.
È, comunque, da escludere l’abolitio criminis: perciò la condanna deve essere confermata.
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